Arte,  Ekphrasis - Le parole dell'Arte

Ekphrasis, o le parole dell’arte.

Ekphrasis: ἐκ – ϕράζω, fuoriparlare; nominare l’inanimato, “parlare fuori”.

Ovvero il termine che i retori greci utilizzavano per indicare la descrizione verbale di un oggetto, una persona, luoghi e opere d’arte, con la peculiare ambizione di gareggiare in forza espressiva con l’oggetto.

Nel corso della storia si è deciso che la gara più stimolante fosse la descrizione delle opere d’arte, in quanto oggetto il più denso di espressione e specialmente umano, come il linguaggio.

L’archetipo di ekphrasis è, non casualmente, quella che Omero, autore o personificazione necessaria che sia di quei due poemi che contengono in nuce tutte le forme narrative, fa dello scudo di Achille.

Non compare nei versi il referente oggettuale, esso prende forma nel contesto in cui è narrata la creazione della nuova armatura per l’eroe acheo dalla fucina di Vesuvio che, invece di fare un resistentissimo disco in metallo degno dei pié veloci, “ Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo – E il Sole infaticabile” con tutti gli astri, due città dove accadono un matrimonio, un processo, una battaglia, vita campestre e di natura, una danza infine, tutto racchiuso dal fiume Oceano, che ricordiamo, nella concezione antica della forma terrestre effettivamente circondava il disco della terra che abitiamo.

Un’opera d’arte totale dunque, che esprime visivamente, nella parola, il senso di téchné: arte in senso greco, ovvero quel saper fare organizzato, il creare immortale dei mortali, dono divino all’uomo per compensarne la debolezza di essere non infinito.

Opera d’arte totale e divina: non descrive lo scudo in quanto tale, ma nella sua essenza, nel suo divenire, presentando al contempo scene che visualizzano le sublimi decorazioni compresenti sull’oggetto e “racconto di azioni” consecutive nel tempo che l’hanno forgiato e gli hanno dato vita.

Definendosi nel tempo e nelle penne, l’ekphrasis si stacca dall’epica e entra nei generi letterari come forma retorica.

Tra le penne più note che fecero ricorso a questa forma, ognuno secondo i motivi della propria persona e della propria epoca, possiamo ricordare esempi classici in Luciano, Teocrito, Vasari, le cui Vite contengono molte descrizioni talmente appassionate da risultare ecfrastiche; più avanti i preraffaelliti la apprezzarono particolarmente poiché ben adatto al loro valore di sinergia tra le arti; la famosa “Ode to an ancient urn” di Keats, Percy Shelley e la Medusa di Leonardo, Freud e la sua ekphrasis psicanalitica del Mosé di Michelangelo, fino al più vicino Calvino che apre il Castello dei Destini Incrociati con un’ekphrasis minuziosa e critica del San Giorgio che uccide il Drago affrescato da Carpaccio. 

Insomma, è una forma elastica, si applica a epoche, stili, metodi e riflessioni diverse proprio per la sua natura di trasversalità e commistione linguistica: immagine e parola, materia e verbo.

Nella società-comunicazione di oggi, dove i media convogliano in un unico spazio multi, o meglio, metamediale, dove l’ibridismo e i passaggi tra le forme di linguaggio emergono costantemente nella cultura bassa e alta spontaneamente, può essere un modo in-attuale per entrare dentro i meccanismi umani odierni, sperimentarli sul confine tra l’arte del visibile e della parola per cercare un accesso al sensibile più ampio, una via che convogli da esperienze, espressioni, forme diverse.

