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Il mito di Narciso – Due esempi nella poesia contemporanea

un articolo di Marco Cresti

Si può tracciare un percorso tematico che possa evidenziare una continuità tra due esempi poetici contemporanei e un mito che ha avuto grande fortuna letteraria, vale a dire il mito di Narciso. L’obiettivo è vedere questo mito nell’ottica del suo fallimento e ciò serve alla constatazione dell’impossibilità per la voce poetica di farsi portatrice di una verità positiva. La figura di Narciso, colui che si specchia nel fiume per ammirare la propria bellezza e muore annegando mentre cerca di farlo, è la figura per eccellenza dell’innamorato della propria immagine, e ciò lo avvicina alla figura del poeta in quanto cantore della bellezza, altrui, del mondo ma spesso anche propria.

Narciso

Un mito che fallisce

Per fallimento di questo mito si intenda la trasmutazione della figura stessa di Narciso, reso umano e incapace della metamorfosi oppure portato a contatto con la finitudine umana che non è quella propria dei personaggi del mito. Il primo esempio da cui vorrei partire è un testo di Umberto Saba, dalla raccolta Mediterranee (1946), Narciso al fonte

Quando giunse Narciso al suo destino 

– dai pastori deserto e dalle greggi 

nell’ombra di un boschetto azzurro fonte – 

subito si chinò sullo specchiante. 

Oh, il bel volto adorabile!  

Le frondi 

importune scostò, cercò la bocca 

che cercava la sua viva anelante. 

Il bacio che gli rese era di gelo. 

Sbigottí. Ritornò al suo cieco errore. 

Perché caro agli dèi si mutò in fiore  

bianco sulla sua tomba. 

La principale rottura con l’andamento del mito è data dalla svolta all’ottavo verso, nel momento in cui Narciso cerca di baciare il proprio riflesso e si appressa al gelo della morte. In ciò sta la metamorfosi vista come morte che si concretizza nell’immagine forte della tomba agli ultimi due versi («perché caro agli dei si mutò in fiore / bianco sulla sua tomba») con cui si estremizza e attualizza il mito antico. Narciso qui non è solo il fiore delle sponde del fiume, ma è il fiore della tomba, un fiore funebre.

Un’ambientazione mitica

Saba in qualche modo acuisce la punizione divina nei confronti di Narciso, fa in questo senso fallire il mito, cioè fa approdare la metamorfosi alla morte. L’ambientazione della poesia è quella tradizionale del mito, almeno all’inizio. Si prefigura poi una rottura dell’elemento mitologico, funzionale ad avvicinarlo alla crudezza della realtà contemporanea al poeta. Il mito si disvela negativamente, è condotto dalla voce autoriale a un rovesciamento, parte quindi nella sua forma più o meno classica e si chiude in maniera più crudele e contemporanea. 

Proprio l’ambientazione bucolica da cui muove la poesia di Saba suggerisce la vicinanza con il testo di Antonella Anedda, tratto dalla raccolta Dal balcone del corpo (2007). In questa raccolta troviamo la poesia dal titolo Eco che un tempo fu Orfeo. Prima di riportarla vorrei specificare che la funzione del mito, in questa, si lega alla definizione della voce poetica. Uno dei temi della raccolta, ricorrenti in buona parte della produzione di Anedda, è la sterilità della voce.

Una voce sterile

Anedda conduce un’analisi molto critica circa la voce poetica, la capacità di avere un ruolo e una poesia che siano affermativi di una qualche verità. In questo contesto la risposta di Anedda è spesso negativa, circa le possibilità assertive e anche comunicative della (quantomeno propria) lingua poetica. In ciò il ricorso al mito aggrava la posizione dell’io: neanche appellandosi alle figure del mito si riesce ad avere una lingua poetica che sia significativa. 

Non un abisso ma una scala 

tra felci scure di fango. 

Si ripeteva: canto per chi muore. 

Compongo il dolore con cautela. 

Resto vicino al corpo. 

Aspetto che il grumo si sciolga nella gola 

e il sangue riconosca l’alfabeto. 

È facile quando piangi un estraneo  

non quando il lutto cresce a dismisura    

e poi diventa muto. 

Scese sapendo di non avere doni 

la voce ora era fioca – come la vista. 

Quanta luce perdeva nel cammino 

quanta pioggia le appesantiva il corpo  

che ustione mettendo i piedi nello Stige. 

Andava come un bue aggiogato. 

Traversava radure senza monti fino a una spiaggia 

con rena tanto bassa da sembrare battuta da una pala. 

