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Andrea Bajani, “Il libro delle case” – Il frammentario diorama dell’io – Premio Campiello, Premio Strega

Il libro delle case

Architettura: come ricomporre un mosaico

Per raccontare “Il libro delle case” di Andrea Bajani (Feltrinelli, 2020), opera quinta classificata al Premio Strega 2021 e candidata come finalista del Premio Campiello, non si può che iniziare tracciandone la planimetria. La struttura stessa su cui l’opera poggia le fondamenta è il primo fattore di originalità che salta all’occhio del lettore. Basta uno sguardo, mentre si sfoglia il libro distrattamente dopo averlo acquistato, o ancora tra gli scaffali della libreria, come si fa per prendere familiarità con la carta stampata, basta leggere solo alcuni dei 78 titoli che intestano i capitoli dell’opera, ciascuno con il nome di una casa e un data, per viaggiare con la mente a reminescenze calviniane e affermare, con un sorriso saccente: “È proprio come Le città invisibili”. E forse il lettore più esperto, scoprendo presto che il protagonista non ha nome, ma è chiamato semplicemente “Io”, potrebbe proseguire nella sua critica autocompiacente, sempre traviato dallo spettro di Calvino, rivedendoci il “Lettore” di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”.

Appena si inizia a leggere, però, l’illusione di “conoscere già questo libro” si sfalda sotto la gravità dello stile e dei temi di Bajani, che tiene ben saldi a terra i piedi del lettore, lontano dalle utopie postmoderne. Ciascuna casa non è un quadro fine a se stesso, ma la tessera di un mosaico che si intreccia con le altre fino a ricomporre una veduta panoramica sulla vita di Io: il diorama dell’identità umana, frammentato nelle abitazioni che l’hanno accolta. Viene così a formarsi l’enciclopedia di una vita, dove l’indice è costituito dalle case attraverso cui quella vita è passata, lasciandovi indietro una parte di sé. Così in quest’indice si legge: “Casa del sottosuolo”, quella in cui Io ha trascorso la propria infanzia, “Casa sotto la montagna”, dove la famiglia si trasferisce nel 1983 per fuggire da misteriosi aguzzini del padre; poi, scorrendo il dito, si arriva a “Casa del Sesso”, dove un Io sedicenne scopre l’estasi e lo sconcerto che procura il sesso con “Ragazza Vergine”, ma anche a “Casa dell’adulterio”, dove tre anni dopo Io giace con una “Donna con la fede”; e così via.

Due sono gli ostacoli al dipanarsi della fabula e una la soluzione. Il primo ostacolo è la cronologia: i luoghi non sono descritti in un comodo ordine lineare dalla nascita di Io alla conclusione della sua storia, ma si dispongono in un intreccio libero, senza tempo: solo spazio. In questo modo si vanno a creare molteplici linee temporali, come se l’infanzia, la vita adulta e l’adolescenza fossero tre vicende differenti, descritte in altrettanti racconti che procedono paralleli. Come un investigatore, il lettore scopre pagina per pagina i ricordi che colmano quei vuoti apparenti tra un momento e l’altro della vita del protagonista, ricollegando gli indizi in una caccia all’uomo dove l’unico colpevole è l’io, reo di aver sparso i propri pezzi nei luoghi che ha abitato. Al contempo si tracciano anche le storie di altri personaggi, come Moglie, Padre, Donna con la fede, che si sviluppano in un inseguimento ariostesco, alternandosi sotto la luce dei riflettori che ora sceglie di far progredire l’una, ora l’altra vicenda.

Il secondo ostacolo a complicare la struttura del libro è la presenza, tra le case vere e proprie – quelle di ferro e di mattoni -, di non-case, che diventano tali solo attraverso lo sguardo originale di Bajani. Così è casa il guscio di una tartaruga, ma anche la fede nuziale; è casa l’assenza di un padre, “parallela” e definita in negativo; è casa una cabina telefonica, lo sono un conto bancario, una stanza di ospedale, l’abbraccio di un amico.

La soluzione è però evidente al lettore attento – ma ha senso leggere senza prestare attenzione? -, e sta nella tendenza di Bajani a creare, pur nel caos, l’ordine. Infatti l’autore non può rinunciare a inserire in ogni capitolo dei dettagli che collocano imprescindibilmente quasi tutte le case in un tempo e in uno spazio ben definito, ricordando ogni volta il dove e il perché di immagini e avvenimenti, e rendendo quasi impossibile perdersi tra le tessere di un puzzle all’apparenza complicato. Così il lettore è guidato gentilmente a ricostruire la fabula: impara a riconoscere le case a partire dai titoli, lasciandosi accogliere da una storia ormai familiare. Questo processo a volte porta con sé un sottile senso di precarietà, nel realizzare, ricordo dopo ricordo, quanto sia rapido il passaggio dal 1984 di un bambino che gioca a pallone al 2009 di un uomo sposato.

