Critica di Prosa,  Premi Letterari,  Premio Strega

La traversata notturna di Andrea Canobbio – Premio Strega 2023

di Chiara Girotto

La traversata notturna

La traversata notturna di Andrea Canobbio si presenta al lettore come un’indagine, divagante e minuziosa allo stesso tempo, sulle origini della depressione di Lorenzo Canobbio, padre dell’autore. Un emblematico caso di autofiction in cui il protagonista-scrittore tenta di ricostruire la storia della propria famiglia per sondarne le tristezze e i tormenti. I primi indiziati: i genitori, l’una reticente, l’altro impudico, entrambi chiusi in una solitudine che nel romanzo assurge al grado di mistero insondabile e dunque ossessivo.

La scena del delitto, se per delitto si intende la privazione del diritto a condurre una giovinezza serena, è Torino, città reale e immaginata, teatro di lunghe peregrinazioni in cerca di risposte. Un luogo che consente di riallacciare le sparute frange dei ricordi al fine di creare un disegno coerente, che sappia spiegare, in definitiva, le ragioni della propria sofferenza. Di chi sia la colpa più grande è apparentemente indubbio: l’autore descrive un padre assente, involuto nelle spire dell’autocommiserazione, convinto di essere l’unico detentore del diritto alla lamentela. Un padre da cui non ci si aspetta mai nulla, non di straordinario, ma di vagamente positivo o illuminante. Un uomo, insomma, nei confronti del quale il figlio-personaggio non ha nessuna stima e che anzi rievoca un rancore mai veramente sopito.

Tuttavia, il reo è certo solo se ci si ferma ai nudi fatti: raccontando la depressione del padre, l’autore fa luce su alcune delle questioni più problematiche legate alle malattie mentali e alla loro percezione da parte dei cari del malato. Come stabilire dove termina il libero arbitrio e dove comincia la patologia? Come accettare moralmente il fatto che il proprio padre si rifiuti di essere felice? Ed è veramente così? Questi interrogativi compaiono, in maniera trasfigurata e ricorsiva, lungo il corso della narrazione, sancendo l’impossibilità di fornire una sentenza definitiva.

Corrispondenze e sintomi

Destreggiandosi tra atmosfere funebri, buche e camposanti, Canobbio evoca costantemente la morte all’interno delle pagine come l’incantatore richiama il serpente, senza però lasciarsi mordere. La morte di cui si tratta nel romanzo, infatti, è psicologica più che organica: è l’habitus di chi muore vivendo, sentendosi già trapassato senza un reale motivo per esserlo.

In quest’ottica Torino, con la sua atmosfera cupa e austera che accomuna le mummie egizie con un impianto urbano ortogonale, si configura come lo specchio geografico della malinconia insinuata nell’animo del padre ingegnere. Di qui le ragioni della caccia al ricordo per le strade della città, di un’esplorazione che delinea una topografia di relazioni, emozioni represse e verità taciute, riguardo alla storia familiare dell’autore, ma anche sulla Storia del Novecento italiano. Dalla campagna di Russia combattuta dal padre, marconista del Genio Militare italiano, alle simpatie fasciste – occultate dai posteri – degli antenati, dai cenni alla storia urbanistica del dopoguerra torinese alle intercettazioni dell’epistolario amoroso dei genitori durante il conflitto, pezzi del vissuto collettivo si infiltrano tra le pieghe della personalissima vicenda narrata.

Vincenda che, nonostante le molteplici incursioni nel passato genealogico e nelle grandi trame storiche dello scorso secolo, come si è detto fatica a sciogliere i propri nodi. Di fronte a quello che Zanzotto avrebbe definito l’arido vero, ossia ai fatti concreti, deludenti nella loro banalità, insufficienti nelle spiegazioni, Canobbio adotta un approccio che è insieme razionale e mitico: ciascun evento evoca un numeroso pressoché infinito di corrispondenze che ne illuminano il senso. Citando Lévi-Strauss, l’autore ricorda che «L’universo non significa mai abbastanza. Il pensiero dispone sempre di troppi significati».

I richiami costanti alle ricerche antropologiche ed etnografiche di Griaule, di Leiris, dello stesso Lévi-Strauss, rispondono a quest’intima esigenza di arricchire il dato biografico, storico, clinico con un universo figurale che funga da chiave di lettura di una realtà altrimenti mutila nella sua eziologia. Nel romanzo la postura razionale dell’autore si flette in continuazione per cercare nuove prospettive simboliche che incarnino, nella loro complessità enigmatica, il dramma delle dinamiche familiari.

