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Intervista a Daniela Ranieri

Intervista a Daniela Ranieri, di Nicola Vavassori

In occasione del Premio Campiello 2022, abbiamo avuto il piacere di intervistare la scrittrice e giornalista Daniela Ranieri che è tra i cinque finalisti di quest’anno con Stradario aggiornato di tutti i miei baci. L’opera, edita nel 2021 per Ponte alle Grazie, è stata candidata anche nella dozzina finalista del Premio Strega 2022. Allo Stradario abbiamo già dedicato una recensione scritta e una in formato video. Sempre con Ponte alle Grazie, Daniela Ranieri ha pubblicato le sue prime tre opere: Tutto cospira a tacere di noi (2012), AristoDem. Discorso sui nuovi radical chic (2013) e Mille esempi di cani smarriti (2015). Oggi l’autrice scrive di politica e cultura sul Fatto Quotidiano.

Daniela Ranieri
Foto di Fabrizio Intoni

Stradario aggiornato di tutti i miei baci è un’opera complessa e poliedrica che per certi versi sfugge ai canoni della narrativa contemporanea: è molto estesa, utilizza uno stile e un linguaggio estremamente colto, affronta di petto una vastità di argomenti diversi tracciando una panoramica dettagliata della società odierna. Per queste ragioni nella mia precedente recensione l’avevo definita un “Super-Libro”. Allora sorge spontanea una prima domanda: qual è il prototipo ideale di lettore a cui pensava quando ha concepito l’opera? Serve un “Super-Lettore”?

Daniela Ranieri: Non ho pensato a un lettore ideale, mentre scrivevo. Mi sono augurata che venisse accolto con curiosità, interesse e pazienza. Non è un libro di lettura rapida, o scorrevole, come dico spesso e al contrario di quello che alcuni mi hanno per fortuna riferito. Sempre per fortuna non è stato ignorato. La definizione di Super-Libro mi piace molto, purché (e mi pare che lei lo spieghi molto bene in quella recensione) non lo si intenda in senso post-moderno. Odio il post-moderno, che è cinico. Lo voglio intendere in un senso di approdo a una forma poco sperimentata di ibrido tra saggio morale, romanzo, autobiografia di un io-narrante inesistente. Ho l’impressione che il mio libro sia come uno di quei parcheggi multilivello, accessibili a vari piani; o come una montagna con molti tornanti: sicuramente un lettore allenato salta più agilmente tra i vari registri e gode appieno di tutti i riferimenti, ma anche un lettore poco esperto può godere del panorama affacciandosi dalle cime più basse.

Ovidio, Montaigne, Kafka, Gadda, Svevo… Il caleidoscopio di riferimenti dello Stradario è inesauribile e spazia nella letteratura di ogni epoca e luogo. Oltre al tema dell’amore, esiste un fil rouge che l’ha guidata nella scelta di questi autori, magari legato alla sua esperienza personale?

D.R.: Credo di sì: i miei preferiti sono tutti autori che hanno scritto e vissuto in condizione di solitudine. E che hanno creato personaggi solitari, spesso misantropi, non inseriti e non integrati nella società, estranei ai consessi umani, inabili alla conversazione mondana, scomodi in qualunque luogo e ruolo che il loro tempo gli imponeva. A quelli che cita con precisione (non a caso esiliati, o eremitici, o solitari, o respinti, o nevrotici), aggiungo Nietzsche, che visse una vita di mansarda in totale solitudine, misconosciuto dal mondo della cultura tedesca e svizzera; Melville, col suo malinconico capitano Achab e il suo Bartleby lo scrivano, che rifiuta l’etica della produttività; Milan Kundera, che crea personaggi impregnati di tristezza; Thomas Bernhard, il più asociale dei geni; Dostoevskij, che morì in povertà e senza gloria, insieme col suo uomo del sottosuolo, gli umiliati e gli offesi, gli indemoniati, i malati, gli incompresi.

In un contesto letterario che predilige la rapidità e la fruibilità, lo Stradario si impone con quasi 700 pagine che non risparmiano ampie digressioni e indugi virtuosi. In che modo, secondo lei, la lunghezza ha influito sul giudizio di critica e lettori?

D.R.: Le scelte che ho fatto sono tutte anti-economiche: dalla lunghezza (e ho tagliato in fase di editing l’equivalente di circa 120 pagine) alla esorbitanza di citazioni, fino alle scelte lessicali meno ovvie, più ricercate, meno ammiccanti. Questo è possibile solo in due casi: o si ignorano, nel senso che non si conoscono, le previsioni circa il giudizio della critica e dei lettori; o si sfidano quelle stesse previsioni fregandosene. Spesso si agisce nell’intercapedine tra incoscienza e coraggio. Se l’obiettivo è scrivere un best-seller, è ovvio che si sta sbagliando strada. Ma non è una legge, magari c’è spazio per qualcosa di diverso. Io sono felice dei riconoscimenti e degli apprezzamenti ricevuti finora.

Fin dai tempi del mito – di cui lei sembra essere visceralmente appassionata – la risata è ciò che distingue i vivi dai morti, l’antidoto che ci permette di affrontare le peripezie della vita. Come si concilia il taglio ironico della sua opera con l’atteggiamento distruttivo della protagonista? E la leggerezza dello humor con il peso dell’invettiva sociale? Insomma, come si fa a ridere in mezzo a una “disastrologia”?

