La Provincia cannibale di “White people rape dogs”: il romanzo che ha stregato il Premio Calvino
In White people rape dogs (Einaudi 2024), fortunato esordio del giovane Jacopo Iannuzzi, trentino d’origine e bergamasco d’adozione, con cui ha vinto l’edizione 2023 del premio Calvino, viene dipinta con elegante ferocia la noia della provincia italiana, grigia e buia, dalla quale non si può che evadere, ma solo momentaneamente, attraverso il ricorso a sostanze stupefacenti, ad alcolici di bassa qualità, o al sesso senza sentimenti. Quella dei personaggi di Iannuzzi è una vita di continue paranoie, che, nella consapevolezza che la fine di tutto è vicina, contrastano con una rilassatezza che sfocia in una scarsa moralità: perché farsi tante preoccupazioni se la fine è così vicina?
«Non sapete che il sole esploderà domani? Che un’onda di fuoco consumerà ogni cosa? Anche il David di Michelangelo nella sua teca di vetro»[1].
Ciò che unisce i cinque capitoli del romanzo, che a un rapido esame possono apparire come racconti isolati, è lo sguardo del protagonista Remo, che assomma parzialmente in sé caratteri autobiografici dell’autore così come ogni personaggio ricalca e incrocia, in una caricatura deformante, le caratteristiche di persone reali[2]. Remo racconta le scorribande vissute con i suoi compagni dall’interno, ma con il distacco proprio del medium narrativo: Iannuzzi si presenta, attraverso il doppio di Remo, figura a modo suo plurale, nel duplice ruolo di protagonista e osservatore delle vicende. Remo così si destreggia in una serie di episodi che coinvolgono i suoi amici e personaggi sempre più assurdi, ciascuno a modo suo opposto a un sistema borghese e ognuno dei quali viene posto al centro di un capitolo, e che via via contribuiscono a comporre un ritratto implacabile di un gruppo di amici nella provincia italiana, su cui incombe il peso della noia, da cui tentare di evadere con ogni mezzo. Si tratta, dunque, di una storia fatta di episodi che compongono una storia, che poggia più sulla lingua che sulla trama, in cui appaiono amori rischiosi e disordinati, piccola criminalità necessaria per sopravvivere e ossessioni lugubri, dinamiche ricorrenti interrotte dai tentativi di fuga dalle ristrettezze e dalla chiusura della provincia, che ogni personaggio, tranne Remo che rimane in qualche modo legato alla sua città e si presenta come osservatore curioso, cerca di mettere in pratica. È, insomma, la storia di tanti giovani che cercano qualcosa di diverso da quello che conoscono della vita di provincia e dalle sue contraddizioni.
Città prive di grazia, sporche e disordinate, che fondono diverse città del nord Italia come Bergamo e una Trento invernale con località di mare come Venezia, dove Iannuzzi ha studiato, in modo da farne un luogo trasformato e ingigantito che tuttavia rimane irriconoscibile[3], si compongono di case in cui non è più possibile abitare, ma che si estendono con propaggini anche all’esterno: il chiuso le persone se lo portano appresso. La vita, secondo alcuni personaggi, è tutta dentro, «è un buco nel cervello»[4], mentre fuori rimane il peggio, l’insondabile, per cui si vive tutti all’interno della stessa costruzione, un palazzo popolare. I tanti personaggi che costellano questo universo sordo si dibattono in labirinti interiori: la loro è una vita fatta di abitudini, di locali da girare, di sentimenti da reprimere e da sostituire con la violenza, che risponde ad altra violenza.
I sentimenti autentici sembrano incomunicabili e incompatibili con l’Altro, ed è allora che subentra l’ironia, lo humor nero che permette di non prendersi sul serio. È un mondo a cui non si vorrebbe appartenere, che non si vuole attraversare, ma a cui spingono la noia, la malinconia e la claustrofobia della propria casa, e con cui, dopotutto, si accetta di confrontarsi; ma qualora vi si entri, lo si vive da una certa distanza come se fosse un ricordo lontano: «Mi guardo intorno ultimamente e mi sembra che sia tutto un ricordo […] Come quando sogni di svegliarti, e poi ti svegli per davvero»[5].
Per ogni personaggio il confronto con l’Altro permette di riconoscersi in esso, sciogliendosi in un amalgama inedito e abnorme, così da scoprire il Sé che esiste, inevitabilmente, anche negli altri, scoprendosi, allora, meno soli al mondo, ma al prezzo di sacrificare, almeno in parte, la propria identità, mostrandosi docili e vulnerabili.
La lingua e lo stile di Iannuzzi ben ricalcano il modo di parlare dei giovani di provincia, fatto di un lessico materico e concreto, fedele alla quotidianità, e di una sintassi asciutta e talvolta scomposta: uno slang che giunge dove l’italiano della grande città fallisce, tant’è che quasi fa impressione sentire in un’opera letteraria le espressioni che normalmente si sentono in bocca alle generazioni più giovani. La parola è il canale di sfogo dei pensieri di un gruppo di giovani adulti, appena ventenni, che si confrontano tra loro su una serie di tematiche a loro comuni, per le quali una lingua più ufficiale non funziona. La trama poggia su un flusso continuo fatto di lingua, che proprio per il suo ritmo costante carica di intensità i momenti di rottura, che, nella loro crudezza, qualcosa devono alla lingua dei Cannibali o dei beatniks. La parola, sollecitata dalle droghe e dall’eccentricità, permette scorci di lirismo in un contesto tetro e impoetico, ma soprattutto consente una rinnovata percezione con il mondo per i vari personaggi, per cui la droga è prima di tutto un’occasione sociale, un crocevia presso cui incontrarsi ed essere, una volta tanto, davvero sinceri. C’è, pertanto, una qualche saggezza nella “fattanza”: è con l’uso della droga che si può sorridere al mondo e riacquistare le sensazioni. Ma quando gli effetti delle droghe non durano più e subentra l’assuefazione, l’unico modo per aprire uno spiraglio in sé e far entrare la luce è ferirsi, con la consapevolezza che «la droga è un’illusione […] il dolore è puro senso»[6]. La droga, allora, non appare mai come fine, bensì è il mezzo con cui rendere l’attesa della fine sopportabile, conferire regolarità alla vita attraverso una nuova ritualità e abbandonare i propri limiti per aderire veramente alla realtà circostante. Alla fine quello che più desiderano i personaggi di Iannuzzi è di poter essere se stessi, poter esprimere le proprie emozioni al pari di quando sono da soli e non visti. «Ho pensato, non esisto: sono. Sprecherò volentieri me stesso a questo modo. Sprecherò volentieri un uomo per esprimere un fiore»[7]. Ogni personaggio si esprime a modo suo attraverso fissazioni strambe o macabre che giungono fino a convinzioni impopolari e complottiste, ma, in fondo, tutti in qualche modo se la cavano.
Ma in fondo, dopotutto, a nessuno di questi personaggi importa di possedere qualcosa intimamente, bensì ad alcuni basta la libertà del vuoto lasciato da una assenza: «E c’è chi dentro non ci vuole proprio niente, perché si sente libero così»[8]. È solo nel momento della perdita, dell’abbandono che questi si rendono conto della loro povertà; ma nella loro miseria maturano la speranza di una condizione migliore, finalmente libera, non più ipocrita. Le aspirazioni si stagliano contro una società vissuta con risentimento in quanto percepita come bigotta, falsa, impietosa… Degli emarginati come questi percepiscono con forza la loro giustezza contro i benpensanti, devoti alla Chiesa e intolleranti con gli eretici, che mortificano la vita poiché non sanno di essere già stati salvati. La meta è una forma di disinibizione e, insieme, di promiscuità; essere protagonisti di una storia più interessante della vita quotidiana.
«Le regole vi reprimono, i galatei vi mortificano, e intanto la vita vi sfugge. Vorreste affermarvi, parlare con le ragazze, avere sempre ragione, ma siete dei cani artificiali abituati alla catena, ecco cosa, soli e depressi»[9]
Man mano che si prosegue con la lettura ci si addentra nel folto di un bosco che si estende poco fuori le periferie verso un esito apocalittico, verso un nuovo inizio, possibile solo dopo la fine di tutto: è questa la convinzione dei personaggi mentre sprofondano in una follia che è spaventosamente lucida. Vivere è sempre più difficile poiché consiste nel rimanere bloccati in un circolo che si ripete sempre uguale come in un sogno febbricitante.
«Io intanto muoio, tanto poi si rinasce. Muoio sempre il giorno dopo, mentre le parole che userete per ricordarmi ricoprono la fossa come terra lieve. È solo un altro giorno, coglioni. Siete già salvi, non lo avete ancora capito? Vivete nel passato del mondo come dei sassi che affondano»[10].
[1] J. Iannuzzi, White people rape dogs, Torino, Einaudi, 2024, p. 9.
[2] Premio Italo Calvino, “”White people rape dogs” di Jacopo Iannuzzi – intervista all’autore e lettura di una brano”, YouTube, 2 giugno 2023, video, 0:05,https://www.youtube.com/watch?v=9EDnNTyCkA4
[3] Lo Spazio Letterario, “Jacopo Iannuzzi presenta “White people rape dogs” (Einaudi), premio Calvino, con Marta Serena”, YouTube, 18 settembre 2024, video, 9:30, https://www.youtube.com/watch?v=5rsMHL3vse4
[4] J. Iannuzzi, White people rape dogs, cit., p. 11.
[5] Ivi., p. 9.
[6] Ivi., p. 12.
[7] Ivi., p. 24.
[8] Ivi., p. 36.
[9] Ivi., pp. 60-61.
[10] Ivi., p. 61.
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