Critica di Prosa,  Letteratura

Caro Michele, un percorso tra Natalia Ginzburg e Jean-Paul Sartre per comprendere l’incomunicabilità della società borghese degli anni ‘70

E. Hopper, Office in a Small City, 1953

Scritto da Natalia Ginzburg nel 1973, “Caro Michele” è un romanzo epistolare che ricostruisce gli eventi di una “rete di affetti” mediante un susseguirsi di corrispondenze ordinate cronologicamente le quali costituiscono l’opera nella sua interezza. Perno dell’intera narrazione è Michele, giovane ribelle che, nel pieno degli “anni di piombo”, rifugge gli ideali e la classe sociale a cui appartiene a favore di una vita nomade, a tratti sregolata.

La vicenda narrata è costruita attorno a una serie di lettere che la madre Adriana, le sorelle Angelica e Viola e gli amici Osvaldo e Mara si scambiano, non solo con Michele, ma anche tra di loro. Sulla base di una scansione cronologica delle epistole vengono dipinte le fisionomie dei personaggi che, attraverso le loro parole e le descrizioni altrui, assumono colori e sfumature molteplici. 

Il narratore è per la quasi totalità del romanzo assente e la visione del mondo, della società e dei rapporti interpersonali è lasciata alla voce dei protagonisti stessi: si alternano focalizzazioni differenti che, pur essendo tra loro sovrapposte, paiono incastonate in un “puzzle” di eventi che danno all’intera vicenda narrata una parvenza di linearità. Esemplificativa a riguardo è la “sovrapposizione” tra il capitolo XIV e il XV dove prima Adriana e successivamente Mara raccontano in una lettera la medesima cena: nel primo capitolo la Madre di Michele racconta i preparativi della serata, le ansie della cognata e le preoccupazioni tipiche della “media borghesia” degli anni ‘70, ma all’arrivo degli ospiti la lettera si interrompe e l’evento è riproposto dalla prospettiva esterna di Mara che descrive la scena filtrandola attraverso il suo disagio e il suo malessere. 

In alcuni momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo, emerge un narratore figurale che “scioglie” alcuni nodi garantendo al fruitore una continuità nello svilupparsi del testo. In queste sezioni la narrazione è resa dinamica e a tratti pungente dalla presenza di discorsi diretti tra i personaggi che si esprimono liberamente attraverso dialoghi serrati. 

Dal punto di vista temporale, fabula e intreccio coincidono e la “linearità” è marcata dalla presenza delle date e del luogo a destra del mittente. Ciò nonostante è frequente la presenza di numerose analessi, presentate sotto forma di ricordi che, venendo raccontati nelle lettere, sono propedeutici al contesto: permettono infatti al lettore di comprendere la natura dei rapporti tra i vari protagonisti del romanzo.

Il paradosso dell’incomunicabilità

Natalia Ginzburg pone il fruitore al cospetto di un romanzo epistolare, basato sulla comunicazione tra soggetti disparati: la narrazione, scandita mediante il sapiente uso della lettera, propone una visione soggettiva e interiorizzata della realtà. La vicenda, venendo percepita nella sua totalità come reale, stimola l’immedesimazione rendendo il lettore partecipe al corso degli eventi.  A differenza di opere come Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo e Pamela, o la virtù premiata di Samuel Richardson, Caro Michele fornisce allo spettatore una corrispondenza letteraria incolore, priva di profondità: anche nei momenti di maggior tensione emotiva i personaggi eludono le loro emozioni, portando il dialogano a un livello di comunicazione superficiale. 

Particolarmente significativo a riguardo è il rapporto che Osvaldo intrattiene con Michele: non si parla di una semplice amicizia, ma di un rapporto di profondo e genuino affetto. I personaggi  insinuano ripetutamente, in maniera anche esplicita, la sua omosessualità ma il tema e il sentimento da lui provato non vengono indagati e non traspare in alcun modo dalla loro corrispondenza. I suoi dialoghi con Michele rimangono sempre futili, sterili e privi di consistenza emotiva. 

