Arte,  Dialoghi d'arte

Dipingere visioni – Intervista a Davide Monteseno

Quelle rappresentate nella pittura di Davide Monteseno sono visioni, immagini incantate di tempi e spazi indefiniti, incoglibili, lasciate vivere nella fugacità di un fluire che non sente che il solo richiamo del primordiale. Soggetti avvolti da enigmi sospesi popolano le tele, si vestono di colori irreali, favolistici, raccontano di sguardi, impressioni vitali, echi di svelamento.

Davide Monteseno, Verwandlung

R.: Caro Davide, partirei con il ringraziarti per averci accolti. Inizierei, se non ti dispiace, con una domanda di rito: a cosa pensi debba mirare l’arte visiva e, rispetto alla tua storia, come ti sei approcciato alla pittura?

D.M.: Sono io a dovervi ringraziare per l’invito. Per rispondere alla prima domanda, personalmente credo che ogni forma d’arte sia un’opera di svelamento, un tentativo di scoperta. La pittura è misteriosa, è una lotta con le forme e uno scontro con la materia, infine è sempre una rivelazione, ed è sempre sorprendente per me, come la pittura più emozionante altro non sia che una celebrazione della fragilità umana. Naturalmente non è facile mostrarsi, e riconoscersi vulnerabili può intimorire, ma in fondo è proprio questa la ragione per cui, a parte l’onestà, non credo si debba mirare ad altro, indipendentemente dai risultati che si ottengono.

Per quanto mi riguarda, da che ricordo ho sempre disegnato. Coltivare questa propensione non è stata una scelta consapevole, ma più un percorso naturale a cui mi sono prestato senza farmi domande (cosa che ahimè credo di aver disimparato a fare). In genere ho sempre avuto questa attitudine, ovvero dedicarmi a ciò che più destava il mio interesse in quel momento, senza ragionarci troppo. E dopo alcuni anni passati a studiare lingue, decisi di interrompere quel percorso e di proseguire con la pittura, presso l’Accademia di Belle Arti – anche se in verità non ho mai smesso di disegnare. Da allora sono trascorsi appena sei anni, ma è solo da qualche anno che ho iniziato a riflettere seriamente sul mio percorso artistico. 

R.: Ti domanderei ora come vivi il rapporto con la pittura: quale senti essere la sua finalità? L’utilizzo dei colori è servente alla produzione, oppure, al contrario, è ciò che stai producendo a chiamare a sé una scelta espressiva?

D.M.: Il colore è importante, ma lo stesso si può dire dei contenuti. A volte sono i colori a formare le immagini, altre volte nascono insieme. Nel momento in cui le visualizzo mentalmente, so che alcune immagini richiedono una specifica gamma cromatica. Finora, ogni volta che avevo davanti una tela, sapevo cosa dipingere e come, e riguardando i lavori a distanza di mesi, pur non essendo soddisfatto, mi rendevo conto che il risultato corrispondeva alle aspettative. In questo momento invece, sento che i miei processi si fanno più imprevedibili, più incerti.

Cambio spesso idea, e non riesco a vedere chiaramente quello che vorrei dipingere. Questo mi porta a voler improvvisare, vorrei imparare a lasciarmi risucchiare da quello che creo, a farmi dominare emotivamente, ed è possibile che non sia la giusta soluzione, ma in questo momento sento di volermi liberare. È anche questo il motivo per cui non sono sicuro di avere una risposta alla prima domanda. So che ci sono artisti della mia età molto più maturi, ma sento di essere troppo giovane per dare una risposta. Quello che intendo dire è che mi trovo ancora in una fase di esplorazione: dispongo di alcuni buoni elementi, ma sono ancora una larva in attesa di maturare. Inoltre, questo strano periodo che stiamo vivendo, e che per me si sta rivelando una lunga e affannosa transizione, non mi aiuta ad avere le idee chiare: procedo a tentativi, il più delle volte fallimentari, eppure non completamente infruttuosi.

