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“Divorzio di velluto” di Jana Karsaiovà – Premio Strega 2022

Di Nicola Vavassori

A poche ore dalla proclamazione della cinquina finalista dello Strega 2022, cogliamo l’occasione di recensire Divorzio di velluto di Jana Karsaiovà per fare il punto della situazione sui 12 candidati di quest’anno. Il Premio Strega quest’anno si è nettamente definito come una panoramica storico-sociale della nostra contemporaneità, come nel tentativo di descrivere l’identità dell’uomo (e soprattutto della donna) in un presente sempre più incerto, caratterizzato da una fortissima tendenza alla disgregazione, all’allontanamento da un centro di gravità sempre più debole.

Nel farlo, molti autori hanno ricostruito i fili che ci tengono legati al passato perché, da nani quali siamo, abbiamo bisogno di giganti che ci offrano le proprie spalle per guardare lontano e per specchiarci in noi stessi. E il primo tra questi giganti non è altri che la Storia. Così Divorzio di velluto racconta la vicenda di Katarina, una giovane slovacca, la cui identità è fondata sull’avvenimento che più di tutti ha segnato la storia della sua patria, ossia la separazione tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia nel 1992. Avvenimento storico, questo, che ha inciso profondamente su vite di persone molto più vicine a noi di quanto pensiamo. (Basti considerare che Praga e Bratislava distano da noi meno di Parigi e Berlino, eppure ci appaiono come un universo a sé stante, molto più “straniero” delle mete preferite delle nostre vacanze. E se i libri di scuola spendono pagine e pagine per approfondire la politica di Francia e Germania, è più unico che raro trovarsi a studiare il “divorzio di velluto” del 92’ fuori da un contesto universitario).

La Karsaiovà sceglie di raccontare la storia attraverso il ricordi di Katarina, dunque attraverso la distanza del presente: il distacco necessario per maturare un giudizio più freddo e razionale su un avvenimento storico. In ciò si differenzia da Davide Orecchio (con Storia Aperta) e Alessandro Bertante (con Mordi e Fuggi), che invece ambientano i propri romanzi al tempo delle vicende narrate, mostrando il pieno del cambiamento in tutto il suo calore. Tra l’altro questi due autori fondano solidamente le proprie opere su lavori di profonda ricerca delle fonti, nell’ottica di un taglio più prettamente storico. Il che manca in Divorzio di velluto, non tanto per negligenza dell’autrice, quanto piuttosto per l’intenzione di rappresentare il punto di vista e le impressioni di una persona comune, che negli anni 90 era soltanto una bambina, e che quindi li osserva attraverso la coltre di nebbia e l’innocenza che caratterizza ogni infanzia. Ciò non significa che l’opera della Karsaiovà pecchi di inaccuratezze e approssimazioni storiche, anzi, questa prospettiva permette di mettere in luce tutti quei piccoli e grandi disagi che hanno colpito le famiglie come tutte le altre, riflettendo nel quotidiano l’onda sismica generata dal tracciamento di un nuovo confine. Un esempio è la mancata affluenza di alcuni particolari medicinali dalla Repubblica Ceca alla Slovacchia, che causò una tragica ondata di morti, di cui pochi sembrano ricordarsi al di fuori di quell’area politica. Dopotutto la storia non è solo quella che osserviamo sulla cartina geografica, ma soprattutto quella che si riflette nel piccolo della vita dei singoli individui.

Quindi non bisogna aspettarsi un saggio approfondito sulla storia politica di questi due paesi. Tra le pagine di Divorzio di velluto prevalgono infatti le vicissitudini private di Katarina, che, a 30 anni dalla separazione della Cecoslovacchia, deve affrontare anch’ella un divorzio silenzioso, quello con suo marito, Eugen, che sparisce lasciandole un biglietto. Una storia comune, insomma, come quella di Nina sull’argine raccontata da Veronica Galletta, che procede per dolci metafore e sceglie un elemento naturale, l’acqua, più che uno politico, per rappresentare una separazione coniugale.

L’episodio della dipartita di Eugen in Divorzio di velluto, poi, ricorda curiosamente quello con cui si apre il romanzo di Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, dove Giovanni viene abbandonato dalla moglie Giulia nello stesso modo (quello del biglietto d’addio, dopotutto, è un cliché delle storie d’amore da almeno qualche secolo). Le ragioni delle due separazioni, però, sono ben diverse, e Divorzio di velluto prosegue con una trama prevedibile, priva di grandi grandi colpi di scena, mirando evidentemente a intenti diversi. Se tra i libri dello Strega 2022 si cerca la novità, insomma, bisogna rivolgersi proprio all’opera di Piersanti, piuttosto che al criptico Nova di Fabio Bacà, capaci di suscitare emozioni raramente esperite da un lettore, seppur in due direzioni opposte (che qui – in modo quasi dissacrante – si potrebbero riassumere rispettivamente come una “quiete inquieta” per Quel maledetto Vronskij e una “violenta introspezione” per Nova, ma che invitiamo ad approfondire nei rispettivi commenti critici che trovate sul nostro sito, oltre che con la lettura dell’opera).

La vicenda di Katarina in Divorzio di velluto, in ogni caso, non si limita al panorama ceco e slovacco, ma si sposta anche in Italia. Qui la protagonista decide di trasferirsi seguendo l’amica Viera, la quale a sua volta aveva cercato una nuova casa nel Bel Paese inseguendo un amore impossibile per la sua professoressa di Italiano. Stupisce a fa quasi sorridere di amara ilarità i lettori italiani, scoprire che il nostro Paese diventa simbolo di speranza e di un nuovo inizio in testi come quello della Karsaiovà e quello di Alessandra Carati, E poi saremo salvi, forse l’opera più simile a Divorzio di velluto tra i candidati allo Strega 2022. Entrambi raccontano di straneri che scelgono l’Italia per salvarsi dall’instabilità politica della propria patria, sì, proprio l’Italia che, se non fosse per la gentile concessione di catastrofi mondiali, cambierebbe governo due volte a stagione. Il che d’altro canto potrebbe anche farci riflettere sui pregi e sulla bellezza del nostro paese, che dopotutto rimane tra i più vivibili d’Europa, così che ci siano più cervelli impegnati a valorizzarlo di quanti lo siano a fuggirne.

È di questa seconda tendenza, altrettanto ragionevole, che trattano invece Mario Desiati in Spatriati e Marco Amerighi in Randagi due romanzi tra loro paralleli e in coppia speculari a quelli della Karsaiova e della Carati. È del ritrovare se stessi al di fuori dell’Italia che trattano infatti Desiati e Amerighi, raccontando con acutissima raffinatezza il sentimento di precarietà e incertezza che stringe il nodo alla gola dei “giovani d’oggi” in Italia. Quando si vuole ambire a qualcosa di più della mera sopravvivenza – sembra suggerirci la lettura di questi quattro romanzi – di certo l’Italia non è il teatro adatto per recitare la tragica pantomima dell’esistenza.

Espatriare, però, come ci insegnano queste opere, significa anche “espatriarsi”, tradursi in un’altra lingua, tematica che spicca in alcuni meravigliosi capitoli di Divozio di velluto e che ricorda molto anche il leitmotiv di Un amore di Sara Mesa (altro candidato al Premio Strega 2022, ma questa volta per la sezione Europea). La lingua, dopotutto, è un codice per descrivere la realtà, è lo scheletro su cui si erge la propria identità. Entrare in contatto con un altro luogo, dunque, significa porre un ennesimo velo di incomunicabilità a tutti quelli che già ci separano dal rapporto con l’Altro, fino quasi all’esclusione sociale.

Anche la stessa autrice, Jana Karsaiovà, raccontando la propria esperienza di scrittura in un idioma che non è la sua lingua madre, parla della “sfida di un’analfabeta” (rifacendosi alle parole di un’altra “straniera” come lei, Agota Kristof), che si sente costantemente non all’altezza per l’impresa che si è prefissata.  Sicuramente le difficoltà della narrazione in una lingua non sua si scorgono tra le pagine di Divorzio di velluto, che presentano uno stile linearissimo, arricchito di una retorica che in certi punti diventa anacronistica. Di certo ci troviamo sul lato della bilancia opposto rispetto a Stradario aggiornato di tutti i miei baci di Daniela Ranieri e a Niente di Vero di Veronica Raimo (vincitrice del Premio Strega Giovani), in cui esplode lo stile eccezionale di chi sa usare la propria lingua per acrobazie intelligenti e sardoniche, sbeffeggiando la propria contemporaneità (e anche la propria identità) con l’eleganza della retorica. Manca anche la ricerca descrittiva di una penna come quella di Marino Magliani, autore de Il cannocchiale del tenente Dumont, caratterizzata da un realismo dettagliatissimo.

La Karsaiovà, però, compensa la piattezza dello stile con l’intrigo della struttura del romanzo. L’intera vicenda di Divorzio di velluto, infatti, si svolge in pochissimi giorni, dalla vigilia di Natale fino ai primi giorni dell’anno nuovo. Eppure sia le vicende di Katarina e di Viera, sia la storia della separazione della Cecoslovacchia compaiono nell’opera grazie a un intricato sistema di flashback, inscatolati l’uno dentro l’altro come una matrioska, fino a creare infiniti piani di narrazione. Il labirinto del flusso di coscienza si srotola tra un ricordo e l’altro ricostruendo la trama del romanzo tassello dopo tassello. Una spirale di ricordi, questa, che forse talvolta diventa eccessiva, ma che senza dubbio regala a Divorzio di velluto un tocco di originalità degno di nota.


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