Autofiction, verità e reticenza

Sul tema dell’autobiografia, Canobbio si interroga molto, fino al punto di chiedersi si valga davvero la pena raccontare pubblicamente del travagliato rapporto che lo lega ai fantasmi dei propri genitori. Ad un certo punto dell’opera arriva ad affermare che tutti i suoi libri sono libri su suo padre mascherati da romanzi. Eppure, sarebbe incauto considerare la sua scrittura come mera trasposizione di una presunta realtà senza considerare l’elemento finzionale insito nell’attività letteraria. Qualsiasi tentativo di sistematizzazione letteraria del proprio vissuto contiene per l’appunto una certa dose, se non di menzogna, di omissioni.

Tra i personaggi che compaiono tra le pagine del romanzo affiora anche Rousseau, sostenitore della tesi dell’autobiografia come sostanziale trappola ermeneutica, in cui anche la reticenza si rivela come sintomo di ciò che vuole nascondere. Tutto è sintomo nella prosa di Canobbio, che si documenta, si arrovella e si contorce attorno ai propri spettri, e in particolare attorno alla malattia altrui. Spesso, lungo il fluire della lettura, si ha l’impressione che resti, tra le righe, qualcosa di volutamente inespresso, mentre in altri passaggi un livore consunto, ma non spento, straripa nella prosa.

«[…] non ci si libera mai dei propri fantasmi. Al massimo li si può addomesticare»: così sentenzia il suo personaggio, rimarcando l’intenzione di scendere a patti con i trascorsi di un microcosmo familiare simile a molti altri: il romanzo viene descritto come «la storia di una coppia italiana del dopoguerra, della loro felicità (prima parte della vita) e della loro infelicità (seconda parte della vita)»1. La traversata notturna non ambisce a rivelare o a stupire: chi legge accompagna l’autore nella sua personalissima inchiesta, dove l’epifania, se esiste, riguarda esclusivamente l’autore stesso in qualità di figlio, sia di un padre malato sin dai tempi della sua nascita, che di una madre dolce e tenace, alla quale comunque viene attribuita una certa dose di responsabilità nel malessere domestico. Questa vicaria pater familias infatti interpreta qualsiasi espressione di infelicità come una forma di debolezza.

Nella triangolazione che lo coinvolge nel ruolo di testimone del deteriorarsi della salute del padre, e quindi del progressivo deterioramento dei rapporti familiari, lo scrittore-personaggio convive con il lacerante sospetto di essere stato la causa scatenante del male. Ricercare i traumi sepolti e le motivazioni profonde della depressione paterna diviene quindi anche la sola via d’uscita da un senso di colpa latente. Scrivere consente di dare voce ai propri fantasmi, e, paradossalmente, farli uscire dal silenzio si rivela come un tentativo di metterli a tacere.

La scrittura e il feticcio

È unicamente tramite il compito euristico dello scrivere che l’autore riesce a spezzare il cerchio magico tracciato intorno a tali dinamiche malsane quanto inevitabili: formando una soluzione di compromesso tra l’eloquenza laconica del modello paterno e il silenzio stoico di quello materno, Canobbio scrive e coinvolge i lettori nelle sue ossessioni. Lo sguardo straniante della scrittura le rivela per ciò che sono:

«Quello che imparo dall’Africa fantasma è che un oggetto sacro può essere una massa informe di sangue coagulato o vecchio legno tarlato. Polveroso, sporco, banale, il suo misero aspetto ha una forza terribile perché vi si condensa l’assoluto. E come diceva il filosofo Nietzsche, tutto ciò che è assoluto appartiene alla patologia. Lascio quindi che il narratore di questo libro si travesta da etnografo degli anni trenta e mostri il mio feticcio, madre della mia maschera, mentre il resto di me, ridendo a crepapelle, corre a nascondersi terrorizzato».2

A differenza di quello delle popolazioni dell’Africa occidentale, il feticcio dell’autore non è materiale, ma costituito dalla sostanza inafferrabile dei ricordi, del «passato che ritorna in forma di rovina» e rivela «la sua inconsistenza, vacuità, miseria». L’atto di scrivere ne mostra la pochezza senza però depotenziarne la portata sacrale: è un rito che concilia la duplice natura dei fatti accaduti, consentendo allo scrittore di trovarsi contemporaneamente «dentro e fuori dalle cose».

Solo la parola e il suo sapiente impiego da parte di Canobbio gli consentono di compiere metaforicamente la traversata notturna del mito di Osiride dentro il regno degli ormai defunti genitori, per poi rinascere al giorno nel segno della condivisione, fine ultimo di qualsiasi romanzo. L’isolamento e le tensioni della realtà familiare perdono parte della propria carica negativa, esorcizzate dal potere espressivo della prosa. Al lettore è restituita una storia che è anche una dichiarazione di poetica, un modo di decifrare il mondo e di rielaborarlo tramite la parola che si fa indizio, mito e simbolo.

Note:

1 Andrea Canobbio, La traversata notturna, Milano, La nave di Teseo, 2022, [ed.digitale], pg. 89.

2 Ivi, pg. 340.

https://lanavediteseo.eu/portfolio/canobbio-la-traversata-notturna/

https://www.arateacultura.com/

Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager