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L’ultima strega – Fantastico Italiano #3

un racconto di Massimiliano Mari

Lui scrive, respirando piano, con cura. Pazientemente intinge la punta nel calamaio e stende l’inchiostro sulla pergamena tesa, lento. Le luci della lanterna e della candela sono vive e disegnano i contorni del mondo in movimento, baluginanti e improvvisamente oscuri, come se respirassero con lo scrivente. È un mondo piccolo, il suo, un puntino di luce nell’immensa oscurità dello scriptorium.  La notte è silenzio, il battito sordo del cuore e lo scricchiolio acido del pennino.

Fuori dalle vetrate il nero è denso e impenetrabile, il fiume non si vede: si intuisce solo mentre scorre, costante e calmo, pacificato. Nessuno mai scrive di notte: per questo è qui. Ha bisogno di spazio, di solitudine, del conforto dell’oscurità: cerca il buio, non la luce, cerca la separazione. Tra poco forse sarà il mattutino e la vita del mondo inizierà ad espandersi, a brulicare.  Lui dovrà posare la penna e smettere di scrivere. Non adesso, però. Adesso è lei, che arriva: emerge dal buio come da una da una tenda di velluto, nuda. La sua pelle candida sembra quasi emettere luce, i suoi piedi morbidi scivolano silenziosi sul pavimento. Si sposta dietro alle sue spalle, gli cinge il collo: i suoi capelli lo sfiorano e il suo fiato sa di fiori secchi.

“Cosa scrivi?” gli sussurra nell’orecchio.

Lui si ferma, inspirando, e non risponde.

“Cosa scrivi?”

“Non dovresti essere qui”, le dice, “tra poco i monaci si sveglieranno.”

“Amore mio, di questo non dovresti preoccuparti. Abbiamo ancora abbastanza tempo”

Gli dà un lungo bacio sospeso, proprio sotto l’orecchio, e le sue labbra sono umide e fredde. Lui tenta di scostarsi, infastidito, e lei sorride:

“Una volta ti piacevo, me lo ricordo. Ti piacevo tanto.”

“È stato molto tempo fa. Ero giovane.”

“È vero. Lo ero anch’io.”

“Vattene via”, le dice, secco. “Devo essere concentrato”

“Uhm…” risponde. “Cosa scrivi?”. Lei passa alla sua sinistra, sbircia da sopra la spalla.

Maleficos non patieris vivere. –

“Bello”, commenta con un sorriso lieve, quasi impercettibile: “molto adeguato.  Da quando ti sei dato alle sacre scritture?”

“Te lo ripeto, vattene.” Lui usa un tono secco, determinato, e fissa lo spazio di fronte a sé, senza guardarla: “Tu sei il demonio. Lo sei.”

“Pensavo che tu fossi un poeta”, ribatte lei: “Non volevi scrivere un grande poema? In effetti, come scrittore non eri nemmeno male…O forse è meglio così. Magari non era proprio la tua vocazione.” Ride, argentina, guardandolo inclinando la testa.

“Lasciami. Tu sei malefica.”

“L’hai già detto. Stai diventando monotono.”

“Il male non può stare qui.”

“Non può stare qui? Parli sul serio? È per questo che ti sei immaginato qui dentro, in questo convento nel mezzo della pianura a copiare la Bibbia?” Allarga le braccia candide, come ad indicare l’ampiezza del mondo, e abbraccia solo il buio. “Solo soletto sul grande fiume?”

Lui tace, per un lungo istante. Poi sospira: “Mi piace, il fiume. Mi piace ascoltarlo. Il suo rumore quando scorre sulle pietre non è mai uguale: a volte è sonoro, cristallino, a volte più soffocato. È bello.”

Lei gli si ferma di fronte, fissandolo negli occhi: “Non starai diventando filosofo, vero? Non è da te, tesoro mio”

“Smettila! Smettila di blandirmi!”

“Che c’è?” dice lei strascicando le vocali, “scommetto che non vedevi l’ora che io ti chiamassi così, quando mi hai trascinato nel boschetto.”

“Tu mi avevi incantato!”

“Ne sono certa, amore mio. Per questo hai chiamato due dei tuoi amici? È stato divertente, immagino…”

“Maledetta. Perché hai scelto me? Perché proprio io? Non dormivo più, non riuscivo più a pensare…Cosa mi hai fatto?”

“Beh, volevi vedere le mie tette.  Uh, non agitarti così, è la verità! Per questo i tuoi amici mi tenevano ferma e tu mi hai strappato i vestiti di dosso, giusto? Mentre io urlavo?”