Un altro esempio di particolare rilevanza riguarda l’inesistente relazione che intercorre tra Michele e Adriana, sua madre.

Purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, a distanza di tempo. La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo anche dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati forse infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei di quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero ed essenziale per me e per te, destinato ad illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili

Caro Michele, Einaudi, Torino 2001, p. 126

Il loro rapporto è un susseguirsi di “non detti”, di conflitti fuggiti per preservare i pochi momenti di contatto: rievocando i ricordi, Adriana precipita nell’abisso dei suoi stessi rimpianti. In questo rapporto genitoriale si palesa la rappresentazione più evidente di quell’inevitabile e tormentata impossibilità di comunicare che sembra a tratti prescindere dal loro volere. 

Se il lettore riesce a percepire, nell’evocazione dei ricordi e nei piccoli gesti di premura, la sofferenza della madre, quella del figlio rimane invece ignota. La mancanza di una figura materna e la morte del padre sembrano non scalfire minimamente l’emotività di Michele che, più che un personaggio con una fisionomia precisa e strutturata, appare come un’ombra priva di tratti espressivi. Le lunghe lettere inviate dalla madre al figlio esprimono chiaramente la sostanziale condizione di solitudine in cui la donna si trova, la ricerca di un contatto con il figlio si esaurisce in una comunicazione unilaterale, priva di riscontro. 

Il romanzo non vuole mettere in evidenza la mancata volontà da parte dei protagonisti di comunicare, ma l’impossibilità di farlo. Angelica, Osvaldo, Mara e Adriana, come fossero personaggi dei quadri di Edward Hopper lasciano trasparire i loro turbamenti nelle lunghe lettere inviate a Michele, ma da lui ricevono solo brevi e formali risposte. Questo riporta l’impostazione stessa dell’opera a un paradosso, forse ricercato dall’autrice stessa come formula critica della società borghese degli anni ‘70: un romanzo epistolare racconta la mancanza di uno scambio sincero.

L’esistenza d’altri: Michele e la paura dello sguardo

Il concetto di incomunicabilità è strettamente correlato alla relazione del singolo con gli altri. Nel momento stesso della comunicazione Michele nega il confronto che diventa sinonimo di violazione della libertà stessa. Scappato a Londra perché militante in gruppi giovanili rivoluzionari, si stabilisce a Leeds, una piccola città Inglese, dove sposa una donna del posto. Angelica, a lui particolarmente legata, si propone di fargli visita: incontrare la sorella per Michele vorrebbe dire rompere la rete di incomunicabilità e di distanza costruita fino ad ora, sottoporsi al giudizio e allo sguardo dell’altro senza alcuna protezione.

Qualche volta ho nostalgia di voi cioè di quelli che uso chiamare “i miei”, anche se non siete per niente miei come io non sono per niente vostro. Ma se venissi, voi mi osservereste, avrei i vostri sguardi fissi su di me. Ora in questo momento io non ho voglia di avere i vostri sguardi su di me

N. Ginzburg, Caro Michele, Einaudi, Torino 2001, p.117

Leggendo questo breve passo del romanzo, si nota come l’intero periodo rimarchi l’atto del “guardare”. Gli occhi della sorella e della famiglia puntati su Michele provocano angoscia e si manifestano come una realtà da cui fuggire. L’idea di incontrare lo sguardo di amici e parenti suscita “nostalgia ma anche repulsione”, sentimenti che, quando collidono, rendono « i luoghi e le persone che amiamo situati in una grande lontananza e le strade per raggiungerli sembrano rotte e impraticabili ».

Questa lettera, inviata da Michele alla sorella nel XXVIII capitolo stabilisce un essenziale punto di contatto con la filosofia esistenzialista di Jean-Paul Sartre. Nella sua opera principale, L’essere e il nulla, il pensatore novecentesco analizza con precisione questa dinamica di confronto e di relazione con gli altri, affermando che il rapporto con coscienze diverse dalla nostra è vincolato dal contatto visuale, primo passo del disconoscimento dell’Io. 

In altre parole, secondo il filosofo francese, nel momento in cui lo sguardo altrui si pone sul singolo, esso viene trasformato da soggetto a oggetto: questa azione provoca il sentimento della vergogna che si esprime come un turbamento interiore, « è un brivido immediato che mi percorre dalla testa ai piedi senza nessuna preparazione discorsiva ». Tale sentimento deriva dalla messa in discussione della realtà e libertà del soggetto stesso.

Faccio un gesto maldestro o volgare; quel gesto aderisce a me, non lo giudico ne lo biasimo, lo vivo semplicemente, lo realizzo al modo del per-sè. Ma ecco che improvvisamente alzo gli occhi: qualcuno era là e mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e ho vergogna. (…) Altri è il mediatore indispensabile tra me e me stesso: Ho vergogna di me stesso quale appaio ad altri. E con l’apparizione di altri sono posto in condizione di portare un giudizio su me stesso come oggetto, perché come oggetto mi manifesto ad altri.

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, p.272

La vergogna è quindi “riconoscimento di essere come gli altri mi vedono”. Il comportamento di Michele si inserisce a pieno nella filosofia pessimistica di Sartre: lo sguardo della sorella ha una funzione reificante nel farlo sentire vittima del giudizio. Il giovane protagonista, vedendo se stesso come oggetto, corre il rischio di diventare succube di una libertà e una coscienza diversa dalla sua.

Il filosofo afferma inoltre che:

ciò che provo quando sento scricchiolare i rami dietro di me non è che vi sia qualcuno, ma che io sono vulnerabile, che ho un corpo che può essere ferito, che occupo uno spazio e che non posso in nessun caso, evadere dallo spazio in cui sono senza difesa, in breve, che sono visto

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 271-272

Lo sguardo della sorella diventa per Michele una condizione che, quando si realizza, rende vano ogni tentativo di fuga: la vergogna mette in luce la vulnerabilità del singolo, in pericolo per via del dominio dell’osservatore. Di conseguenza, dal rapporto tra due individui non può che derivare un conflitto: lo sguardo non è mai unilaterale ma biunivoco, ogni coscienza per affermare la sua libertà deve “agire sulla libertà dell’altro” che ai suoi occhi diventa oggetto di valutazione e scopi.

Tutto quello che vale per me, vale per gli altri. Mentre io tento di liberarmi dall’influenza d’altri, l’altro tenta di liberarsi dalla mia, mentre io cerco di soggiogare l’altro, l’altro tenta di soggiogarmi. Non si tratta di relazioni unilaterali ma di rapporti reciproci e mobili. (…) Il conflitto è il senso originario dell’essere per altri

J.P. Sartre, L’essere e il nulla,Il Saggiatore, Milano 2014, p. 272

Franco Volpi, filosofo e storico italiano, in un suo articolo pubblicato il 22 marzo 2005 su Repubblica prende in analisi il pensiero di Sartre affermando che gli altri, trasformando il per-se in un essere-per-gli-altri, sono una minaccia alla libertà del singolo. La vergogna che ne scaturisce non è altro che il sentimento rivelatore di questa alienazione: come lo stesso Sartre disse nell’opera teatrale A porte chiuse (1944) “l’inferno sono gli altri”

Ed è proprio sulla base di questa prima conclusione che troviamo un punto d’incontro con Natalia Ginzburg: Michele, rifiuta di entrare a far parte della rete di affetti nella quale si muovono gli altri personaggi perché non vuole sottoporsi al loro sguardo e al loro giudizio. Mara, Osvaldo, Adriana e Angelica tendono a esprimere una ferrata critica e un giudizio severo nei confronti di tutto ciò che appare sotto i loro occhi: ne è esempio manifesto la madre di Michele che, costantemente sottoposta alla sentenza altrui, vive la vergogna così come Sartre la postula, ma allo stesso tempo essa stessa è sguardo giudicante e accusatorio nei confronti di chi le sta attorno. 