Tra manipolazioni, commistioni, trasposizioni di codici linguistici, siamo in realtà abituatissimi a questo genere di operazione, che fondamentalmente è il modo artificiale di riproporre il gioco della percezione: davanti a una semplice mela, senza che lo notiamo, il colore, il profumo, il gusto, l’ambiente in cui è posta, il nostro stato psicofisico o esperienziale, tutto convoglia in quella che Platone chiamerebbe Idea di Mela. Il problema è che l’Idea di Mela non la conosciamo mai, è un qualcosa di presente nel limbo tra il mio essere e il mio non essere. Viviamo l’Idea di Mela esperendo la singola mela, ma la comprendiamo mettendoci nella condizione di grazia divina, o prerogativa umana, che è la téchné: riprodurre, ricreare. La mimesis, il ri-produrre, è la conferma, la prova del nove di un pezzo di verità. Giocare con pezzi di verità diverse, confrontandoli, ci avvicina a una visione sempre più caleidoscopica, complessa e unitaria dell’esistenza, affascinante e indecifrabile Verità ultima.

La mela rimane mela, sì, il mondo rimane com’è, ma il mondo vissuto e compreso si amplia e si addensa così nella parentesi della storia umana. 

Ermogene nel II sec a.C. la intende come “discorso descrittivo che pone l’oggetto sotto gli occhi con efficacia”. Cosa significa “efficacia”? Dal vocabolario: Capacità di produrre pienamente l’effetto voluto. L’effetto voluto dagli artisti non è mai chiaro, spesso nemmeno a loro stessi, soprattutto dopo l’avvento della Modernità. L’effetto di un’opera d’arte è collettivo, è sempre dato da una pluralità. Per questa ragione mi appassiona gareggiare, pur sapendo di non poter vincere, ma cercando di sfiorare il testimone della staffetta di un’umanità che attraverso l’arte, vince il mondo.

Michelangelo, più di ogni altro artista ha vinto il mondo.

Dall’accorrere di gente da ogni angolo della terra alle interminabili code vaticane, alla presenza di mini David in plastica in negozi di souvenir qualsiasi, anche lontanissimi dalla sua collocazione fiorentina, alla persistenza di quello spazio d’infinito tra la mano di Adamo e di Dio nell’immaginario ormai di tutto il mondo, si può evincere tale vittoria.

Come teorizzava in modo lungimirante il Vasari, l’arte di Michelangelo ha saputo elevarsi a modulazioni tanto sottili che la materia da lui formata si è elevata al pari della Natura: è divenuta modello, punto di partenza delle nostre mimesis conoscitive del mondo.

Ed è sempre il Vasari, in uno dei suoi tanti e criticatissimi aneddoti, a tramandarci quello che a mio avviso è l’esempio di ekphrasis più alto, non dicibile altrimenti.

Egli racconta di come una volta fu accompagnato proprio dal Maestro a vedere la celeberrima Pietà in San Pietro e nell’ammirarla obiettò la giovinezza della Madonna, una ragazzina in confronto al corpo che tiene sulle ginocchia come per riprenderlo nel ventre materno, il cui volto e la cui carne invece sono esattamente quelli di un uomo di trentatré anni, morto.

Michelangelo semplicemente rispose prendendo in prestito da Dante la prima terzina della Preghiera alla Vergine.

Pietà, Michelangelo, dettaglio.

Il motivo è che Maria è eterna, perfetta nella sua assolutezza, unico essere nato umano e Assunta all’ordine celeste, è la Grazia e non è una donna, lei è La Madonna, mentre Gesù è vero Dio e vero Uomo, fatto Verbo, incarnato e morto. Non sono due riproduzioni in marmo di personaggi di una storia, sono due concetti, appartengono alla sfera della mente, del divino, anche nella loro forma marmorea.

“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura”

Pietà, Michelangelo

Ma la risposta ekphrastica, appoggiandosi all’arte di colui che con la penna raggiunge la stessa altezza che raggiunse lui con lo scalpello, le cui parole prendono una forma che è la stessa che prende la pietra, ha tutt’altra potenza nel dire questo. Zittisce il Vasari e apre una doppia via, come binari di un treno, capace di condurci alla dimensione di cui solo l’arte è mediatrice terrena: l’intangibile.

https://www.arateacultura.com

https://www.poetryfoundation.org/poems/44477/ode-on-a-grecian-urn

https://it.wikisource.org/wiki/Iliade_(Monti)/Libro_XVIII

http://dante.loescher.it/paradiso/XXXIII

Beatrice Buratti

Redattrice in Arte