“Ma quali urla…Te la ridevi, tu, e come se ridevi, quando ballavi lassù sul Tonale in compagnia del diavolo!”

“Non ero mica da sola”, ridacchia lei: “Molte altre te lo hanno confessato, non è vero, mio caro Giorgio? Però a quel tempo ancora non conoscevi le mie scorribande notturne, mi pare.”

“Mi stavi uccidendo. Dovevo fare qualcosa.”

“Tu dovevi fare qualcosa. Quindi hai deciso di aggredirmi, rapirmi e violentarmi. Un buon modo di fare qualcosa.”

“Io non ti ho violentato”

“È vero, tu no. Tu non ci sei riuscito, piccolo coniglietto. Ma i tuoi amici sì, a turno, a lungo. E tu mi hai picchiato forte: credo che mi abbia rotto un dente.” Si passa la lingua sul labbro superiore, lentamente: “Sento ancora il sapore del sangue…”

“Avrei dovuto essere più forte.”

“Più forte? Ma cosa ti avevo fatto? Ero giovane, ero bella, e conoscevo le virtù delle erbe medicinali, e dei fiori, e delle pietre. Aiutavo le persone.”

“E come avresti aiutato le persone? Quella terra stava morendo, per colpa tua! Guarda i mostri deformi che aveva generato! Guarda l’aridità che aveva portato nei campi.”

“Anche tu un poco di scompiglio l’hai portato, laggiù…Il Cacatossici da Casale: solo a nominarti, la gente impallidiva in preda al terrore. Che razza di prete…” Lei cachinna rumorosamente e il suono riverbera fra gli archi profondi dell’oscurità.

“Avevo una missione. Dovevo riportare Dio in quella valle perduta”

“Sette coltellate, mi hai dato quel giorno. Sette. Vuoi sapere com’è stato?” chiede lei, piano: “Ogni volta che affondavi la lama era come ricevere un colpo fortissimo con una mazza. Ogni volta che la estraevi era fuoco, fuoco liquido dentro di me. Più o meno.”

Lui tace, chino sul suo lavoro. Lei gli si avvicina e gli lecca la guancia sinistra. “Sei salato.  Non starai sudando, vero? Non avrai paura?”

“Bisogna temere i demoni. Sempre”

“Stai scherzando? Mi hai lasciata da sola a morire, nuda in mezzo agli arbusti, a dissanguarmi. Saresti tu a dover essere impaurito?”

Lui alza la testa e la guarda da sotto in su: “Come hai fatto? Dimmelo…”

“Come ho fatto, cosa?”

“Due giorni dopo. Al mercato. Sorridevi e vendevi frutta. Com’è possibile?”

“Che c’è? Ti dà fastidio che non sia morta? Sei un bel soggetto, lo sai?”

Sposta di nuovo lo sguardo in basso, e le risponde con un filo di voce: “Non potevi essere viva…Non potevi”.

“Evidentemente ti sbagli.” Ride forte: “Avresti dovuto vedere la tua faccia! Non credevo fosse possibile spalancare gli occhi in quel modo!”

“Tu eri lì per me. Fin dall’inizio.”

“Di sicuro sono qui per te adesso.  Avrai sete, dopo tutto questo parlare…”

Lei allunga il braccio sinistro e solleva un secchio colmo di liquido. Agganciato al secchio, un grosso imbuto di legno. Rivoli di liquido lattiginoso tracimano e odorano di sapone. “Bevi qualcosa”, gli dice.

“No… Non voglio”, le risponde con un filo di voce, scuotendo la testa.

Il braccio di lei è fulmineo, gli afferra i capelli e gli piega il capo all’indietro: “Ora, bevi.” L’ordine è come un sibilo tra i suoi denti scoperti. La presa si fa più forte: gli torce il collo e lo costringe a scendere dallo scranno, sul freddo pavimento di marmo. Si siede a cavalcioni su di lui e gli infila a forza l’imbuto in bocca: gli incisivi stridono sul legno duro. Poi solleva il secchio con un braccio e gli versa in gola il liquido. Per molti minuti il suo mondo è fatto di gorgoglii, e conati, e rigurgiti, acido e sapone, tosse e panico, il terrore assoluto di soffocare e la bramosia di respirare; non controlla le membra, le gambe si muovono come impazzite. Tenta di colpirle la faccia, ma lei gli blocca il braccio con un ginocchio. “Shhh, stai buono” la sente dire: “così sveglierai i monaci”. Lui dilata gli occhi e sente che il buio li attraversa, e con i suoi tentacoli pietosi spegne il mondo intorno.

“Ehi?…”

La voce gli arriva da lontano, soffusa.

“Ehi?…Sei sveglio? Mi sento sola…”

Apre gli occhi e la vede, sorridente, con la testa appoggiata sul suo ventre. Con una mano ne segue il contorno, lo accarezza: è abnormemente gonfio, teso, impressionante nel suo volume triplicato.

“Ahhh… Fa male.”

“Povero tesoro. È la stessa cosa che diceva Anna, te la ricordi? La conoscevo, disgraziata donna. L’avevate conciata come te, con lo stomaco pieno di secchiate d’acqua, e poi le avete tirato una bastonata sulla pancia.  Credo sia morta subito, o quasi. È stato la sera che mi hai fatto arrestare: ero l’ultima della tua lunga lista di streghe, che onore. Mi hai portato via la mia casa, e tutto quello che avevo. Anche il mio gatto, accidenti a te. E mi hai fatto rinchiudere nei sotterranei, con gli altri.”

“Ahhh…Maledetta…”

“Tutti eravamo maledetti, là sotto. Tu. Il tuo fantasioso torturatore. Tutti noi.  Sei stato bravo, hai portato un piccolo pezzetto dell’inferno sulla terra. Un buon lavoro, devo dire.”

“Qualcuno ha confessato. Avevo ragione: una di voi aveva già ucciso duecento neonati”

“Se ti prendessi a bastonate sulla pancia” gli dice tamburellando con le dita sullo stomaco teso “mi confesseresti anche di essere il diavolo in persona. Sarebbe divertente.”

“Anche tu”, le risponde ansimando, “anche tu hai confessato. Tu eri l’ultima, ed eri la peggiore”

“Sarà stato quando mi avete quasi staccato le gambe, su quel tavolo di legno.  Cosa ti ho detto esattamente? Non me lo ricordo…. Forse ti ho parlato del mio vero amore, e di come sia bello danzare con lui nelle notti di luna, lassù sulla montagna: di come sia forte, e grande, e come la sua lingua rovente arrivi in ogni angolo del mio corpo, come mi faccia gemere e urlare.” Lo guarda per un tempo sospeso, con un lieve sorriso: “Sei geloso! Che tesoro…Consolati, anche tu mi hai fatto gemere e urlare. Certo, non nello stesso modo…Però scommetto che ti è piaciuto starmi a guardare. Birbantello.” Si abbassa, avvicina il viso al suo orecchio, e gli sussurra: “Non sarai mai come il mio amato. Mai.” Si solleva di scatto, alzando la voce: “E poi tu non hai le corna!”

Lui cerca di parlare, rigurgita un po’ di liquido biancastro, tossisce.

“Non ero mica morta, quando mi hai fatto legare sul rogo, sai?”, continua lei “È stata un’esperienza interessante. Prima ancora che il fuoco mi toccasse sono svenuta soffocando. Troppo fumo, troppo caldo, troppa aria rovente: mi ha bruciato i polmoni. Sarà stato uno spettacolo, la piazza era piena!”

“Ho liberato quella terra. Mi basta questo”

“Povero, ingenuo, autoassolutorio pretino. Credi davvero che tu avessi la forza per fare quello che pensavi? Volevi scacciare il demonio scatenando l’inferno! Te lo dico io, non è un buon metodo. E ti avviso: continuare a scrivere non ti salverà. Non più: è decisamente troppo tardi.”

Mentre parla, lei si alza dal suo addome e gli accarezza la testa, lentamente: “Ora ti devo lasciare, mi dispiace: ma non angustiarti, tornerò. Presto. Sono sempre tornata da te…”

Lei allarga le labbra in un sorriso, per l’ultima volta, ed estrae i lunghi, affilati artigli: con un gesto repentino gli apre un lungo squarcio sul petto, attraversando il tessuto e la carne, strisciando lungo le costole. Lui urla, mentre lei si allontana nell’oscurità. Una pozza di sangue scuro si riversa sul pavimento. Si gira su un fianco, si puntella con le braccia e si solleva, risalendo piano sul suo scranno. Nel buio denso, che non si disperde, affonda il pennino nella ferita, profondamente; poi, con cura, torna a vergare i suoi eleganti caratteri:

Qui coierit cum jumento, morte moriatur… –


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