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Sul Tradimento

Tradire, dal latino trado (pogere, trasmettere, offrire, passare) ha il doppio significato di dissimulare e di trasmettere. Tradire è, in un certo senso, un modo di rivelare stando nascosti.

Tristano e Isotta
Tristano e Isotta; John Duncan; 1912

Atto 1 – Tradurre è tradire

L’analisi del mito di Tristano e Isotta (il perché lo si definisca “mito” è chiarito in seguito) è qui tratta dal libro “L’amore e l’occidente. Eros, morte, abbandono nella letteratura europea” di Denis De Rougemont. È un libro affascinante per i temi trattati, ma anche per la storia che vi è dietro la sua pubblicazione in Italia. Luigi Santucci – il traduttore dell’opera – racconta che, nella primavera del ’44, inciampò in questo libro in una biblioteca del castello di una principessa del Canton Ticino, dove sostavano i partigiani italiani in attesa di essere richiamati alla guerriglia. Santucci per impiegare il tempo decise di leggerlo e, rimanendone notevolmente colpito, lo rubò, promettendo a se stesso che, se fosse uscito vivo dalle guerriglie, lo avrebbe tradotto, vi avrebbe trovato un editore e, infine, sarebbe andato a conoscere l’autore. E così avvenne. Il panorama italiano ironicamente conobbe un notevolissimo libro sull’amore tramite l’atto del tradimento di un individuo, che appunto aveva rubato in casa di chi lo ospitava.

Atto 2 – Amore e castità religiosa

De Rougemont è affascinato dal Medioevo. Palese è la fascinazione che esercitò su di lui l’opera di Huizinga “Autunno del Medioevo”. Qui Huizinga dipinge il Medioevo come l’epoca del gioco e dell’evasione in cui rientrano la cavalleria, le corti d’amore, i tornei e la poesia. Secondo Huizinga l’ideale dell’amore «non poteva essere vissuto altro che sotto la forma di un giuoco pieno di incanto o di ristoro sentimentale». Le forme culturali del Medioevo altro non erano che vie di fuga dalla realtà.

Nell’opera di Huizinga compare anche una domanda da cui prenderà avvio il cammino di De Rougemont nei sotterranei del Medioevo. In primis l’autore nota che il Medioevo sviluppò un ideale d’amore “su base negativa”: dai tormenti d’amore tipici dell’antichità, si passò al cantare del desiderio inappagato. De Rougemont indaga proprio questo salto, comprendendo che negli sfasamenti della cultura si cela “qualcosa” di essenziale. La poesia cortese diventa per lo scrittore francese l’espressione di “qualcosa” di represso. Sì, ma cosa? E questo può avere un collegamento con il fatto che nel Medioevo esplosero una serie di sette eretiche religiose – gnostici, manichei, catari o albigesi – che si opponevano al cristianesimo? E soprattutto, nonostante queste correnti ebbero vita breve, si è certi che siano state realmente rimosse, o sono giunte sino a giorni nostri sotto altre forme? Scrive De Rougemont:

Perché tutti, quanti siamo, senza saperlo conduciamo la nostra vita di civilizzati in una confusione veramente insensata di religioni mai del tutto morte, e raramente del tutto comprese e praticate; di morali un tempo esclusive, ma che si sovrappongono o si intrecciano sullo sfondo della nostra condotta elementare; di complessi ignorati ma non per questo meno attivi; e di istinti ereditati meno da qualche natura animale che da consuetudini completamente dimenticate, diventate tracce o cicatrici mentali, del tutto incoscienti e perciò fatalmente confuse con l’istinto: talvolta artifici crudeli, talaltra riti sacri o gesti magici, talaltra ancora discipline profonde elaborate da mistiche lontane sia nel tempo sia nello spazio.

L’elemento interessante è che, nel momento in cui il cristianesimo si istituzionalizza, quindi impone le sue pratiche e i suoi sacramenti – tra cui “il matrimonio solo per procreare” -, le eresie si contrappongono ad esso non perché esaltino la passione libidinosa, bensì per il fatto di negare l’obbligo della procreazione e gli ideali di castità, pratiche che invece tendono la corda dell’arco del desiderio sino all’infinito, ossia la morte. La passione, mandata sul patibolo dalla Chiesa, riesce a rifuggire nelle eresie, dove sopravvive, sì, ma trasfigurandosi. Si trasfigura nell’amore per l’ostacolo, per le prove infinite, dove ad ogni ostacolo superato ne deve necessariamente seguire un altro, fin quando non si giunge alla morte come ultima prova. Quale ostacolo più grande alla passione, se non l’annientamento della stessa?

Atto 3 – Amare la sofferenza

L’autore russo Vladimir Nabokov una volta disse: «Certe persone – e io sono di quelle – odiano il lieto fine. Ci sentiamo frodati. Il dolore è la norma». Insomma, a noi Occidentali le storie a lieto fine non piacciono. Ascoltare una storia di amore e di morte è la norma. Sostiene De Rougemont:

L’accordo d’amore e di morte è quello che risveglia in noi le risonanze più profonde, è una verità che sancisce a prima vista il prodigioso successo del romanzo. Ma vi sono altre più segrete ragioni per vedervi quasi un definizione della coscienza occidentale

L’idea di una storia che tratti di un matrimonio in pace e armonia annoia già a sentirne l’odore. È la passione d’amore che ci esalta, e passione significa sofferenza. Gli amanti magari saranno restii ad accettare la prossima frase ma: l’amore-passione, nove volte su dieci, riveste le forme dell’adulterio. Ed è ironico che in una società come la nostra a cui farla da padrona, tra le tante cose, è il matrimonio come istituzione, come promessa di felicità, la letteratura produca storie di adulterio. Ma ciò significa, prosegue De Rougemont, che la passione d’amore, in realtà, costituisce un’infelicità? Oppure la verità è che dentro di noi, in quella specie di soffitta in cui conserviamo a prendere polvere le scatole piene delle nostre verità più intime, preferiamo ciò che ci ferisce e ci esalta?

Amiamo l’amore e l’infelicità, ma trasfigurandoli, per non confessare a noi stessi di desiderarle insieme. Siamo in una relazione con l’altra persona ma cerchiamo di più: evasione, pericolo, passione e quindi ci buttiamo nell’adulterio; e per De Rougemont sembriamo farlo non per il senso stesso dell’adulterio, né per colpa dell’altra persona, ma perché tutto ciò ci renderà infelici.

E’ l’ostacolo, in un certo senso, l’amante con cui tradiamo il nostro partner o con cui il partner ci tradisce. Quindi, forse, non è il fatto che la Chiesa abbia imposto il matrimonio a spingerci a commettere adulterio, ma piuttosto si tratta di un elemento insito nella stessa nostra concezione dell’amore a spingerci a tali tormenti, poiché rende insopportabile il legame da principio. E tutto questo ce lo insegna il mito di Tristano e Isotta.

Atto 4 – Tristano e Isotta

Un mito è qualcosa di favoloso, fiabesco, che raccoglie in un unico componimento una sorta di legge generale valida per molte situazioni particolari. Esso, inoltre, secondo De Rougemont, esprime le regole di condotta di un gruppo sociale o religioso. Il mito ha origini oscure, non ha autore, perché nei suoi fini non è importante chi l’abbia composto: esso è l’espressione di realtà collettive. E soprattutto, scrive De Rougemont, «Il carattere più profondo del mito è il potere che esso acquista su di noi, generalmente a nostra insaputa».

La storia di Tristano e Isotta rispetta tutti questi punti, per questo è definita mito. Infatti ne esistono almeno cinque versioni, di cinque autori diversi, che si rifanno ad un originale di cui non sappiamo nulla; esprime le regole di condotta di un gruppo sociale, quelle della cavalleria; e infine la sua oscurità, oltre che della sua origine, è nel messaggio. Perché l’enigma del mito non risiede nella sua espressività, ma nei fatti che simboleggia, a cui rimanda: del mito non conta tanto il dito, ma la luna. Dunque potremmo dire che il mito compare e nasconde tradendosi, perché nasconde sì, ma permette anche di vedere, e ciò che mostra è qualcosa che va tenuto lontano dagli “inquisitori” del buon costume. Il mito nasconde l’istinto alla ragione.

In questo caso il mito di Tristano e Isotta non sarà solo il romanzo in senso stretto, ma il fenomeno che è celato in esso e che non smette di esercitare il suo fascino. L’adulterio non è soltanto una parola a cui tutti storcono il naso, come un olezzo, ma la scena su cui si innesta un dramma, una tragedia.