La tela bianca e le macchie di colore

Le macerie dell’identità sono disposte nel museo del “libro delle case” attraverso uno stile particolare, che si fonda su un ossimoro. Da un lato le geometrie labirintiche dell’opera sono filtrate da una scrittura siderale, a tratti asettica, accompagnata da una sintassi semplice e spesso ridotta all’osso, che si riduce a razionali elenchi di mobilio e che inanella azioni e conseguenze con una freddezza quasi brutale. Dall’altro lato nel muro dell’oggettività si aprono delle fenditure di calore, che germogliano dai giochi di prospettiva unici nel loro genere e dalle metafore inusuali ma estremamente efficaci. Una tela bianca, dunque, ma che al contempo è impreziosita da macchie colorate, e ciascuna faccia di questa medaglia sortisce effetti peculiari sulla lettura.

La tela immacolata cala come una patina di neve sulle emozioni, che restano in sordina, non vengono ostentate, ma attendono al loro posto che sia il lettore a estrarle dalla neutralità che le ricopre. Una madre sarà particolarmente sensibile davanti ai passi che raccontano del rapporto di Moglie con la sua Bambina; uno studente universitario verrà catturato piuttosto dalle avventure sessuali di Io, o dai suoi legami con i compagni di corso e i coinquilini. Questa dinamica di immedesimazione che sta alla base di qualsiasi narrazione, acquista potenza proprio in virtù del fatto che Bajani non predilige né le une né le altre emozioni, ma le offre tutte quante sullo stesso piano al lettore, affinché sia quest’ultimo, sulla base della propria esperienza, a cogliere quelle che sente come le più adatte da indossare. Così si assiste al raro processo tale per cui non sono le parole sulla pagina, imponendosi, a descrivere sensazioni, ma è il lettore stesso a ripescare dentro di sé, quasi scegliendole, le sensazioni che la pagina gli suggerisce.

Il tutto è amplificato dal silenzio, che domina su ogni scena. I discorsi diretti sono quasi inesistenti, le descrizioni fotografano momenti di stasi dove a parlare sono al massimo i cigolii e i crepitii degli edifici. Il silenzio è l’eco della solitudine: isola l’Io in una casa di ovatta, rimarcando il suo destino di abbandono. La trama stessa è un susseguirsi di Addii, non tragici ma scelti volontariamente, in una lenta fuga che si lascia alle spalle una fila di briciole di pane, sparse nei luoghi abitati.

A colorare il tutto, incastonate con insospettabile eleganza, sono appunto le metafore. Giochi di prospettive peculiari e associazioni di immagini coraggiose si stagliano sulla tela che fino a un attimo prima era bianca, ma senza stonare nella musicalità dell’opera. Così la fede nuziale, ossia la “Casa del persempre”, è un carapace d’oro per l’uomo, che ne fuoriesce con tutto quanto il corpo ad eccezione dell’anulare; due nipotini al fianco della nonna diventano le ali di un angelo; i parenti di Madre, costretta da Padre a non vederli quasi mai, sono sassi nello stomaco, che la donna deve imparare a sciogliere con l’acido per eludere la gastroscopia inquisitoria del marito. O ancora, il divorzio è descritto con il peso specifico delle parti che compongono il tribunale; la cena durante la quale Io si innamora della futura Moglie è osservata da sotto il tavolo, studiando i movimenti dei piedi dei commensali. In questo modo, sulla scia di Tabucchi, Bajani mostra il rovescio della realtà. Le sue parole disarcionano il lettore che, nell’atto di leggere una scena quotidiana, a lui affine e all’apparenza banale, si ritrova a osservarla da una prospettiva diversa, senza sapere come. Il lettore perde l’equilibrio e, come un moderno San Paolo, una volta caduto da cavallo apre occhi nuovi sullo stesso mondo di prima.

Al contempo la scrittura di Bajani è un rimedio all’incomunicabilità umana. La parola nel mondo odierno ha perso il suo valore e l’uomo non è più in grado di farne buon uso, sartrianamente non è in grado di interagire con l’Altro. Per comunicare, dunque, è necessario ricorrere a un linguaggio immaginifico, dove costellazioni di figure accompagnano le parole. Tutti questi elementi contribuiscono a dar luogo a una scrittura forse a tratti eccessivamente spericolata e virtuosistica, ma senza dubbio attualissima e innovativa.

Maschere

In alcune culture tribali l’atto di indossare una maschera durante particolari riti di propiziazione, come il rituale di Namahge, costituisce una vera e propria trasformazione dell’identità: l’uomo diventa a tutti gli effetti ciò che la maschera rappresenta. Allo stesso modo Bajani racconta l’identità di un uomo attraverso le case da lui indossate nel corso della vita, come se fosse l’edificio a definire l’essere umano. Non a caso i personaggi sono spogliati di qualsivoglia descrizione, nudi nei dettagli fisici, definiti caratterialmente soltanto dalle sporadiche azioni, ridotti a nomi che sono poco più di didascalie come “Parenti”, “Nonna”, “Bambina”; al contrario, i luoghi sono descritti in ogni angolo di mobilio, in modo quasi ossessivo. Così pensare a “Donna con la fede” significa visualizzare non il suo volto, non il suo sorriso, né il profumo, e nemmeno le parole o i gesti, anch’essi taciuti, bensì le persiane della sua camera da letto, oracolo cartesiano dell’amore proibito con Io, che, in base all’altezza a cui vengono posizionate, comunicano all’amante la presenza o meno del marito. Pensare alla futura Moglie di Io, allo stesso modo, significa intravedere l’armadio che separa il suo letto da quello della figlia, attraverso il quale le due si scambiano parole a notte fonda. Come se cambiassero maschera, dunque, i personaggi mutano insieme alle case che abitano, maturando un’identità sempre frammentata e in evoluzione, mai soddisfacente.

La maschera dell’uomo è però costituita da molti altri elementi oltre alla sua casa e Bajani non li tralascia. In particolare attorno al mondo dell’io gravitano, come satelliti, e il contesto storico e gli affetti. Senza la Storia e senza l’Altro, Io è soltanto un silenzio chiuso in quattro mura claustrofobiche.

L’assassinio di Pasolini, chiamato semplicemente “Poeta”, scuote l’Italia al punto che la madre di Io, incinta, rischia di perdere il figlio per lo shock della notizia. L’eco del delitto si intreccia al resto delle vicende, come un’altra storia parallela, iniziata anni addietro al primo capitolo, e si protrae fino allo scenario desolato di un cancello chiuso e una casa disabitata a Lido di Ostia. Istantanea ferma al 1978, ma altrettanto dirompente, è invece la fine di “Prigioniero”, che si affaccia nella casa di un Io infante attraverso la televisione: il bambino lo guarda negli occhi e gli sembra di percorrere il tunnel dello schermo, gattonando fino ai piedi di un Aldo Moro che non può riconoscere.

Non manca anche il più attuale dei riferimenti storici, ispirazione silente dell’intera opera, ossia il 2020 che ha visto il mondo intero chiudersi in casa e restare per qualche mese a tu per tu con sé stessi e le proprie pareti. Il collegamento con la pandemia è privo di qualsiasi cliché e si pone in naturale continuità con il resto dell’opera, dando una forma e un nome a quello che, per il resto del libro, è un senso di estrema affinità con il mondo delle case esplorato da Bajani. Immerso nella ricomposizione di un mosaico intricato, forse depistato dalle vicende degli anni Settanta, il lettore-investigatore quasi si scorda di conoscere da sempre la soluzione al caso, la conclusione della storia, per averla vissuta sulla propria pelle, soltanto un anno prima. Così il palazzo della memoria di Io, tanto aderente alle vicende biografiche dello stesso Bajani, arriva a coincidere con quello del lettore stesso, realizzando nel finale un triplice punto di approdo quasi conciliatore.

Infine, gli affetti costituiscono una chiave fondamentale per la lettura del libro delle case e riprendono temi già trattati da Bajani in altre opere, come “La vita non è in ordine alfabetico”. Le relazioni interpersonali sono mostrate nel loro evolversi, inquadrate nelle diverse fasi che assumono nel corso di tutta la vita. La precarietà domina nella maggior parte dei rapporti di Io. Il rapporto traviato con il padre va dall’incomprensione alle botte, per culminare in un’evitabile rottura. Il matrimonio è affettuoso, ma mai salvo dalle crepe. Soltanto un legame emerge come unica ancora di salvezza dell’uomo, unica forma pura di amore: l’amicizia. È un amico che, anche nell’incertezza del 2020, rimane l’ultima casa sicura per Io… o forse la penultima.

Infatti c’è un altro porto che accoglie Io lungo tutto il suo viaggio: la scrittura. Per tutto il libro il tema della poesia è costante, ma nascosto, timidamente relegato a un secondo piano, come un sottofondo musicale lontano di cui quasi si scorda la presenza. Eppure, quando Bajani si trova a dover rappresentare “Io” nel 2021, un anno dopo la stesura dell’opera, non può far altro che immaginarsi nell’atto di scrivere. La poesia è un rifugio, le parole tracciano un sentiero rassicurante dove l’io si sente a casa.

“Il libro delle case” è quindi il caos ordinato di una vita intera, dove i ricordi si mettono la maschera del luogo in cui sono stati lasciati. Lo spazio, che altrove è fondale, per Bajani diventa il vero protagonista e viene descritto con un’attenzione quasi amorevole. Dopotutto, per concludere parafrasando le parole dell’autore, oggi siamo una sintesi fatta ad arte di ciò che pensiamo di essere e forse dovremmo sentirci grati nei confronti delle nostre case e nutrire un sentimento di rispetto e cura per gli spazi che si prendono cura di noi.


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