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“ Il cannocchiale del tenente Dumont” di Marino Magliani – Premio Strega 2022

Di Vladislav Karaneuski

La Liguria è una regione importante per la letteratura italiana. Tra le sue coste frastagliate, tra le sue onde, nei suoi spazi silenziosi e insondabili, nei suoi vuoti e nelle sue muraglie, tanto inchiostro è stato gettato: abbiamo autori come Montale o Camillo Sbarbaro. Ed è da qui, dalla menzione di questo territorio che bisogna partire per analizzare il romanzo di Magliani, poiché anch’egli è ligure e anch’egli ambienta il suo testo in questa terra impervia.

Trama

La Liguria non è solo lo sfondo ma è il vero protagonista de Il cannocchiale del tenente Dumont. Infatti tutto il romanzo si incentra sulla descrizione del territorio ligure e la focalizzazione sembra essere proprio all’interno del cannocchiale: una sorta di narrazione in presa diretta della regione, dove ogni dettaglio minimo viene registrato con una tecnica quasi cronachistico-documentale; al cannocchiale non sfugge nulla. I protagonisti sono tre soldati francesi disertori, Dumont, Urruti e Lemaine, reduci della battaglia di Marengo: di conseguenza ci troviamo all’inizio dell’Ottocento.

Cogli indumenti lacerati e pieni di ferite riportate in battaglie precedenti i tre soldati scappano attraversando la Liguria, nella speranza di trovare una nave che possa portarli lontano, oltreoceano forse, dove ritrovare la libertà perduta. Ma i tre soldati non sono soli.

Un dottore di nome John Cornelius Zomer li fa inseguire, non per arrestarli, ma per studiare il fenomeno della diserzione in relazione all’utilizzo di hascisc. Infatti i tre soldati portano con sé un certo quantitativo della sostanza stupefacente.

La conseguenza di ciò sono una serie di peripezie nell’impervio territorio ligure, dove quest’ultimo, attraverso il cannocchiale di Dumont assume un ruolo molto rilevante.

Commento

Il romanzo, come già dicevo nell’introduzione, è un romanzo incentrato sul territorio ligure, infatti la descrizione di ogni dettaglio minimo del territorio prende di per sé gran parte delle pagine. Ora, questa focalizzazione in presa diretta dove tutto deve essere descritto, anche l’elemento meno significativo del territorio o delle azioni minime dei personaggi, rende la trama alquanto pedante e incespicante su se stessa. Insomma, se l’intento era di conferire un certo realismo, cioè di rappresentare la realtà della Liguria dell’800 come una carta 1:1, ciò collide con gli stessi presupposti del genere romanzo dove l’elemento di finzionalità ha inevitabilmente una certa preponderanza. Difatti, lo stesso Roland Barthes, in un suo saggio sul realismo in letteratura, preferisce parlare di “effet de reél” come elemento base del realismo nel romanzo (Barthes, 1968). Ciò significa che, riprendendo l’esempio che fa Barthes del barometro di Mme Aubaine in Un coeur simple di Flaubert, l’oggetto reale, che di per sé è un elemento “inutile” ai fini della trama del romanzo, viene posto come dispositivo di reale atto a creare la patina del realismo. Walter Siti in un suo saggio, Il realismo è l’impossibile, addirittura, con quelle che mi paiono anche delle plausibili argomentazioni, riprende il concetto appena enunciato di Barthes per ribaltare completamente la questione: se non si può rappresentare una mappa 1:1 del reale in letteratura significa che il realismo è essenzialmente inarrivabile. Ma senza voler arrivare a conclusioni così rivoluzionarie per la letteratura moderna e contemporanea, dobbiamo rilevare la giustezza almeno della tesi di Barthes. Naturalmente il procedimento di “effet de reél” viene assolto dagli scrittori in modo diverso rispetto soprattutto alle necessità storiche, e qui mi permetto di menzionare soprattutto la visione storicista di Auerbach nel suo testo più famoso, Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale. Ecco che nella modernità, dall’800 in poi, con modalità e incidenze differenti, il romanzo, pur contravvenendo in parte all’elemento della fictio, ha cercato di rappresentare in modo sempre più mimetico l’uomo e il reale sensibile.

Ora, l’elemento di finzione però rimane, in qualsiasi romanzo in quanto tale, anche in quello realista. Infatti, “l’effet de reél”, come ha ben detto Barthes, è dato dalla menzione di pochi oggetti reali, ma che rimangono sullo sfondo di vicende più importanti per lo sviluppo del tessuto narrativo. Nel romanzo di Magliani invece gli elementi “inutili” pervadono completamente la pagina, sono numericamente troppi, e interrompono troppo spesso il filo della trama, ritornandone sempre una significazione alquanto irrilevante. L’ossessione degli oggetti reali e la sua continua menzione dovrebbe invece portare con sé un significato vitale per la trama e per la comprensione del messaggio dell’autore. La citazione vuota di alberi, piante, vigne, mari, coste e ancora alberi, piante, vigne, mari e coste non ha alcun senso, ed è pura pedanteria. Come si possono usare elementi di questo tipo? Una possibilità credo ci venga data dalla più alta letteratura italiana, si pensi a quella siepe leopardiana che il poeta non menziona come elemento “inutile” nell’Infinito, ma è ciò esclude l’orizzonte e fa scaturire l’immaginazione. Un altro modo è quello di utilizzare la tecnica simbolista, quella che deriva da Mallarmé e che ha in Italia i suoi esiti migliori soprattutto nella poesia ermetica. Ma qui già si parla più di poesia che di narrativa, anche se di certo il caricare semanticamente gli oggetti e dargli una significazione propria, di un reale più autentico perché in qualche modo trascendentale al reale sensibile, quasi si volesse dare un significato più vero al proprio testo, è una tecnica utile in qualsiasi tipo di forma letteraria, e direi artistica anche.

Inoltre, mi pare questo romanzo lo si sia in parte definito “romanzo d’avventura”. Il romanzo d’avventura nasce nel XVIII secolo, dove era inteso come genere che al centro delle sue narrazioni aveva viaggi in terre lontanissime, incontri con diverse culture inimmaginabili, aveva dunque questo elemento di esotismo meraviglioso. Gli autori che appartenevano a questo genere erano scrittori dal calibro di Defoe, Swift, Scott o Verne.

I prodromi del romanzo d’avventura però li ritroviamo già nell’epica classica, in Omero o Virgilio, per citare i più famosi, e nel romanzo medievale, in particolare nella materia arturiana, nella tradizione agiografica e, in qualche modo in relazione con quest’ultima, nella Chanson de Roland.

Se prendiamo semplicemente l’Odissea ci accorgiamo di quante vicende accadono, tanto da rendere il titolo di quest’opera un’espressione talora usata nel linguaggio comune con un significato di iperbolicità. Nel romanzo di Magliani non accade essenzialmente nulla: i tre personaggi principali attraversano una terra dove trovano soltanto desolazione, se non per sparute e isolate vicende come l’incontro con dei lebbrosi, il fortunoso ritrovamento di asparagi, o l’avvistamento continuo di qualche gruppo di soldati francesi, solitamente irrilevante ai fini della trama. Ecco, se non accadono avventure, ciò che accade è la perenne contemplazione e menzione degli elementi “inutili”, per citare ancora Barthes. Dunque questa sorta di apparizione epifanica di alberi, coste e colline prende il posto delle avventure.

Di solito, nella letteratura moderna dal fine ‘800 in poi, quando in una trama non accade nulla non significa di conseguenza che il testo sia pedante. Si pensi ad esempio al magistero di Marcel Proust e le migliaia di pagine della recherche che non trovano una trama veloce e piena di vicende, quanto una profonda introspezione del mondo interiore del personaggio principale. Proust inventò così il romanzo psicologico, con cui tutto il ‘900 avrebbe dovuto fare i conti.

Nel romanzo di Magliani non ci sono delle vere introspezioni, se non nell’ennesima pedanteria intrisa di un pathos troppo forzato e ostentato delle lettere scritte dal dottor Zomer al dottor Larrey, dove si perdono pagine a mimare una discussione epistolare che non ha nulla a che vedere con il rapporto più “accademico” e “lavorativo” tra un datore di lavoro e un suo dipendente. In certi punti si arriva quasi ad una carica romantica che ha un che di goethiano, degna delle epistole del giovane Werther. Una carica romantica un po’ fuori luogo, che non c’entra molto con uno scambio epistolare tra un dottore ricercatore che cerca di attribuire all’utilizzo dell’hascisc il motivo della diserzione e un altro che si aspetta dei risultati dalla ricerca, per non finire nei guai, visto che nel frattempo i fuggiaschi scappano e le autorità non attendono altro che di catturarli.

Allora, se non è un romanzo psicologico, non è un romanzo di avventura, torniamo al punto di partenza: forse si è tentato soltanto di creare un romanzo realista. Però, ripeto, un romanzo realista è sempre un romanzo che ha bisogno di una fabula ed un intreccio per andare a intessere una trama, con delle vicende chiare e interessanti. Se tali elementi non ci sono il romanzo non è riuscito. In questo caso gli unici elementi paiono essere delle menzioni di sfondo di oggetti “inutili”, ecco, forse è più materia per un documentario. D’altronde, di fronte ad una vita che non è mai perfetta, il romanzo si pone come genere che conferisce proprio quella dimensione di dolce irrealtà che ci faccia sognare un orizzonte al di là delle muraglie del reale. Qui non vi è nulla di tutto questo e perciò secondo me questo romanzo non è riuscito.


https://arateacultura.com

https://www.lormaeditore.it/libro/9788831312677

Vladislav Karaneuski

Redattore di Letteratura e Critica Contemporanea