Lo vide: a schiena sullo scafo di una barca rovesciata 

le mani nella sabbia, le palpebre cucite.   

Non provò a cantare ma a parlare  

lui restava stretto alla barca 

attento a qualcosa che fuggiva.  

Furono le altre anime a circondarla dicendo  

canta e poi riportalo tra i vivi 

dagli altri attese. 

Rabbrividì, cercò una musica, un ritmo, 

ma dal corpo non usciva a fiotti che silenzio.  

La videro muovere le labbra 

nell’aria, senza un suono. 

Basta, dissero: non sai i nostri respiri,  

non sei adatta a noi morti. 

Non sei chi aspettavamo. 

Lui resta con noi. 

Due lo sollevarono, un terzo gli scucì gli occhi. 

La fissò senza capire, poi guardò altrove. 

L’oltretomba era feroce come il mondo 

con finti varchi e leggi sconosciute. 

Vide una schiera di ombre che avanzava  

sentì lui che scandiva  

rispondendo il suo nome. 

Chiamandolo si accorse  

che poteva insinuarsi fra quei suoni 

perfino vivere nello spazio scavato dalle voci. 

Sbaglieremmo a dire Eco.  

Piuttosto è una pelle cucita 

contro un dorso, un soffio pastorale.                                                                   

Sovrapposizione di miti

Il mito di Narciso qui si mischia a quello di Orfeo ed Euridice. Eco è l’alter ego della poetessa, Narciso figura accecato e con le palpebre cucite, punito quindi della colpa di essersi compiaciuto delle proprie fattezze. Lui è guidato dagli altri morti e incapace di ricongiungersi all’amata; quest’ultima è giunta nel regno dei morti con l’obiettivo di riportarlo in vita attraverso il proprio canto, destino che tradizionalmente è attribuito a Orfeo.

Sono proprio gli altri morti che fanno pesare all’io la sua impotenza poetica, l’incapacità di usare la voce e la lingua per riportare in vita Narciso, come emerge nei seguenti versi: «Furono le altre anime a circondarla dicendo / canta e poi riportalo tra i vivi»; ma dal corpo dell’io «non usciva a fiotti che il silenzio», e quindi le anime danno un verdetto negativo sulla possibile salvezza di Narciso nei versi: «Basta, dissero: non sai i nostri respiri, / non sei adatta a noi morti. / Non sei chi aspettavamo. / Lui resta con noi».

Eco e Orfeo

Qui il riferimento è di nuovo alla sovrapposizione con il mito di Orfeo, probabilmente l’unica figura che può almeno tentare di recuperare le anime dal regno dei morti. Il lutto impedisce il canto dell’io, come emerge nei primi versi del componimento («È facile quando piangi un estraneo / non quando il lutto cresce a dismisura /e poi diventa muto.»), si blocca ogni possibilità di redenzione e, come si vede più avanti nel testo, di una parola poetica affermativa.

La ricerca del ritmo, elemento che caratterizza il canto poetico rispetto alla parola propria della comunicazione quotidiana, è vana ed Eco si vede portare via l’amato. Narciso stesso è peraltro relegato a un ruolo passivo nel testo, e anche questo concorre a definire lo svuotamento della sua figura mitologica. Il momento in cui Narciso viene portato via dalla schiera delle anime coincide con l’ultima strofa del testo, in cui Eco realizza che l’amato «scandiva / rispondendo il suo nome».

La voce non raggiunge l’amato

Lei cerca di mettersi in contatto con lui «chiamandolo» (v.43), con la conseguenza che «si accorse / che poteva insinuarsi fra quei suoni» (v.43-44) ma in questo l’io ammonisce: «Sbaglieremo a dire Eco.» (v.46), emerge quindi il carattere fittizio e artificiale del ruolo di Eco, definita negli ultimi due versi in cui si legge: «Piuttosto è una pelle cucita / contro un dorso, un soffio pastorale.» (vv.47-48) la poesia quindi si conclude con una marginalizzazione, una riduzione del ruolo di Eco, già periferico rispetto al cantore Orfeo che incarna il poeta per eccellenza.

La voce di Eco non è in grado condurre a nessun tipo di salvezza, e il ruolo di chi dice io è connotato da una forte afasia che ne inficia anche il mandato sociale di poeta. Quest’ultima caratteristica risulta acuita dal ricorso al mito: neanche attraverso le figure del mito si può rendere attiva ed efficace la parola poetica. 


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https://www.treccani.it/enciclopedia/umberto-saba/

Marco Cresti

Redattore