D.R.: La risata e la distruzione (dei costumi sociali, delle mode, del potere) sono da sempre intimamente legate. Il mio romanzo è anche una satira, nel senso antico del termine, cioè una “satura”, un genere caratterizzato dalla varietà, da una pienezza di sfumature e registri. È una miscellanea in cui l’elemento lirico, poetico, non viene distrutto dal satirico e dal caricaturale: l’invettiva e il sarcasmo sono sempre rivolti agli aspetti deteriori della vita, ai potenti, ai furbi, alla burocrazia, ai miti tossici della nostra società competitiva. Ci sono delle entità, come gli animali, che sono salve dalla distruzione, e anzi sono l’antidoto a questa. Sono destinatari delle mie elegie amorose. Il disincanto non intacca tutti i valori. L’amore stesso non è consumato, non è esaurito dalle storie tragicomiche che sono rappresentate sulla pagina. Anzi: è il loro susseguirsi a produrre insieme il riso e la possibilità di un re-incantamento. L’ironia è proprio l’antidoto all’erosione dell’incanto. Stimola l’intellezione e la speranza, è un’arte delicata che al contrario del sarcasmo non lacera, ma tratta la vita come una seta preziosa; l’ironico conserva la lucidità di riservarsi il diritto di restituirla al venditore, nel caso si rivelasse deludente.

Ha raccontato che la nomina nella cinquina del Premio Campiello è stata per lei una sorpresa. Poi come è andata? Girare l’Italia presentando il proprio romanzo e la propria idea di letteratura è forse il sogno di ogni autore.

D.R.: È andata benissimo. Ho incontrato tanti lettori curiosi, attenti, gentili (compreso lei che mi intervista). Ho trovato i migliori compagni di viaggio che potessi desiderare. Mi piacciono gli alberghi, i frigobar, le colazioni, il senso di spaesamento del viaggio. Passare da Venezia a Cortina in poche ore, ad esempio, è letterario: mi ha ricordato l’incipit de La montagna incantata. Parlando davanti a pubblici sempre diversi poi ho scoperto cose del mio libro che prima non avevo afferrato. L’ho capito meglio.

In un’altra intervista ha raccontato: “Karl Kraus univa l’attività di giornalista a una indagine metafisica di sguardo critico sulla realtà.” E lei, a che cosa unisce la sua attività giornalistica? C’è del metafisico anche nei suoi articoli?

D.R.: C’è un interesse per l’antropologia del potere, di cui, sebbene nel degrado, la nostra scena politica offre quotidianamente un saggio eloquente; e c’è un esercizio quotidiano alla scrittura. Non scrivendo cronache ma commenti ed editoriali, devo trovare ogni giorno un lato da cui osservare un fatto. È una meta-osservazione dell’attualità, perché non mi basta riportare i fatti, occorre che quei fatti siano significativi, letterariamente interessanti. Io spesso non ho opinioni. Raramente il fatto o la polemica del giorno suscita una mia reazione. Devo capire se quello che accade stimola la mia opinione, se c’è un appiglio ironico, o etico, tra la realtà e la visione del mondo che mi sono costruita nel tempo. E questo allena la mia coscienza e il mio spirito critico.

Il panorama letterario contemporaneo in Italia è magmatico e incerto. I lettori sono investiti da un’offerta vastissima a cui spesso nemmeno i premi letterari riescono a dare ordine – basti pensare alla polemica sollevata quest’anno dallo Strega che sceglie 7 finalisti al posto di 5. Qual è il suo consiglio per “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”?

D.R.: Credo che dipenda dalla sensibilità e dalla disposizione interiore di ciascuno. L’inferno dei viventi è diverso per tutti noi. Per me il paradiso è leggere Il Maestro e Margherita sotto un pergolato, con un gatto accanto e una limonata sul tavolo, all’ora del crepuscolo; per altri la stessa cosa può essere una tortura. Ne ho avuto un’ulteriore conferma questa estate: una spiaggia popolata di bagnanti, tra odori di fritto e musica nauseabonda, credo dance latino-americana, a me sembrava un girone dantesco, la sola idea di passarci più di trenta minuti mi era intollerabile; appena arrivata ho meditato la fuga, cercando vie d’uscita, agognando una spiaggia deserta o meglio ancora un balcone con vista mare; per gli altri (tantissimi) che erano lì quella era un’oasi di benessere dentro una routine infernale. Un libro è una spiaggia concentrata. Ciascuno legga ciò che lo fa stare bene: la riviera-carnaio o la caletta selvaggia. Faccio solo tre nomi tra i contemporanei (non me ne vogliano gli altri: è solo per rimanere nella metafora della spiaggia deserta): Valerio Magrelli: stupende le sue prose contro il sopruso del rumore; Michele Mari, per la sua ironia gaddiana, la sua perfezione stilistica e la capacità di cesellare sublimi personaggi anti-sociali; Vittorio Giacopini, il più piratesco, selvatico ed eremitico dei nostri scrittori.

Stradario aggiornato di tutti i miei baci