Critica di Poesia,  Letteratura

“Quando non morivo”, la Poesia di Mariangela Gualtieri

di Luca Gritti

Una grandezza discreta

Leggere Mariangela Gualtieri è una di quelle esperienze che fa pensare a come davvero la poesia sia il genere letterario di cui il nostro tempo ha più bisogno. In questa contemporaneità frenetica, compulsiva, in cui spesso i romanzi e lo storytelling si adeguano al ritmo rapidissimo del mondo, leggere qualche poesia durante la propria giornata è un esercizio di lentezza, di raccoglimento interiore, di ritorno all’essenzialità di se stessi, di ecologia delle parole e degli stimoli, di pedagogia dello sguardo. Questo è vero per qualsiasi poesia, ma si ha l’impressione che per lei valga in modo particolare. Gualtieri, nata a Cesena nel 1951, è un personaggio pubblico molto discreto. Laureata in architettura, si occupa presto di teatro e poesia, fondando, negli anni Settanta, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca di Cesena, che tutt’oggi anima. Malgrado la grandezza artistica, che si evince sia dai componimenti poetici che dalle pubblicazioni in prosa e dalle opere teatrali, che la impone di fatto come una delle grandi protagoniste della nostra scena culturale, lei continua a vivere ed operare nella sua Cesena, trovando la sua dimensione in una provincia che è lei, con le sue opere e il suo impegno di animazione culturale, a rendere centrale, palpitante. Mariangela Gualtieri è una delle più grandi interpreti di una postura- poetica, filosofica, esistenziale- per la quale le cose decisive della vita stanno nelle questioni che spesso riteniamo piccole, nelle scelte quotidiane che spesso minimizziamo. La sua poesia è, come peraltro scrive nel magnifico Bello Mondo (letto da Jovanotti al Festival di Sanremo di un paio d’anni fa, e che è diventato anche un recitato-cantato in un Live di Vasco Brondi), un’eterna variazione sul tema caro a San Francesco, l’ode magnifica del mondo che, incessante, va avanti. Come per Francesco, per accedere a questa maestosità è necessario effettuare un’operazione di sottrazione, un esercizio quotidiano di contemplazione, di attenta osservazione.

Una fenomenologia commossa delle cose minime

Questo atteggiamento non è frutto di una scelta casuale, ma è un approdo al quale si arriva a seguito di un preciso e profondo lavorio culturale, percepibile in ogni pagina di questa autrice. Gualtieri non ha letto solo tanta poesia, da San Francesco a Dante a Whitman, a Dylan Thomas a Rebora, per citarne solo alcuni, ma ha anche compiuto un preciso pellegrinaggio filosofico, che la fa accostare, nella sua poesia, ad un certo pensiero novecentesco, peraltro spesso interpretato magnificamente da autrici, che diffida delle grandi narrazioni, delle ideologie e dei toni enfatici e roboanti, e che trova anzi la sua pratica esistenziale in una mistica del quotidiano, fenomenologia commossa delle cose minime. Si tratta di un modo di vedere il mondo e la vita meno altisonante, incurante delle tendenze e della notorietà, ma a ben vedere più impegnativo del percorso scelto dalla maggioranza. Il fatto decisivo non è altrove, ma è qui, è l’istante di vita che ho a disposizione oggi, che non posso demandare o disertare. L’esercizio su me stesso è trovare quell’umiltà che mi riconsegna alla vastità del mondo, alla gratitudine per il fatto di essere vivo, e quindi perdonato ed amato da ogni cosa che esiste. In questa pratica filosofica quotidiana la preghiera è la poesia, la regola è il silenzio e la massima virtù praticabile è l’attenzione. È bello vedere quanto spesso questa parola, che aveva ricevuto dignità filosofica da Simone Weil, ritorni nelle poesie di Gualtieri. Tutto questo non è un’evasione dal mondo, ma, al contrario, un esercizio necessario per godere della vita, dei viaggi, degli amori e degli incontri. La poesia non evade dal quotidiano, ma, al contrario, lo fa incontrare con l’eterno.

Una poesia come espiazione…

Basta leggere una delle ultime raccolte poetiche pubblicate da Gualtieri, Quando non morivo (Einaudi, 2019), per cogliere subito questa capacità dei suoi versi di dare a chi li legge una diversa disposizione d’animo. È come se ti trasportassero non in un altro mondo, ma in un altro sguardo- sguardo attraverso il quale le cose di sempre, che troppo spesso ci sfuggono, ti sorprendono fino alla commozione. In altri casi, sono poesie su se stessa, su come anche lei a volte si lasci intrappolare dall’indole impoetica del nostro tempo. Ma anche in questi componimenti sembra che la scrittura stessa sia già un momento di rinsavimento, di ravvedimento, di redenzione. È stupenda questa poesia, la seconda della raccolta, in cui la Gualtieri ci mette di fronte ad una grande verità: non ci sono giorni che ci inaridiscono tanto quanto quelli in cui ci sforziamo di essere estremamente produttivi, efficienti a tutti i costi.

Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto.

O ancora quest’altra poesia, meravigliosa, in cui la poetessa si cruccia di essere incorsa in errori che non credeva le sarebbero più appartenuti, che sono ancora più strazianti vista l’esperienza di vita guadagnata. Come a dirci: l’amore va vigilato, non è una conquista che si guadagna una volta per sempre…

È sporca d’un disordine
lo guarda, lo riconosce
quell’essere nello storto delle ore.
Lontana dal nitore
e dalle potenze. Ancora
ripetente in uno stare male
adolescente in quel disagio
d’essere qui e non avere dove.
Vergogna e pena
di ritrovarsi ancora dove un tempo
era acerba, da poco scesa
nella pista. Pochi maestri
e maestre allora. Ma ora.
Sente il vasto scoramento
di chi l’ha imboccata. Non hai imparato
ancora. Bocciata. Bocciata.  

…E quotidiano innamoramento…

Ma poi di nuovo, ecco, lo stupore della realtà, il quotidiano innamoramento che è lo stato d’animo che ogni uomo dovrebbe avere davanti al mondo, e che la poesia di Gualtieri cerca così bene di risvegliare, di restituire.

L’amore mio ha tanti di quei nomi.
Batte le foglie a volte come cielo
che scende in gocce. Tira vie le foglie
secche e trasporta in volo.
A volte l’amore mio sorge e
risplende
a volte per un momento breve
mi guarda sul sentiero con occhi
spaventati di capriolo. Ha molte facce
l’amore mio. Umane facce
e musi. Ha tutte le parole.
Ha note, sinfonie, voci cantate.
Ha un vuoto così grande
che mi accoglie e mi chiama e mi
atterrisce. L’amore mio.
Mi consola e mi duole.
E non muore- non muore.
Da forma a forma fiorisce.

Tutta la raccolta si gioca tra i demoni dell’Io poetico, le elucubrazioni, i pensieri ripetitivi e sterili che guastano la notte, ed invece il finale splendore che sorge dal cuore stremato, la comunione con la vita che alla fine splende e restituisce al mondo. È come se, secondo la filosofia minimalista di Mariangela Gualtieri, il male appesantisse con una vanità di cui alla fine ci si sbarazza, ed è proprio quando ci ripresentiamo nudi e disarmati davanti al mondo, che qualcosa ci salva. Quando accettiamo di lambire lo zero, è lì che diventiamo infinito. È bellissima in questo senso la sezione che la raccolta dedica interamente agli animali, la cui piccolezza e operosità spesso trasmette serenità all’uomo.

Romba il silenzio. Scuote.
Asseconda una invisibile venuta.
Tacciono tutte le piante.
Il fiore tace. La foglia. La radice.
Per un ascolto che conduce in alto
nella luce e in giù penetrando
l’oscura soglia sotto la superficie.
Chi tace ascolta. Chi tace si raccoglie,
ode una meraviglia che istruisce
la fiorita, guida a terra le foglie,
qui e qui. Chiama la gemma
e nel legno apre per lei piccole soglie.
E inventa l’ape, che cuce fiore con fiore,
ebbra la invoglia nell’intima corolla
dove lei succhia fino a gonfiarsi
d’un polline d’amore.

La comunione con il mondo è anche qualcosa che fa echeggiare i ritmi e i climi della vita dentro l’anima, in un modo sempre armonico, grato, come vediamo nella sezione dedicata alle stagioni. Stupenda, in questo senso, la poesia sull’autunno.

E intanto fuori c’era l’autunno.
Non lo sapevo prima. C’era.
In ogni foglia, nell’aria, nella
luce. C’era. E io l’avevo lasciato solo
non lo avevo sorretto, non ammirato
non ero stata sbalordita dai gialli e
dai rossi che infiammava.
O dall’albero quando sta come nudo, con veste
di foglie garbata caduta ai suoi piedi.
Incredulo, l’albero-attonito
pudico. Non lo avevo guardato.
E adesso dalla finestra chiamava-
l’autunno- col suo mesto sorriso e
di nuovo io sorprendevo, adoravo.
Benvenuto a te che fai del morire
un’epopea di colori.  

Sarebbero troppe le poesie da citare, forse l’intera raccolta. Notevole agli occhi di chi scrive soprattutto Bambina mia, componimento per il quale vi rimandiamo assolutamente al libro. Ma sono tutte le poesie della sezione Divinità domestiche, dedicata ai bambini, a colpire profondamente, a commuovere ad ogni pagina.

Una poesia di perdono e gratitudine

La raccolta si chiude con un crescendo che ci porta al Requiem, la sezione finale, dove ci sono alcune poesie che vagheggiano un Dio severo e giudice, da cui la poetessa si distacca; ma che poi approdano ad un più vero e profondo senso religioso nella meravigliosa poesia finale, di cui si propongono qui gli ultimi versi. Qui Dio viene riconosciuto essenzialmente nell’esperienza del perdono, di chiedere scusa e vedersi perdonati, e così riaversi al mondo.

Perdonate le mattine scure
e l’umor nero (…).
Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d’esserci d’ogni cosa, e d’altro
non troppo ben nascosto- dietro l’evidenza.
Questo più d’ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.

Leggete le poesie di Mariangela Gualtieri, leggetele in metro, nelle pause in ufficio o all’università. C’è sempre dello splendore che si nasconde dentro le pieghe delle nostre abitudini, e una poetessa come questa può aiutarci a vederlo.


Mariangela Gualtieri, Quando non morivo, Einaudi, 2019, 128 pp., 12 euro

Aratea Cultura

Luca Gritti

Laureato in filosofia, appassionato di letteratura, in cerca di classici contemporanei. Vivo e lavoro a Bergamo.

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