In quest’ottica, ogni personaggio in scena si rivela vittima e carnefice: Adriana giudica lo stile di vita nomade e precario di Mara che allo stesso tempo critica e giudica l’anziana donna per i suoi modi e la sua avidità. Nel loro comportamento assume concretezza l’assioma formulato da Jean-Paul Sartre che, inserito nella dimensione medio-borghese degli anni ‘70, trova “sfogo” in un diffuso sentimento di incomunicabilità.

Le relazioni concrete con gli altri: come i personaggi reagiscono alla loro stessa incomunicabilità

Arrivati a questo punto la trattazione di Sartre esamina il rapporto fondamentale che intercorre tra l’Io e gli altri. Il rapporto in questione, come introdotto precedentemente, è di negazione reciproca: io sono colui che non è l’altro e l’altro non è me. Il contatto con le diverse coscienze limita la libertà del singolo e Sartre riconduce il tentativo di agire sulla libertà altrui attraverso due atteggiamenti principali: il desiderio di appropriazione dell’altro e l’indifferenza nei confronti dell’altro.

Il desiderio di appropriazione dell’altro

Questo primo atteggiamento è esemplificato dai sentimenti di amore e masochismo. Per quanto concerne l’amore, Sartre lo definisce come un tentativo di congiunzione tra due coscienze che vogliono padroneggiare l’altro come soggetto. Nella relazione amorosa l’Io vuole mantenere intatta la libertà dell’altro ma allo stesso tempo vuole sottomettere e impadronirsi dell’altro.

Chi accetterebbe di sentirsi dire: “Ti amo perché mi sono liberamente impegnata ad amarti e perché non voglio contraddirmi: ti amo per fedeltà a me stessa” ? Così l’amante chiede il giuramento e si ritrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole insieme che la libertà dell’altro si determini da se ad essere amore – e questo non solo all’inizio dell’avventura ma in ogni istante – e, insieme che questa libertà si imprigioni da se, che ritorni su se stessa, come nella follia, come nel sogno, per volere la sua prigionia. E questa prigionia dev’essere insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 427-428

Nella dinamica dell’amore, si crea dunque, un equilibrio precario che corre il rischio di sfociare nel fenomeno del masochismo. Tale condizione si concretizza nel desiderio di farsi assorbire dall’altro, di sbarazzarsi della propria soggettività facendosi così oggetto. Essendo una coscienza estranea il fondamento dell’esistenza del singolo, egli ha la cura di farlo esistere. Lo stato di alienazione in cui queste persone si trovano porta alla nullificazione e alla volontaria perdita della libertà.

Il masochista ha un bel trascinarsi sulle ginocchia, mostrarsi in posizioni ridicole, farsi utilizzare come semplice strumento inanimato; solo per l’altro sarà osceno o semplicemente passivo, per l’altro subirà tali atteggiamenti; per lui è sempre condannato a darseli

J.P. Sartre, L’essere e il nulla,Il Saggiatore, Milano 2014, p. 439

Nel romanzo della Ginsburg questo atteggiamento si riscontra in particolare nel comportamento di Osvaldo nei confronti di Michele. Fin dalle primissime pagine infatti si osserva come la sua infelicità derivi dal suo essersi nullificato alla volontà altrui, in particolare a quella del suo amico-amante. È lui a trovare un alloggio al ragazzo, supporta e si prende cura come può di Mara il cui figlio che potrebbe essere di Michele. È infatti sempre lui che alla morte del protagonista si reca a Londra e si occupa di reperire i suoi effetti personali. Per lunghi mesi passa le sue serate accanto ad Adriana, quasi vedesse in lei un legame con il giovane vagabondo al quale dedica i suoi pensieri e le sue lettere per un anno intero. 

Nelle prime pagine del romanzo, Osvaldo spiega la ragione del suo divorzio da Ada: la loro inconciliabile diversità deriva dalla passività di lui, dalla sua mancanza di intraprendenza e azione. Lui non domina il tempo e lo spazio, ma sono tempo e spazio a dominarlo, costantemente. Appare al lettore come una vittima essendo però carnefice di se stesso. Viene spesso criticato, addirittura insultato, ma la sua reazione è inesistente, accetta senza rispondere le illazioni che gli altri protagonisti fanno verso di lui. Quando Mara insinua la sua omosessualità, lui non mostra ne assenso ne dissenso, quasi voglia essere inerme. 

Le ultime parole alla fine del libro sono infatti lasciate ad Osvaldo:

Tante volte ho pensato che mentre moriva egli ha esplorato le strade della memoria, e questo pensiero è per me consolante, perché non ci si consola con nulla quando non abbiamo più nulla, e perfino aver visto in quella cucina quella maglietta cenciosa che non ho raccolto è stata una strana, gelida, desolata consolazione per me

N. Ginzburg, Caro Michele, Einaudi, Torino 2001, p. 156

Alla morte di Michele, Osvaldo afferma di non avere più nulla, come se il primo fosse punto nevralgico della sua “dipendenza”. In quest’ottica e nel modo in cui si approccia al mondo Osvaldo è, nell’accezione descritta da Sartre, il masochista per eccellenza.

L’indifferenza nei confronti dell’altro

Il secondo atteggiamento preso in analisi dal filosofo esistenzialista si verifica quando il singolo si sceglie come “colui che guarda lo sguardo dell’altro”, edificando così la propria soggettività sulla distruzione dell’altro. Si tratta di una volontaria cecità che conduce inevitabilmente verso l’indifferenza nei confronti delle coscienze diverse dalla propria. L’Io pratica di fatto un solipsismo che rende oggetto tutti i soggetti diversi da lui. 

Non me ne curo, quasi agisco come fossi il solo al mondo, “sfioro” le persone come “sfioro” i muri, le evito come evito gli ostacoli, la loro libertà oggetto è per me solo il loro “coefficiente di avversità”; non mi immagino neanche che possano guardarmi. Senza dubbio mi conoscono in qualche modo; ma questa conoscenza non mi tocca

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 441

Questo atteggiamento porta inevitabilmente a una continua sensazione di manchevolezza e di malessere nel soggetto che, nel tentativo di considerare gli altri come oggetti, sprofonda in uno stato di “ingiustificabile soggettività” e dunque, proprio in quanto non-guardato da un soggetto, rischia di non riconoscersi più come tale. Il tentativo originario di “impossessarsi della soggettività libera dell’altro attraverso la sua oggettività-per-me ” risiede per Sartre nel desiderio sessuale. Con esso il soggetto si fa “carne di fronte all’altro per appropriarsi della carne dell’altro”. In tale condizione, analogamente a ciò che avviene nelle dinamiche dell’amore prese in analisi nel capitolo precedente, si cerca di superare quella situazione di sottomissione mediante la conquista e il possesso della libertà altrui. 

In questo caso l’equilibrio precario situato nell’essenza stessa del desiderio rischia di sfociare nel fenomeno del sadismo che per Sartre è “passione, aridità e accanimento”. In questa condizione il corpo del singolo aspira totalmente al possesso dell’altro, tutto ciò che lo circonda diviene uno strumento: in queste condizioni anche il suo stesso corpo diventa oggetto. 

Il sadico ha ripercepito il suo corpo come totalità sintetica e centro d’azione. Si è immesso nella figura perpetua della sua fatticità, si sente di fronte all’altro come pura trascendenza; ha orrore in sé per il turbamento, lo considera come uno stato umiliante

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2014, p. 461

Nella fisionomia di Mara troviamo l’espressione di quel Sadismo descritto dal filosofo. Non vi è una relazione privilegiata con la quale identificare tale tendenza, che traspare in ogni cadenza del suo carattere, ma esso si può constatare nel rapporto che intrattiene con la quasi totalità dei personaggi con cui interagisce, principalmente di sesso maschile. 

Prendiamo come esempio la relazione amorosa che per un breve lasso di tempo intrattiene con Fabio Colarosa, detto “Il pellicano”. L’uomo in questione è il suo datore di lavoro in una casa editoriale. La situazione in cui vive Mara è estremante precaria, ha un figlio illegittimo e alloggia in una casa non sua, procuratagli da Osvaldo. La donna afferma nelle sue lettere di amare quell’uomo perché, a differenza d’altri, non le fa pena. Le sue relazioni precedenti, per quanto dubbie e problematiche, erano sempre finite perché in lei si innestava un profondo senso di superiorità che la rendevano arida e insoddisfatta. 

Al suo predicare amore per quest’uomo si contrappone violentemente la realtà dei fatti, manifestata dal suo insediarsi a casa sua con il figlio e dalla mancanza di vergogna nell’usare i suoi soldi per comprarsi abiti di lusso. L’accondiscendenza che “Il pellicano” ha nei suoi confronti delinea, in una certa misura, una sottomissione dell’uomo alla donna, condizione precaria e instabile destinata a precipitare velocemente nell’abisso di una veloce e violenta rottura. 

A confessare il suo desiderio di possesso verso Fabio è la stessa Mara, in una lettera scritta ad Angelica: 

In principio, quando ho conosciuto il pellicano, io ho pensato delle cose niente belle, e niente sentimentali. Ho pensato: “Adesso questo qui me lo bevo come un uovo a bere. Gli consumo i suoi soldi. Lo soffio a quella cretina di Ada. Mi piazzo a casa sua con il mio bambino e nessuno mi smuove più”. Ero fredda, tranquilla, allegra. Poi a poco a poco mi si è messa dentro una grande malinconia. Tutta questa malinconia lui me l’aveva attaccata, come si attaccano le malattie. Io me la sentivo nelle ossa anche quando dormivo. Non riuscivo a liberarmene.

N. Ginzburg, Caro Michele, Einaudi, Torino, 2001, p. 111

La ragione della fine della loro storia è in linea con le argomentazioni di Sartre: Mara cerca di appropriarsi di Fabio Colarosa, che per lei diventa un oggetto di lucro, nello stesso modo in cui sono oggetti di lucro la sua casa e i suoi soldi. Violando l’intimità del suo domicilio, la donna viola anche l’indipendenza dell’uomo che, non essendo masochista, rivendica a sua volta la propria libertà. I rapporti che intrattiene Mara sono esclusivamente con persone per cui prova pena: non solo quelli carnali, ma anche le amicizie stabili. Prova commiserazione sia per Osvaldo sia per Michele, ma anche per “la riccioluta” che la ospita in casa a Trapani. 

Il suo desiderio di appropriazione delle libertà altrui deriva dalla non-accettazione di essere come gli altri la vedono: il rifiuto e l’indifferenza sono una scappatoia da quella condizione di miseria interiore ed esteriore in cui si trova. Accettare lo sguardo dell’altro per Mara vorrebbe dire prendere coscienza della condizione di vergogna in cui si trova, capire che tutti i personaggi che si relazionano a lei provano pena e disapprovazione.

Il filo conduttore tra Ginzburg e Sartre

Al centro del pensiero di Ginzburg e di Sartre si pone, in due prospettive differenti ma affini, la crisi della società borghese della metà del ‘900. In entrambe le personalità analizzate troviamo un comune impegno e una marcata partecipazione attiva alla vita politica e sociale europea. 

Da un lato Natalia Ginzburg, negli anni della Strage di Piazza Fontana e della Strage di Bologna – in cui prende piede la linea politica successivamente nominata “strategia della tensione” – rafforza il suo impegno politico in Italia orientandosi verso posizioni di sinistra. Pur non appartenendo a quella famiglia di scrittori impegnati in senso politico, nelle sue opere appare evidente la volontà di fornire “un quadro antieroico, grigio e infelice del tramonto borghese”. 

Dall’altro lato troviamo Jean-Paul Sartre che si presenta come esempio calzante ed esplicito del legame che intercorre tra la filosofia e la politica. Il filosofo francese, impegnato in prima persona, espresse più volte la sua perplessità nei confronti della società capitalista del ‘900, appoggiando ed orientandosi a sua volta verso posizioni di sinistra. Questa breve contestualizzazione storica dei due soggetti presi in analisi si mostra funzionale ai fini dell’elaborato: le personalità raccontate tra le pagine di Caro Michele sono le stesse che Sartre analizza nell’opera L’essere e il nulla, perché entrambe le riflessioni prendono vita a partire dalla medesima società.

Michele rifugge il giudizio manifesto negli sguardi, gli stessi sguardi che, secondo il pensatore esistenzialista, provocano vergogna in colui che li subisce. Osvaldo e Mara rappresentano invece il crollo dell’equilibrio precario dell’amore e del confronto con l’altro: nel primo caso la volontà di sottomissione (identificata con il masochismo), nel secondo la volontà di possesso (identificata con il sadismo). 

Abbiamo in conclusione messo in luce come la filosofia di Jean-Paul Sartre possa farsi chiave di interpretazione dei personaggi proposti da Natalia Ginzburg nell’opera Caro Michele, fornendo un’essenziale spiegazione e teorizzazione dell’incomunicabilità presente nella società borghese del ‘900, percepita come una condizione dalla quale i personaggi, per loro stessa natura, non possono evadere.

L’uso della lettera come metodo di narrazione mette in luce questa volontà di un confronto che è però impossibile in quanto da esso deriva il giudizio, la vergogna e la privazione della libertà. Come dimostra la storia di Michele, vivere un’esistenza eremitica è però impossibile e all’uomo non resta altro che accettare quella parte di se che prende vita negli occhi di chi guarda. Ma gli sguardi – scrive Angelica nel XXIX capitolo – pur portando sempre al giudizio, se provengono dalle persone che ci amano, possono renderci una versione ancora migliore di noi stessi: 

Tu dici che non vuoi sulla tua persona, in questo momento, gli occhi delle persone che ti amano. E’ infatti difficile sopportarli, gli occhi delle persone che ci amano in un momento difficile, ma è una difficoltà che si supera rapidamente. Gli occhi delle persone che ci amano possono essere nel giudicarci estremamente limpidi, misericordiosi e severi, e può essere duro ma in definitiva salutare e benefico per noi affrontare la chiarezza, la severità e la misericordia

N.Ginzburg Caro Michele, Einaudi, Torino 2001 p. 118

Bibliografia:

N. Ginzburg, Caro Michele, Einaudi, 2001

J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore, 1943

G. Spagnoletti, NATALIA GINZBURG, “Belfagor” Vol. 39, No. 1 (31 gennaio 1984)

Storia della Filosofia, a cura di Umberto Eco e Riccardo Fedriga, Gedi passioni, 2019

S. Vanni Rovighi, “L’ESSERE E IL, NULLA” DI J. P. SARTRE, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica Vol. 40, No. 1

https://www.arateacultura.com

Abstract: in questa ricerca universitaria ci si pone l’obiettivo di esemplificare, mediante l’analisi delle diverse identità presenti nel romanzo epistolare Caro Michele come i rapporti interpersonali descritti da Natalia Ginzburg siano collocabili all’interno del pensiero filosofico esistenzialista di Jean-Paul Sartre. Partendo dal paradosso esemplificato dal l’apparente contraddizione in atto nel binomio romanzo epistolare-incomunicabilità, si analizza il rapporto del singolo con altri. Elemento cardinale all’interno dell’indagine sarà l’effetto che lo sguardo dell’altro provoca sul singolo, condizione studiata e approfondita nel saggio L’essere e il Nulla (1943)

Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura