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“La verità su tutto” di Vanni Santoni – Premio Viareggio Repaci 2022

Di Francesca Manzoni


Recensione di "La verità su tutto" di Vanni Santoni, candidato al Premio Viareggio Repaci 2022

La conoscenza, per sua stessa definizione, ha dei limiti invalicabili. Vi sono quesiti che ogni essere umano è destinato a porsi, senza però arrivare ad una chiara e definita risposta razionale. Le grandi domande della vita attraversano lo spazio e il tempo, alla ricerca di quella “verità su tutto” di cui le discipline filosofiche e teologiche discorrono senza arrivare mai ad una risposta definitiva. L’uomo è per sua stessa definizione un entità finita, destinata a scontrarsi costantemente con l’universalità infinita di concetti come l’odio, l’amore e la sofferenza. Dove la razionalità e la concretezza soccombono, prende piede la “credenza” imposta, come assoluta, dal fenomeno socialmente accettato delle religioni. 

L’ultimo romanzo di Vanni Santoni, “La verità su tutto” (edito da Mondadori e finalista al Premio Viareggio Rèpaci 2022) mediante la narrazione di una “autobiografia fittizia” si immerge nel complesso oceano rappresentato da questi temi, cercando di procurare al suo pubblico, non tanto una verità, quanto un ulteriore occasione per riflettere. 

Il racconto è totalmente incentrato sul viaggio (fisico e spirituale) di Cleopatra Mancini, una giovane donna che viene rappresentata, in un primo momento, come la protagonista di un’esistenza apparentemente equilibrata e desiderabile. La visione, in un video porno, di una ragazza somigliante alla sua ex fidanzata (da lei tradita e poi abbandonata anni prima) diventa il pretesto per una profonda e complessa analisi di tutte quelle azioni maligne da lei commesse nel corso della sua vita. Tale evento si configura come un drastico punto di svolta, capace di portarla verso un’intensa e maniacale ricerca, prima nella letteratura e poi nella religione, di una risposta (o forse solo un conforto) al senso di quella inesauribile tendenza umana verso il male. 

Inizia così un viaggio che lentamente passa dallo studio teorico ed accademico, alla ricerca di un equilibrio dei sensi attraverso l’atto della meditazione, sfociando, in ultima battuta nell’incontro con Kumari Devi, una ragazza cresciuta con l’obiettivo di essere una sorta di  “Gesù di Nazareth della società moderna”. Con lei, Cleopatra, porterà a termine la sua metamorfosi, diventando “Shakti Devi” fondatrice di una comunità spirituale, atta al raggiungimento dell’ascesi mediante la pratica di una forma radicale di meditazione, supportata dall’uso di potenti allucinogeni. La sua congregazione spirituale è destinata, in breve tempo, ad accogliere sempre più seguaci, provenienti da tutto il mondo, assumendo una polarità tale da generale una tanto lenta, quanto inevitabile, implosione.

All’interno del romanzo entrano in gioco molteplici fattori, capaci di legarsi, in ultima battuta in un crudo e concreto ritratto della società contemporanea. La necessità umana di aggrapparsi alla credenza, in primo luogo, mette in luce quanto sia estremo e complesso il bisogno dell’individuo di interrogarsi, non solo sul mondo che lo circonda, ma anche su sé stesso, sulla sua istintualità e soprattutto sul perché qualcosa come “il male” continua a perpetuarsi tra gli uomini. In assenza di una riposta nella tangibilità terrena ci si aggrappa a qualcosa di superiore, ossia alla fede, ceca consapevolezza di un ordine superiore di cui tutti, in quanto uomini, facciamo parte. In secondo luogo prendiamo però coscienza di come anche la religione sia, in sostanza, un costrutto umano:  per proprietà transitiva è anch’esso corruttibile al male, e dunque, senza alcuna via d’uscita è destinato a perire. Sono i fantasmi del potere, della ricerca della fama e del bisogno spasmodico di un consenso a corrodere, fino alle sue radici, l’organizzazione fondata da Cleopatra, segnandone la definitiva rovina. 

Il viaggio si presta dunque ad un ulteriore, forse più azzardata, linea interpretativa: la ricerca della protagonista potrebbe essere in realtà una fuga dal male che ha provocato e, in qualche misura, anche subito. Spinta dalla convinzione che sia la società contemporanea la causa della tendenza umana al dolore, sceglie, deliberatamente di fuggire, cercando, nella solitudine della meditazione, uno spazio sicuro, in cui proteggere se stessa dalle incombenze di un demone così radicalmente presente nella vita di ogni uomo. Il percorso che è portata a compiere metterà in luce come il male (districato nelle sue varie forme) sia qualcosa di intrinseco all’umano, incapace di scomparire, anche nella costruzione sociale più lontana e indipendente da quella odierna. Il male e il bene sono due forze che esistono solo in relazione l’una dell’altra, con cui l’uomo deve obbligatoriamente convivere.  A rendere tale condizione sopportabile, nei momenti di massima incertezza, subentra il credo, capace di portare conforto ma fallibile, come esplicato prima, in quanto costrutto umano. 

L’intenzione di Vanni Santoni sembra, nelle ultime battute del romanzo, essere quella di porsi (e porre al suo pubblico)  un quesito che non solo è privo di una spiegazione razionale, ma fallace anche nella sua trasfigurazione ultraterrena. Quella dell’autore è una critica alla società odierna che si tinge di una velata rassegnazione, quasi a constatare l’irrisolvibilità del dilemma. Tutto viene personificato nella storia di Cleopatra, in un viaggio non solo senza meta, ma anche senza una conclusione. 

La struttura e lo stile: punti di forza e perplessità

Per quanto riguarda invece, la struttura e lo stile del romanzo, è importante mettere in luce alcuni elementi, positivi e negativi, che rendono quest’opera un prodotto estremamente singolare all’interno del panorama librario odierno.

La totalità del racconto si costruisce attorno ad un interrotto flusso di coscienza della protagonista, che, nelle prime pagine del romanzo, sembra raccontare la storia della sua vita ad un uditore esterno di cui non conosciamo l’identità. Potrebbe essere, allo stesso tempo, un giornalista interessato alla sua vita, un semplice confidente a cui raccontare una storia incredibile, o forse, più semplicemente, si tratta solo di un autonomo ripercorrere tutte quelle vicende che portano ad un determinato qui e ora. Tale meccanismo, seppur non spiegato con esattezza, costruisce un efficace “cornice narrativa” che permette al lettore di percepire la totalità della storia come qualcosa di profondamente reale, quasi si trattasse di una vera e propria confessione senza filtri. 

Allo stesso tempo però un’impostazione narrativa di questo genere sembra spingere il fruitore verso un progressivo distacco e allontanamento dalla figura di Cleopatra. L’Io del lettore fatica a sovrapporsi a quello della protagonista: viene così a mancare quella “mimesi narrativa” che ci permette non solo di provare empatia, ma anche di immaginare noi stessi nella medesima situazione. La presenza di un punto di vista soggettivo, applicato ad un racconto così complesso nei suoi tratti ambigui e controversi, più che un senso di “comunanza” veicola una propensione al dubbio e alla diffidenza. 

Ad acuire il divario tra la protagonista e il lettore, è però quello che, a mio parere, si configura come il principale “punto debole della narrazione”: la fluidità del racconto è spesso ostacolata dai ricorrenti riferimenti accademici ad un mondo filosofico e spirituale spesso precluso a chi non padroneggia con fluidità la materia. Il romanzo corre il rischio di perdersi in riferimenti specifici e puntuali ad una cultura e ad un mondo spesso precluso alla “massa” dei lettori, che rischiano di trovarsi persi e disorientati all’interno di molteplici analisi e sottotesti non sufficientemente accessibili. Il potenziale narratologico dell’opera e l’idea che la sottende faticano quindi ad emergere, soprattutto nella prima parte, oscurate da un’operazione nozionistica a tratti superflua.

A Vanni Santoni va però, senza ombra di dubbio, riconosciuto il merito di aver portato alla luce, attraverso l’espediente narrativo della confessione, una tematiche estremamente controversa nel suo apporto con l’attuale: il concetto di credenza nella società odierna viene infatti sviscerato, in primo luogo, nell’astratto, per poi tuffarsi, quasi a capofitto nella concretezza dei rapporti umani, col subentrare delle dinamiche di potere. 

“La verità su tutto” è, in ultima battuta, un romanzo complesso, di difficile comprensione e interpretazione. Senza alcun dubbio, non è un opera destinata al grande pubblico, a causa della complessità con cui i temi trattati vengono sviscerati e analizzati. È però capace di mettere in luce, in tutti coloro che hanno la pazienza di seguirlo, un profondo dilemma sul piano etico e morale, inserendolo magistralmente all’interno di una narrazione verosimile e ben costruita.

Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura