Confessioni di una Millennial,  Racconti

La Stagista – Confessioni di una Millennial

di Natalia Marraffini

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Eyeliner, maglioncino, pantaloni eleganti, scarpe in pelle. Total black, tranne la giacca in tessuto Principe di Galles. Manco lo sapevo che si chiamasse così: Principe di Galles. L’avevo cercato su Google: “tessuto quadretti piccoli neri bianchi”. Immagini. “Principe di Galles”. Mi era venuta l’ansia mentre mi preparavo per il mio primo colloquio di lavoro dopo la laurea. Insomma, se dovevo presentarmi ad una delle più famose e prestigiose aziende di moda nel settore del lusso, almeno avrei dovuto sapere di che stoffa fosse la mia giacca – anche se il mio eyeliner era di Kiko, il maglioncino era dei cinesi e i pantaloni erano di Terranova -. Indossai il cappotto, nero anch’esso, quello sciancrato, dal vocabolario: “indumento molto aderente in vita”. Anche se era il più vecchio che avevo ed era un po’ usurato, restava il più femminile del mio armadio, dunque il più modaiolo. Per ultimo presi con me lo zainetto di ecopelle chiaro, per spezzare. E andai.

In testa avevo un unico e ossessivo pensiero: “Non mi assumeranno mai”. Era stato per gioco, per dirlo agli amici. Quella sera a cena ci eravamo sbellicati. Io che rutto e scorreggiomentre ammazzo zombie alla Play, lavorare in un posto del genere?Avevo inviato quel curriculum solo perché ne stavo mandando ovunque, a tappeto. La statistica è impietosa: su ottanta o cento CV inviati si ottiene un solo colloquio. D’altronde una giovane neolaureata che ha sempre fatto solo lavoretti part-time e per brevi periodi di tempo che cazzo si aspetta dopo la laurea? Di lavorare davvero? Naaah!

Mentre scendevo dal treno e prendevo la metro, iniziai a pensare ai miei capelli. Sì, esatto, ai capelli. All’università mi era presa sta cosa del femminismo e mi ero tagliata la chioma fluida mooolto corta. In pratica quel giorno sembravo un uomo. Ma dove volevo andare conciata così? Di certo non a lavorare per una casa di moda di lusso. Mi consolavo pensando che almeno sapevo il nome del tessuto di cui era fatta la mia giacca.Che giocavo alla Play potevo anche non dirlo…

Uscii dalla metro in perfetto orario. La sede si trovava in centro, vicino alle vie in cui ogni vetrina emana un tanfo di soldi e ricchezza. Respirai a pieni polmoni l’aria della città mentre mi immaginai travolta da una luminosità così abbagliante ecosì potente che il mio eyeliner Kiko avrebbe potuto sciogliersi e corrodermi gli occhi. Forse stavo correndo troppo con la fantasia, cercai di mantenere un contegno.

Mentre mi incamminavo lungo la via principale per raggiungere l’edificio, ripensai all’annuncio a cui avevo risposto. Sembrava interessante: un lavoro d’ufficio per la sezione fragrance&beauty. Nemmeno troppo modaiola la cosa, forse avrei potuto cavarmela in qualche modo. Chissà cosa facevano veramente lì dentro, magari qualcosa di figo. Ovviamente si trattava di un contratto di stage, ma c’era un rimborso spese. Almeno quello. Ripensai al nome dellasezione, fragrance, e mi vennero in mente le mie scoregge. &beauty, mi venne in mente il mio eyeliner Kiko, che tra l’altro in quel periodo indossavo molto di rado, per via di quella storia del femminismo. Ripensai di nuovo a quei capelli spelacchiati e ricaddi nell’ossessivo: “Non mi assumeranno mai”. D’altronde, chi viene assunto al primo colpo dopo la laurea? Negli anni Duemila è quasi impossibile!

Arrivata davanti al portone a vetri, feci un respiro profondo e suonai. Il portinaio mi invitò a salire al terzo piano e mi disse di aspettare alla reception. In ascensore misi da parte la postura da camionista per ripescare quella da ballerina: danza classica, vieni a me! Quando le porte si aprirono mi sentii come se stessi sponando in un videogame con una nuova identità. Ero pronta per il colloquio. La receptionist, un’elegante fotomodella dalla voce soave, sembrava una ninfa. Le dissi perché ero lì e mi fece accomodare nel salottino d’attesa su una poltrona di pelle. Cercai di mantenere un’espressione neutra, eterea, distaccata. Mi sentivocome Tomb Rider nel mezzo di una foresta piena di pericoli. Il bancone della ninfa all’ingresso era di vetro nero. Il mio cervello andò in tilt: “Potrebbe essere fatto di cristallo? Magari è di un materiale alieno? Se l’avessi toccato mi sarei liquefatta? Chissà!”. Dovevo mantenere un contegno, così spostai la mia attenzione sulle pareti candide e luminose, poi sulle finestre che davano sulle lussuose strade del centro, infine sulla parete di specchi che illuminava e ingrandiva l’ambiente. Un’orchidea troneggiava sul tavolino. Avrei voluto urlare agli uomini d’affari in giacca e cravatta che vedevo passare: “Raga, ma questo posto è una figata!”, ma evitai. Mantenni la metamorfosi in ballerina classica; insomma tutti quegli anni di danza dovevano essere pur serviti a qualcosa.

Finalmente arrivò la bellissima recruiter in tacchi a spillo. Mi condusse in una saletta e quando la porta si chiuse dietro di me il cuore iniziò a battermi nelle orecchie.

Round 1. La donna iniziò a farmi le domande da manuale dei colloqui di lavoro: “Come ha trovato il nostro annuncio? Dove si vede tra cinque anni? Mi dica tre suoi pregi e tre difetti.Cosa fa nel tempo libero? Lavora bene sotto stress?”. Le avevo googlate tutte.Me la stavo cavando abbastanza bene finché non arrivo la fatidica domanda bastarda.

Round 2. “Mi dica, perché pensa che lavorare per noi possa essere un valore aggiunto? Perché lavorare proprio qui e non altrove?”. Il gancio destro era stato ben assestato e mi sentii barcollare. Ve lo dico: per me una ragione non c’era. Mentre incassavo il colpo pensai: “Beh se c’è una cosa che ho imparato all’università è: sparare supercazzole per confondere il nemico”. Mi presi il tempo di un respiro per il contrattacco, poi risposi: “Nel mio percorso di studi ho approfondito storie di donne nate e vissute in contesti di estrema povertà o la cui vita è rimasta sconvolta dalla guerra. In questa azienda vedo un nuovo orizzonte diametralmente opposto, ma altrettanto interessante per ampliare le mie riflessioni sulle donne, infatti la sua fondatrice è un esempio di emancipazione, indipendenza e imprenditorialità”. All’improvviso mi ritrovai piena di entusiasmo a parlare della mia passione per l’antropologia e per le storie di vita così radicalmente diverse e sconvolgenti che esistono a questo mondo. Davanti alla recruiter avvenne la mia digievoluzioneda ballerina di danza classica adantropologa e filosofa. Quando finii di parlare la recruiter era stesa. Mi presentò subito alla capa: il super mostro finale.

Final round. Quando entrai nell’ufficio la luce mi abbagliòe mi ritrovaicircondata da orchidee e soffocata dai profumi. Sparai tutte le mie cartucce. Alla fine dell’incontro il super mostro finale mi strinse la mano dicendo: “Spero che avremo l’occasione di collaborare insieme, arrivederci”. Ed io ero sconvolta del risultato: il posto era mio. Youwin!

Lunedì mattina conobbi Daniela, cioè Dany, la mia tutor. Dany era una donna piccola dalla dolcezza sconvolgente, dalla rabbia feroce e amante della teatralità. Attenzione: non del teatro, ma della teatralità. Se sbagliavo qualcosa lanciava oggetti di varia natura sul pavimento: bicchieri, buste, fogli o portamatite, mentre se facevo bene qualcosa mi chiamava Tesoro. Mi raccomando, il più delle volte va immaginato detto con tono amorevole-acuto da una Dany presa bene il venerdì pomeriggio. Tesoro!! Oppure possiamo immaginarlo detto da Dany in versione Gollum il martedì mattina dopo il briefing con la capa. Tessooro.

Di cosa dovevo occuparmi? Principalmente dei suoi sbalzi emotivi. Ero sottopagata per accogliere l’umore variabile che la stravolgeva ogni giorno. Se una busta non era chiusa come voleva lei, io dovevo esserci per sentirla gridare che quel lavoro era sbagliato, per vederla lanciare a terra la busta ed esclamare che se andavo avanti così sarei finita a lavorare alle poste.

Parte integrante del mio lavoro consisteva nel farmi rincorrere per l’ufficio da Dany che, armata di mascara, voleva truccarmi perché: “Tesoro, sei una bella ragazza, ma non ti valorizzi abbastanza”. Oppure nel trovare dei nuovi bicchierini per la sala break, perché quelli vecchi erano andatifuori produzione e da questo dipendevano le sorti dell’immagine dell’azienda, nonché la prossima crisi di nervi di Dany. Venivo pagata per essere il suo Tesoro.

Ogni tanto preparavo dei file excel, rispondevo al telefono e trascorrevo ore tra profumi, ombretti, mascara, creme nel più lussuoso sgabuzzino dell’intero pianeta, dove preparavo pacchetti regalo per gli ospiti o da spedire a collaboratori e clienti.

Il dress code era importante, anche se avessi dovuto trascorrere l’intera giornata nello sgabuzzino, perché quello non era uno sgabuzzino come gli tutti altri. Era bianco, scintillava, profumava, era ordinato. Dovetti rifarmi il guardaroba per lavorare in un posto del genere. Tubini, giacchette, pantaloni eleganti e anche qualcosa di stiloso. Per spezzare. Come delle scarpe a punta in stile Peter Pan, il tutto rigorosamente nero.

La cosa più terribile fu la prima settimana. Cosa feci la prima settimana? Cosa si fa la prima settimana di lavoro della vita? Ho pianto. La prima settimana si piange. A livello fisico, emotivo e simbolico. L’università non è finitafino a quella settimana, che è un lutto.Ti gira la testa anche se non perdi l’equilibrio. Quella settimana è il primo giorno di asilo, elementari, medie, superiori e università messi insieme. Anche quando sorridi in realtà piangi. Non te ne rendi conto e piangi.

Il dress code era importante. Pensate che mi vestissi di nero per l’eleganza? No, è che ero in lutto. Durante quei sei mesi di stage, indossavo panni che non erano i miei, tubini che erano armature, giacche che erano scudi. L’ambiente richiedeva questo, ma tutto quel nero era per me, per il mio lutto. Per entrare nel mondo del lavoro ti svesti di te. Certo, la sera puoi sempre indossare il tuo pigiama preferito, quello con gli orsacchiotti e i cuoricini, ma la mattina, dentro quei tubini e quei completi non c’era che un pulcino, uno scricciolo minuscolo, nascosto. Una bimba al primo giorno di scuola. Per tutta la vita mi avevano insegnato cose,eppure ero ancora un pulcino tremante appena uscito dal guscio. Fuori, giovane donna dal portamento elegante, laureata, preparata eccetera. Dentro, un Calimero in lacrime! Questo non te lo dice nessuno: che la prima settimana di lavoro ti rade al suolo. Nessuno all’università ti insegna come Dany chiude le buste o quali bicchierini desidera per la sala break. In quei dannati primi sette giorni puoi sbagliare qualsiasi cosa: il dress code, le parole da dire, le mail da inviare, un dettaglio su un file excel. L’errore è sempre in agguato, ma senza più un maestro che ti dica come fare o un brutto voto che puoi recuperare. Non puoi più recuperare. Se sbagli in quella settimana rischi di finire a lavorare alle poste e, se lo diceva Dany, era la cosa più vera del mondo.

A volte volevo ruttare in faccia a Dany e andarmene. Col mio tubino nero non sembravo proprio Audrey Hepburn, ma avevo comunqueun certo portamento. Mi hanno detto persino cazzate poetiche come: “Quando cammini sembra che potresti spiccare il volo”. Fanculo la danza classica. Cioè, chiariamolo, da piccola adoravo farla, ma poi sono rimasta fregata perché adesso non sembravo più la vera me stessa: quella che avrebbe insultato Dany per poi andare a kick-boxing per rilassarsi un po’. Sembravo una che lì in mezzo ci poteva stare bene. Invece no, ci stavo di merda. Iniziai a pensare che non fosse facile trovare il lavoro giusto per me, ma questo non mi consolava. Per sicurezza sognavo di lavorare alle poste: magari non era così male, fare la postina sarebbe stato un impiegodignitoso e poi esisteranno dei postini felici!

Trascorsi settimane nella convinzione di non farcela, giornate intere sotto tempeste di portapenne volanti e Tesoro tonanti nelle orecchie, convinta che la mattina dopo non sarei tornata. Invece ogni mattina mi alzavo e arrivavo in ufficio, incredula: com’era possibile? Beh un giorno durante un aperitivo aziendale nella sala break avevo conosciuto le stagiste del piano di sopra. Loro mi fecero conoscere le stagiste del piano di sotto e quelle che stavano negli altri uffici del mio piano. Mi spiegarono che ognisei mesi c’era un gran ricambio di personale in stage. Sembrava che l’azienda si basasse sugli stagisti. Scoprii un piccolo esercito di giovani neolaureate sottopagate all’inizio della loro carriera lavorativa. Ecco il mio segreto di sopravvivenza: le amiche stagiste. Iniziammo ad andare a pranzo insieme, a prendere il caffè, a fare l’aperitivo dopo l’orario di lavoro. Quando arrivava qualcuno di nuovo lo accoglievamo nellanostra piccola setta. Finalmente c’era qualcuno al mondo che mi capiva. Ciascunadi loro aveva la sua Dany personale pronta a inveirle contro, c’era chi era stata più fortunata e chi meno, chi aveva trovato il lavoro dei sogni, chi no. Io di certo non l’avevo trovato, ma iniziai a pensare che tra il mondo del lusso e le poste, in mezzo, c’era una gran varietà di impieghi. Al prossimo stage mi sarei avvicinata di più a quello giusto per me.Quanti stage mi attendevano? Non potevo saperlo, c’era Sandra che era arrivata al sesto ma conosceva delle ex-colleghe che già dopo il secondo erano state assunte. Il nostro futuro era un mistero, ma almeno potevamo parlarne insieme. È così che sono riuscita ad arrivare al fatidico ultimo giorno di stage.

Quella mattina indossai la camicetta azzurra e i jeans. Basta con tutto quel nero! Feci la solita strada in treno, in metro e poi la passeggiata in centro fino al portone a vetri. Quella era l’ultima volta che l’avrei percorsa per andare al lavoro. Fluttuavo per le vie della città alle otto e trenta del mattino prima di entrare in ufficio. Fu una giornata di selfie, sorrisi, brindisi, commozione, regali.

Quel giorno non sapevo di stare per entrare in un vortice spazio-temporale che avrebbe risucchiato i successivi due anni della mia vita in stage senza possibilità di assunzione. Di questi tempi di prime settimane ce ne sono tante. Molti stage, aziende e contratti a tempo determinato. Ogni nuovo inizio avrebbe trasformato quei mesi in un tempo infinito. I giudizi della società mi avrebbero investita come fantasmi, di sei mesi in sei mesi, sempre più forti e stringenti: “Non sei più così giovane”, “È vero che non hai ancora trent’anni, ma ormai i venti sono sempre più lontani”, “Sei giovane ma sei adulta”, “Sei giovane ma dovresti già avere uno stipendio, una casa, una relazione stabile”, “Quand’è che ti sposi? Quando farai dei figli?”.

Eppure quel giorno ancora non lo sapevo, ero ingenua e felice. Sì, c’era anche un po’ di malinconia per l’esercito di stagiste che lasciavo e per quei luoghi che non avrei più rivisto, ma ero proiettata verso un futuro radioso, piena di speranze perché allo stage successivo avrei scoperto ogni giorno di più chi ero, come volevo essere e che lavoro avrei fatto nella vita. Ripensavo a Dany e le volevo bene. All’inizio dello stage avrei voluto insultarla e mollarla lì, quel giorno invece l’ho abbracciata e mi sarei fatta addirittura mettere il mascara da lei. No, okey, il mascara magari no. Però l’ho abbracciata e i portapenne volanti erano solo un vecchio ricordo. Quel giorno non mi disse che sarei finitaalle poste, ma esclamò: “Tesoro, sono certa che farai carriera”.

Pranzai con le mie amiche stagiste al parco, ci salutammo con entusiasmo promettendoci che ci saremmo sentite e riviste spesso. Quando uscii dall’ufficio alle 18.00 una dolce brezza mi carezzò il viso e volai leggera verso casa. La calca puzzolente e sudaticcia dei mezzi dall’ora di punta mi sembròuna piacevole compagnia. Finalmente la sera segregai i tubini nell’armadio e vidi i miei amici per una serata a rutto libero, come al solito. Giocammo a qualche sparatutto con un po’ di birra e capii che nessun lavoro mi avrebbe tolto le mie certezze o la mia identità. Non potevo corrispondere a nessuno standard né soddisfare alcuna aspettativa. Un giorno avrei trovato un lavoro che mi sarebbe calzato a pennello. Dunque quella notte, fiera di me, indossai il mio pigiama con gli orsacchiotti e i cuoricini, perché non ci si abitua a essere un pulcino a tempo determinato, e sono le piccole cose a dare un senso di casa e sicurezza. Accanto al letto mi aspettava la giacchetta in Principe di Galles. Il colloquio la mattina dopo era alle dieci ed ero certa che non mi avrebbero mai assunta.

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Natalia Marraffini

Autrice della rubrica "Confessioni di una Millennial"