Arte,  Ekphrasis - Le parole dell'Arte,  Racconti,  Testi

EKFRASIS Le Parole dell’Arte – Turner

Senti che fuori piove, senti che bel rumore

di Beatrice Buratti

Dai limiti della terraferma è intento a disegnare l’orizzonte, per il gusto di farlo. Dopo cena lo vende, senza vendere poi molto, al mercatino del paese sul mare destinato ormai da qualche anno a una piazzetta dove l’energia commerciale vacanziera arriva avendo percorso tutti gli altri negozi e catene di situazioni che muovono la sera. Per la maggior parte questa forza nutrita di spensieratezza arriva già troppo stanca e in fase di digestione in una noia pacata, per cui non ce n’è che poca a oltrepassare il varco d’ombra del cerchio di freddo granito corredato di panchine che si apre all’ingresso principale, eppure mai utilizzato, di un hotel-residence. Dal suo spazio vede perifericamente quello degli altri illuminato dalla luce che ognuno punta sui propri oggettini e attività curiose; la sua è una lampada calda ma piuttosto forte, che crea in un fascio netto il suo nido di pareti impercettibili mentre disegna dei triangolini sul mare con gli acquerelli e i pennelli. La sera infatti, per fare qualcosa piuttosto che vendere quadri già finiti parlando a sconosciuti che pretendono magari di conversare in inglese, con la testa china sul tavolo ne fa degli altri, in formato cartolina, piastrella, segnalibro, con cornici di conchiglie o quello che gli viene in mente. A volte mischia una polverina invisibile che filtra dalla sabbia. Getta il colore variamente diluito sul cartoncino, poi con le setole o con i polpastrelli lo stende in un gesto instancabilmente orizzontale. Da lato a lato. Con una regolarità dell’abitudine della mano che lo fissa sull’oscillazione eterna tra la completa calma o il dinamismo più risoluto. Preso il ritmo, con tocchi simili ma che non vanno a coprire se non una porzione dell’intera superficie, dal punto dove getta la materia fa emergere le vele, immerse nell’acqua del cielo disposta secondo la densità del mondo e l’entropia addensante nelle nuvole o la pioggia, e così, con lo stesso procedimento, giocando con la luce: tramonti, sole, lune. Nel far emergere le forme il suo gesto è guidato dalle muse mentali rimastegli impressionate dall’immagine, avvinghiate alla sua percezione attiva attraverso il ricordo, che, intriso nella carne, lo porta a mutare direzione nell’intuitività del gesto. E si fa traccia materiale verticale, orizzontale, curva. Usa pochi colori, poche ma espanse e ariose sovrapposizioni uniformano il tono in un’atmosfera di mite morbidezza. Alla fine, come fosse una questione rituale posa il pennello con le setole morbide e ne prende uno sottilissimo, con pochi peli flessuosi e precisi sempre intrisi di nero, e in due baffi istantanei, istintuali, anima il mare con un gabbiano o un paio. Si diverte a cambiare la mistura dei suoi colori in base alla densità dell’impressione che ha ricevuto dalle casualmente frequenti contemplazioni solitarie. Le marine in vario formato che fa la sera sono il prodotto della sua lunga conoscenza del mondo che si siede lì, sulle ultime due assi del ponticciolo sgangherato, o sulla banchina del porto commerciale, o sul muretto del lungomare. Si siede lì con lui e contempla. Mentre li fa, ripensa alle visioni come questa che ha ora davanti, a osservare meditativo l’orizzonte. Ricorda che chiese per caso, una volta da bambino, dal barbiere, a un professore di latino che cosa significasse la parola che aveva appena usato, contemplare. Questi, lontanissimo dal placarne la curiosità infantile, rispose: “osservare il volo degli uccelli”. A questo fatto deve quello che delle lezioni a scuola tra le poche cose di cui si ricorda precisamente c’è l’etimologia del verbo latino contemplari, ovvero “attrarre nel proprio orizzonte; osservare il volo degli uccelli entro uno spazio circoscritto detto la verità”, pratica dell’Augure, il sacerdote che nell’antica Roma conosceva la chiave del linguaggio divino e gettava i semi della civiltà, al punto d’incrocio tra la verticalità e l’orizzontalità. Gli è tornato alla memoria per associazione inavvertita qualche settimana prima, a fine luglio, quando dal muretto al limite della spiaggia fu ritirato da quello spazio d’immersione tra il mare e i gli schizzi di carta dal richiamo stanco di una madre al suo bambino che, non ancora pieno di pomeriggio, andava di soppiatto a disturbare i gabbiani, che aprivano le larghe ali sopra il sorriso beato e gli occhi pieni di luce ammirata, immobili a godere dello spettacolo. Nell’assistervi anch’egli si autopercepì, non tanto per rottura di una quarta parete, ma in un complesso chiuso da uno shock, arrivato agli assi in fondo al pontile come oggi, dopo che da giovane ha seguito il corso di disegno del pomeriggio, voleva fare il pittore, diceva, idea che ha lasciato poi dietro i banchi di scuola maturando, per dedicarsi al suo vero lavoro al passo con la modernità e la tecnica. Tuttavia, non ha mai smesso di dipingere e di tenere allenata la mano e ora, da vecchio, si concede di fare l’artista.