Davide Monteseno, Leopard Horse

R.: Si percepisce esservi una tematica, un invito all’osservatore ad entrare in te. Lo si intuisce dalla scelta dei soggetti che traduci sulla tela. Cosa ci dici a riguardo? E Cosa detta la produzione: una scansione ciclica?

D.M.: Sono d’accordo. Ho bisogno di contatto, di occhi spalancati, di sguardi famelici. Sguardi non troppo simpatici, nonché decisamente ambigui, perché se da un lato si concedono dall’altro respingono. Ma questa tensione mi piace, mi interessa esplorare questa dicotomia, e ricerco questo turbamento anche nei soggetti più “quotidiani”, come dici tu, come per esempio gli animali domestici. 

Alcune persone percepiscono delle fasi, come se lavorassi in serie. Riconosco che i miei periodi creativi sono ben circoscritti, hanno durata variabile, e solitamente mi lasciano molto stanco e depresso. Nell’ultimo periodo queste pause si manifestano con una certa regolarità, sono più frequenti e più intense. Come dicevi tu, si tratta di una sorta di ciclo metamorfico in cui ogni volta, anche se in modo quasi impercettibile, aggiungo o sottraggo, modifico, perfeziono. Questo può essere un problema, perché delle volte ho la sensazione che i miei lavori siano distanti tra loro, ed è questa la ragione per cui mi ripeto nei soggetti. Tuttavia, se in un primo momento ricercavo coerenza tra un lavoro e un altro, adesso non so se m’importa come prima. Anzi, devo ammettere che sono quasi tentato dall’idea di contraddirmi.

R.: Soffermiamoci meglio sulla scelta del soggetto: dai primi lavori, che si concentrano sul volto e sull’abbozzare un sembiante, procedi nella figura che si immerge nella primitività e nell’agreste. Perché?

D.M.: L’idea di inserire figure in ambienti naturali mi fa pensare a una sorta di genesi, all’inizio di una personale “mitologia”. È chiaro che una figura nuda immersa in un paesaggio primitivo non ha bisogno di giustificazioni temporali: non è solo la rievocazione di un’era arcaica o un’alba remota. I miei personaggi sono animaleschi, si muovono in ambienti selvatici, ma non provengono necessariamente dal passato. La mia è più un’incursione in un tempo/spazio fluttuante, simbolico e incantato, libero da coordinate geografiche e temporali. In realtà, sono affascinato dall’idea di descrivere un tempo fuori dal tempo, che non sia né passato né presente né futuro, ma che li contenga tutti, come un accumulatore di ere e luoghi.  I ritratti a cui fai riferimento, almeno in un primo momento, rispondevano a questa necessità.

Davide Monteseno, Ping

R.: In merito della genesi del tuo linguaggio pittorico, invece, si può intuire una spinta alla ricerca di una figurazione primitivistica e dai tratti quasi esotici, un’atmosfera che sembra richiamare la lezione di Gauguin e le figurazioni fauve. Cosa ci dici in merito ai tuoi punti di riferimento stilistico? Quali sono le ispirazioni e i modelli che hai assunto nel tempo e cosa trai dai loro esempi?

D.M.: Sono innamorato di molti artisti, e riconosco l’influenza di Gauguin e dei fauves, specie nei primi dipinti, ma se ripenso a questi anni, pochi sono rimasti costanti come punti di riferimento. Penso a Emil Nolde prima di tutti e alla sua carica abrasiva, ai suoi uomini selvaggi, alle danze tormentate, alle albe primitive; penso alle scosse elettriche di Kirchner e a quella particolare fluidità magnetica nei quadri di Munch. Nella pittura, sono gli espressionisti ad avermi influenzato più di tutti gli altri. Ultimamente invece, mi lascio sedurre dalle cupe atmosfere dei grandi visionari dell’arte: Goya, Blake e Redon in primo luogo, ma anche Von Stuck, Sascha Schneider, Alfred Kubin e altri. Nella pittura contemporanea, Justin Mortimer, Peter Doig, ma soprattutto Daniel Richter, sono stati e rimangono punti di riferimento importanti. In ogni caso, è la luce ad interessarmi. Ricerco crepuscoli allucinati, aurore boreali, figure colorate.

Davide Monteseno, Zoophilia

R.: Ponendo invece l’attenzione sulla selezione cromatica che hai effettuato nel tempo si nota che da una palette inizialmente più aderente alla realtà degli incarnati e composta da colori poco saturi, sei passato a tinte antinaturalistiche e ad alto contrasto che invadono tutta la superficie delle opere. Cosa ricerchi in questi colori? Li riconduci ad un simbolismo? E, per contro, che valore dai alla semplicità della linea dei tuoi disegni, priva di ogni cromatismo ma, in apparenza, egualmente eloquente?

D.M.: È vero. Qualche anno fa dipingevo in bianco e nero, e successivamente sono passato da una palette naturalistica a tinte brillanti e complementari. Erano anche i soggetti a chiederlo. Allo stesso modo, se prima mi bastava dipingere in monocromia, usando principalmente i primari, adesso sento la necessità di ampliare e raffinare la tavolozza. Semplicemente, vorrei renderla più “personale”, se così si può dire. Non so esattamente cosa cerco in questi colori, forse inseguo un ricordo, un luogo, oppure non significano niente. Però non voglio saperlo, nel momento in cui spieghi troppo qualcosa, è come se sfuggisse, perdesse di pregnanza.

Per quanto mi riguarda, la pittura e il disegno rimangono separati. La matita è il medium attraverso il quale sento di esprimermi più liberamente: mentre il rapporto che ho con la pittura è ancora conflittuale, d’altra parte so che i disegni mi rispecchiano interamente, ed è questa la ragione per cui preferisco mostrarne solo alcuni. Non li considero schizzi o studi, anzi, ho l’impressione che siano i miei lavori più sinceri, e chissà, forse i più riusciti. Sono completamente aperti, e per questo mi sono cari.

R.: In conclusione, ti porrei una riflessione in merito all’attuale panorama artistico. Come concepisci “la scelta” di optare per uno stile figurativo in un contesto che, spesso, si pensa in maggioranza tendente verso un linguaggio astratto e/o concettuale?

D.M.: Non sono sicuro che l’attuale panorama artistico sia dominato da linguaggi astratti o concettuali, o probabilmente non me ne rendo conto perché guardo soprattutto alla figurazione. Suppongo vi sia una quantità impressionante di artisti figurativi, e non credo che la loro poetica sia meno efficace o meno contemporanea rispetto a quella di altri. Credo che la scelta non sia tanto nelle modalità, ma risieda piuttosto nel decidere se piegarsi a quello che gli altri preferiscono oppure rimanere fermi nelle proprie convinzioni. Il rischio di compromettersi, anche minimamente, è alto, me ne rendo conto, ma l’integrità è tutto quello che rimane alla fine.

In altre parole, fino a quando so che la mia scelta è sentita, fino a quando so che quello che dipingo è reale per me, so che non devo preoccuparmi eccessivamente. E questa è la più grande libertà, perché anche se un giorno dovessi ricorrere ad altri mezzi espressivi, so che in fondo, la cosa più importante è coltivare qualcosa che sia vero. 

Naturalmente sento di essere ancora molto ingenuo, il mio entusiasmo per la pittura è ancora fresco, e c’è talmente tanto da imparare che mi sembra di non aver mai preso un pennello in mano. Prevedo e spero che questo sarà un percorso molto lungo, ma il pensiero di potermi dedicare anche ad altro e abbandonarmi alla curiosità è entusiasmante. Fortunatamente, ho ancora tempo per scoprirlo.

Davide Monteseno, portrait 2

Davide Monteseno – Instagram


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Dalila Rosa Miceli

Redattrice per la sezione Arte, fondatrice della Galleria d'arte digitale.