Tristano nasce orfano: il padre è morto prima della sua nascita e la madre non sopravvive al parto. Allora il re Marco di Cornovaglia accoglie l’orfanello. Una volta cresciuto, Tristano è mandato dal re a cercare la donna che sposerà, la futura regina, che ancora non conosce ma della quale “un uccello gli ha portato un capello d’oro”. Un tempesta trascina Tristano sulle coste dell’Irlanda. Qui ammezzerà un drago e verrà curato proprio da Isotta, la donna del capello d’oro, che verrà a conoscenza dell’incarico del re Marco. Isotta accetta di sposare il re Marco, ma nel viaggio di ritorno accade un imprevisto. Navigando verso la Cornovaglia, i due hanno sete e la serva per sbaglio versa loro il “vino magico” che avrebbe dovuto far innamorare Marco e Isotta. Subito si guardano e si abbandonano alla propria distruzione, consumando l’amore. Tristano conduce comunque a termine la missione, nonostante il tradimento.

Alcuni uomini di corte denunciano Tristano al re, che li sottopone ad una prova: dovranno dormire nella stessa stanza con letti separati e il pavimento cosparso di farina. Tristano con un balzo raggiunge il letto di Isotta, ma una ferita gli si riapre, facendo gocciolare sangue sul pavimento, e tradendolo. Tristano viene condannato a morte e Isotta mandata a vivere con i lebbrosi. Ma i due riescono comunque a fuggire e vivono per tre anni in una foresta. Un giorno il re li ritrova, addormentati, e nota che tra i due corpi Tristano ha posto una spada sguainata, simbolo di castità. Il re dunque li perdona.

Dopo una serie di altri sotterfugi e prove d’astuzia, Tristano viene rimandato di nuovo per mare. In questo viaggio incontrerà un’altra Isotta “dalle bianche mani”. Ferito nuovamente, egli sa che l’unica che lo può curare è l’Isotta dai capelli biondi e la manda a chiamare. Questa lo raggiunge, ma la Isotta dalle bianche mani, per la gelosia, li ucciderà entrambi.

E’ un fatto in particolare a dover essere chiarito: davanti ad ogni prova da superare i due si sono impegnati con tutte le forze per riunirsi, ma, nel momento in cui sono insieme per tre anni nella foresta, non consumano il proprio amore. Perché?

Intermezzo

Nel film “Dramma della gelosia” di Ettore Scola, un muratore di nome Oreste (interpretato da Mastroianni), sposato, un giorno per caso incontra Adelaide (Monica Vitti) e i due si innamorano. Iniziano ad incontrarsi di nascosto: nelle discariche, sotto le banchine al mare, nei posti più assurdi. Ad un certo punto, lui la invita a mangiare una pizza e le confessa il suo grande amore per lei, dicendole che ha lasciato moglie e figli e che è pronto a consegnarsi a lei. In quello stesso momento, Adelaide quasi distratta, si gira, il suo sguardo incrocia quello del piazzaiolo (Giancarlo Giannini) e se ne innamora. Ancora una volta: Perché?

Atto 5 – Nessun ostacolo: nessun amore

La risposta è semplice: Nessun ostacolo. Ormai Oreste si era consegnato ad Adelaide, certa del suo amore. La moglie, garante della tresca, della truffa, dell’astuzia, non c’è più: manca un ostacolo, una rivale da battere. Allo stesso modo nel bosco Tristano e Isotta non hanno più alcuna astuzia da compiere.

Nessuno dei due ama l’altro quanto la possibilità di non potersi amare più. Essi amano tutto ciò che porterebbe alla fine la loro storia. Amano l’infelicità, l’ostacolo. Perché in esso si sentono vivi. Ciò che essi amano è l’amore, il fatto stesso di amare. E senza un ostacolo non possono amare davvero. Ciò che si oppone al loro amore è anche ciò che lo garantisce. Il loro continuo andirivieni erotico è dovuto al fatto che i due amano la passione più che l’altra persona e se fossero sempre insieme quella passione diverrebbe abitudine e quindi morte della passione.

L’ostacolo, ed è questo quello che vuole trasmettere il mito di Tristano e Isotta, è l’oggetto stesso della passione. Alla fine i due muoiono. Muoiono come grande rivincita sul filtro, che li ha condannati ad amarsi: il più grande ostacolo era quel filtro della vita, che li obbligava ad unirsi. E l’unico modo per vincerlo era morire. Scrive De Rougemont: «Nel fondo più segreto del loro cuore, si annidava la volontà della morte, la passione attiva della Notte che dettava loro le sue fatali decisioni».

Tornano così alla mente le parole di Grusenka, personaggio dei fratelli Karamazov: «Forse si amano di più le lacrime di chi le ha causate».

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Felice La Peccerella

Redattore di Filosofia