Mentre si perde nella contemplazione dell’orizzonte e gode pacatamente dello spettacolo, una goccia cade ed espande il tratto di matita blu che aveva appena tracciato. Alza lo sguardo al cielo e sente la brezza che si fa vento sul volto. Si volta, vede i ragazzini della scuola vela affrettarsi sotto i primi, monitori, goccioloni a tirare le barche a riva e smontare scotte, vele, boma, nodi, passaggi, riporre tutto per correre al sicuro. È il momento in cui la tempesta si prepara con calma imperiosa a scatenarsi: a partire da un primo e inesorabile momento di improvviso incupimento del sole benevolo e il cielo pulito, si annuncia in tutta la sua potenza. Credeva non avrebbe piovuto. Pioveva poco. Quella che aveva studiato affacciandosi dalla finestra prima di uscire sembrava giusto una timida finta mattutina che celava il sole pomeridiano. Era uscito comunque; se non impedisce troppo è così bella la pioggia sulla terra che luccica: le cose sembrano protette da una cera luminosa che risponde al cielo e riflette il mare che si ingrossa e, mentre dentro rabbuia, brilla in superficie una spuma di bianco. E poi, bisogna andare. Si ricorda solo adesso che la minaccia, soprattutto d’estate, si può rivelare anche in un sol colpo con l’esplosione. Prende, senza aprirlo, l’ombrello sgangherato appoggiato dietro di sé. L’aveva preso con consapevole inutilità attraversando la porta-finestra di casa sua. E ora, sulle assi in cima al ponticciolo, d’un tratto di matita blu, dopo aver ballato con le tentennanti gocce di pioggia sottile e aver creduto nella loro innocua spensieratezza è impreparato: il cielo cade. E gli cade addosso, sente già le ossa che saranno intrise da quel diluvio, mentre scoppia. Se si guarda attorno sa già di trovare un riparo, lo si trova sempre un bar aperto, un portico, un cornicione disposto a evitarti un po’ di tempesta. Dalla banchina, ormai in piedi avendo chiuso e riposto i due quadernini di schizzi in tasca con le matite percorrendo il pontile, si volta. Vede la via Iungo il mare, larga e vuota, che deve attraversare sotto l’acqua per forza. I motorini scivolano sulle pietre e la sabbia, si chiude la frontale e il manubrio serpenteggia sull’equilibrio tra salvezza e rovinosa caduta. Inizia a corricchiare per bilanciare le sue forze non più giovani e instabili sull’equilibrio minacciato dalla cera di pioggia per terra, con la resistenza del fiato appesantito da età e tabacco e un gomito generoso. Corre con rassegnazione, ma celatamente al massimo dell’efficienza. Certo, per istinto, una porta aperta, luce e soprattutto asciutto sono la massima speranza, piccolezze all’estrema potenza, quello che naturalmente l’occhio cerca e a cui il petto gli porta il corpo, meglio che può. Una figura si sporge, lo guarda, guarda la corsa verso la sua accoglienza e lo accoglie, non tanto perchè ha un bar, ma perchè non è quel signore così vissuto che dopo i percorsi già segnati sulla sua persona per qualche ragione si è trovato sotto anche questa tempesta. Non è lui, che sarà più zuppo di come lo vede e rischia di annegare, se non si salva alla fine di quella corsa. Si incontrano levando gli occhi e lo sanno. Lui corre addirittura un po’ più veloce. Quando arriva in un balzo si fronteggiano, il vecchio fa un passo indietro e, per giusto qualche istante rimane sotto il diluvio a gocciolare con lo sguardo sotto le palpebre socchiuse diretto al cielo. Abbassando il capo lo apre a incrociare quello del barista e, facendo nuovamente un passo danzato dentro l’asciutto, ringrazia e chiede permesso. Si siede a un tavolo e guarda fuori. “Vuole un caffè?”. “Una tazza di tè, per favore”. Sorseggia il tè, guarda dai finestroni la tempesta e aspetta. In casi come questi cosa fai? Aspetti. Assieme al cornicione o il barista, che spiova. Aspetti e non sai quanto, ma rimani in attesa perché sai che devi andare, la tua destinazione era sempre un’altra quando la pioggia decide di destinarti a un riparo. Sai anche che smetterà di piovere, ma parti quando spiove. Quando piove abbastanza da sentire la pioggia senza che si infiltri nelle ossa e non c’è il sole ancora, ma cammini leggero e accarezzato da gocce piccole solo appena pungenti, energizzanti. Riconosce la musica pizzicata nell’aria, si alza e sorride al cenno di finta indifferenza del barista mentre lo vede estrarre dalla tasca il portamonete. Ed esce. Le lacrime piccole e festose di cielo riattivano in adrenalina il diluvio che lo ha infradiciato, ora che dopo un momento di riparo e un po’ di calma intensa, può andare. E si sente libero. E splende il sole sui luccichii delle pietre bagnate. 

È sera, sta sistemando sulla sua bancarella i materiali che ha raccolto, una volta vissuti, dalle sue giornate: le conchiglie, i pennelli, la sabbia magica per l’impasto. Si siede, sente le voci della vita serale ovattate, originate più in là nella via che incide il paese in due metà, quella dalla parte del mare e quella verso le provinciali asfaltate e i campi. Nella penombra della piazza minuta di granito prende una cartolina bianca, senza matita, lascia gocciolare un blu grigiastro molto liquido, e dal tratto invisibile nella tasca di suoi appunti inizia il rituale dal principio orizzontale e si avvia a percorrere le direzioni del caos, con vesti asciutte e la carne ancora fradicia a sgocciolare. Dal blu del cielo e del mare, che rabbuia verso l’orizzonte con del nero acquoso, attraversa il grigio e porta il pennello a un verde della terra che si riflette densa e diventa, con quello che rimane del sole, marrone con picchi rossastri. Tutto velato da un’atmosfera unica, di grigio denso delle nuvole che fondono i toni, scossi e animati irruentemente dallo scivolare o aggredire della luce sulle loro superfici. La luce la crea per sottrazione, con l’acqua intrisa nelle setole, muovendo le masse di colore che acceca e costringe a reagire con i tocchi di bianco. Il suono ovattato della via si fa scroscio lontano ma permeante. La radio della vicina frinisce assieme le cicale.

Turner, Wind and Water off the Nore – 1840-45

Joseph Mallord William Turner

Londra 1775, Chelsea 1851

Pittore vissuto in Inghilterra e appartenente alla Royal Academy of Arts, fondata a Londra nel 1768 da Giorgio III con il patrocinato di 34 artisti all’epoca contemporanei e internzionali, tra cui molti italiani. Essa si stabilì nello stesso edificio dove dal 1660 lavorava la Royal Society, avanguardistica associazione scientifica-liberale, punta d’eccezione del movimento Illuminista. Partecipò con successo alle attività dell’Accademia producendo opere romantiche, espressioni della peculiare declinazione britannica dei concetti di sublime e pittoresco, ma con densa partecipazione storica alla Rivoluzione in atto e velata dichiarazione sociale-politica, molto interessato e influenzato dalla comprensione profonda dei progressi scientifici del suo tempo, arrivando con la maturità, ma poco riconoscimento dalla critica sua contemporanea, a effetti impressionistici di atmosfera radicatamente legata all’esistente.

Off the Nore, 1840-1845

Oil on paper, laid on canvas

Di umili ma dignitose origini, figlio di un costruttore di parrucche con una situazione familiare tesa dalla malattia nevrotica della madre, crebbe vivendo periodi di calma presso gli zii a Margate, nel Kent. In seguito, fece diversi viaggi a Bath, Bristol, Malmesbury, l’isola di Wight, ampliando progressivamente le proprie vedute a Galles, Scozia, fino ad arrivare a viaggiare per l’intera Europa. Il primo approccio alla pittura fu l’acquerello che rimase costante nella sua pratica. Nel periodo di maurità sfibra la narrazione dei dettagli nell’atmosfera e la densità materiale della scomposizione caotica in atto degli elementi. Pur lontano e precedente a premesse importanti per il movimento propriamente detto Impressionismo, egli è effettivamente un predecessore di temi e tecniche importanti, come il rappresentare il movimento sotteso alla volatilità del momento che si può cogliere solo nella staticità della contemplazione, anche en plein air, appuntandosi numerosi schizzi a matita di effciacia fotografica, esattamente come un Degas o un Renoir. La tecnica curatissima, ma rapida ed emozianale che si intuisce dagli schizzi di studio e le opere di maturità, ne è un altro esempio. Quest’opera appartiene alla fase finale della sua carriera ed è stata dipinta alla foce del Tamigi nel Mare del Nord, tra il Kent e l’Essex. The Nore è un banco di sabbia nel tratto tra le cittadine di Sheerness (Kent) e Cambridge Town (Essex), segna il punto in cui l’acqua del fiume incontra quella del mare. Il dipinto appartiene a una serie rinvenuta nella sua casa a Chelsea, dove viveva isolato e in incognito con la vedova Booth, facendosi chiamare Captain Booth, lasciandosi credere un pescatore in pensione.

12 × 18 in / 30.5 × 45.7 cm

Yale Center for British Art

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Beatrice Buratti

Redattrice in Arte