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“I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni – Premio Campiello 2022

Di Francesca Manzoni

Con “I miei stupidi intenti”, edito da Sellerio Editore nel 2021, Bernardo Zannoni compie il suo esordio sul panorama librario contemporaneo, aggiudicandosi un posto nella cinquina del Premio Campiello 2022. Il romanzo trasporta il lettore all’interno delle “memorie di una faina”, che, capitolo dopo capitolo, racconta la sua vita nel bosco, dal principio, all’epilogo. Ad uno sguardo superficiale, questa autobiografia da cartone animato Disney potrebbe sembrare banale e poco significativa, ma scavando, andando oltre alla superficie, si arriva a comprendere come l’autore abbia voluto riempire una “favoletta come tante altre” di significati più complessi, arrivando a mettere in discussione l’atto stesso della parola, come veicolo della conoscenza. Ma, andiamo con ordine. 

Archy è una faina che vive, insieme ai fratelli e la madre, in un normalissimo bosco, senza una collocazione geografica precisa. Gli animali che popolano questo “mondo parallelo” vivono la loro vita senza alcun tipo di civiltà, prede degli istinti primordiali di sopravvivenza e privi di intelletto e di coscienza. La loro “società primordiale” non è però totalmente dominata dal caos, poiché, seppur in una forma embrionale, essi sono parte di un sistema organizzato, espresso in diversa misura dall’umanizzante descrizione delle loro case, formate da letti in cui dormire e da tavoli attorno a cui consumare la cena. Tutti gli animali hanno inoltre il dono della parola, comunicano e stipulano tra di loro accordi. 

La vera e propria vicenda narrata prende piede quando Archy, a seguito di un incidente che lo rende zoppo, viene venduto dalla madre ad una vecchia volpe, Solomon, usuraio di professione. Tra i due si innesta, fin da subito, una relazione estremamente ambigua: da un lato è infatti il rapporto tra un servo è il suo padrone, caratterizzato da continui soprusi e violenze ma dall’altro, il loro legame si evolve, fino a diventare quello tra un allievo e il suo maestro. Solomon decide di insegnare alla debole faina “l’arte della parola”, intesa non solo come la capacità di leggere e scrivere, ma anche come la facoltà di comprendere la parola di Dio.  

Riuscii a fermare quell’impeto alla gola, a sopprimerlo con un tremito, abbassai lo sguardo. Una profonda tristezza mi avvilì. Non mi sentivo più un animale; avevo barattato i miei istinti per dubbi e domande, per esercitare la ragione, per contraffare la mia natura. Solomon avrebbe detto che era un sentimento stupido, un amore fittizio, e a quello avevo pensato. Pensai anche a Dio, e alla maledizione di averlo trovato, e a Louise.”

“I miei stupidi intenti” Bernardo Zannoni

Ed è proprio la comprensione di verità fino ad ora sconosciute, come il concetto di tempo, di vita, di morte e di aldilà a spostare la trama da un piano puramente favolistico ad una dimensione quasi filosofica. Il romanzo diventa quindi, a mio parere, un “esperimento mentale” esplicabile attraverso un paradigma proposto dalla “Knowledge managment” (meglio conosciuta come “gestione della conoscenza”), disciplina divenuta popolare nel corso degli anni ‘90 del XX secolo. Essa distingue due tipologie di conoscenza, che ben si adattano alla chiave interpretativa che vorrei fornire a questo romanzo. 

In un primo momento della sua vita, il personaggio di Archy possiede una “conoscenza tacita” di se stesso e del mondo a cui appartiene: essa non si apprende tramite la studio ma deriva dall’esperienza delle cose e delle persone che giorno dopo giorno lo circondano. Il personaggio di Solomon non è altro che la chiave di volta per la maturazione, da parte della faina, di una “conoscenza esplicita”, che non solo può essere rappresentata, ma anche trasferita tramite l’arte della scrittura (elemento centrale all’interno del romanzo). Il processo di conversione porta il protagonista ad assimilare nozioni destinate a condizionare drasticamente il suo vivere: la comprensione del concetto di tempo e di morte creano l’angoscia di essere solo spettatore consapevole di un volere superiore.  

A mio parere però, in questa strabiliante presa di coscienza, c’é un punto di profonda ambiguità: l’avvicinamento a temi assoluti corre il rischio di confondere, portando il lettore (e forse, anche lo stesso autore) in un limbo di quesiti più grandi di lui. Sto parlando, in particolare, delle conseguenze di tale consapevolezza: esse non migliorano affatto la vita della giovane faina, rendendola complessa e dolorosa, a tal punto da decidere di non divulgarla a terzi. Anche nel momento in cui il suo ruolo diventa quello di maestro del goffo istrice Klaus, egli omette tutti quei dilemmi che in giovinezza l’avevano afflitto: 

“Dopo un primo momento d’incertezza mi venne facile insegnargli a leggere e a scrivere. Non parlai mai di Dio, né della morte; decisi di salvare la sua vita dai grandi dilemmi che mi avevano afflitto, di lasciargli un’esistenza da animale. Dio sarebbe stato più contento, perché nella sua ignoranza già faceva quello per cui era stato creato. Leggemmo insieme il libro di Solomon, tranne alcune parti che ebbi l’accortezza di togliere, perché parlavano appunto di cose che non doveva sapere”

Negli ultimi due atti del romanzo però, Archy decide di trascrivere le sue memorie per donarle a Klaus, nel tentativo ultimo di sconfiggere, con l’essenza atemporale della scrittura, la morte. 

“Mi ha guardato sbigottito, ancora sicuro che andassi con lui.

«Tienili sempre con te, sono un tesoro. Ti diranno tante verità, ti faranno male, ma non potranno mai ingannarti su quello che sei, su quello che siamo».

L’istrice allora ha capito, e ha fatto un mugolio strozzato, afferrandomi il pelo.

«Insegnali ai tuoi figli, digli come raccontarli agli altri, come io ho fatto con te».”

È dunque giusto chiedersi, in ultima battuta, cosa “I miei stupidi intenti” abbia voluto dirci realmente: è forse un rimpianto per tutto ciò che la conoscenza gli ha sottratto? Oppure è un omaggio all’essenza stessa dello scrivere? E soprattutto, che ruolo ha la figura di Dio nell’immaginario complessivo della storia? 

Questo romanzo mi ha dato l’impressione che l’autore si sia perso all’interno di quesiti più grandi di lui. Il suo punto di vista stenta ad emergere, rimanendo un vagheggiare che non riesce a tirare le fila della storia, o meglio, se lo fa, non riesce ad impressionarci veramente. 

Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura