Racconti

21esimo minuto – Un racconto di Mati Cosenza Lo

Illustrazione di Francesco Chiarotti

21esimo minuto di partita. Issa aveva la palla ai piedi e poco tempo per decidere quale sarebbe stata la prossima mossa. L’incontro era cominciato da poco, meno della metà del primo tempo, ma sentiva già il peso degli scatti e dei tentativi di concludere in porta, che ancora non erano riusciti a concretizzarsi in un goal. Stava giocando quella partita come se fosse una finale di Coppa dei Campioni, inseguendo ogni palla e incitando anche i compagni a dimostrare lo stesso impegno.

Loro invece erano coscienti dell’inutilità di quello sforzo, avendo ben chiara la limitata importanza dell’incontro: un’amichevole giocata contro una delle squadre più scarse del campionato, l’Entella. Il campionato non era ancora finito e sarebbe stato controproducente sforzarsi in una partita inconcludente. Per questo motivo si limitavano investire il minimo indispensabile, senza considerare affatto quanto quella partita fosse importante per Issa. Oltre al tentativo di fare economia delle proprie energie, il loro non-sforzo era un messaggio esplicito nei confronti del centravanti. Per alcuni si trattava di indifferenza, un modo per dire che il destino di Issa non li riguardava. Per altri era una posizione ben chiara ne suoi confronti: non ti vogliamo più in squadra.

Il vuoto di empatia che si era creato tra Issa e i compagni filtrava il suo entusiasmo, facendolo risultare eccessivo, quasi imbarazzante, senza dubbio penoso: la pena che si prova nel vedere un topo, intrappolato in un bidone troppo alto per permettergli di evadere con un salto, ma non abbastanza da togliergli le speranze. Issa si trovava in una situazione simile: i dirigenti e l’allenatore gli avevano annunciato, dopo due stagioni fin troppo mediocri, che questa sarebbe stata la sua ultima partita. Non si trattava di un’ultima possibilità di mostrare il proprio valore, era semplicemente l’ultimo capitolo prima della fine dell’esperienza nel Frosinone, e con molto probabilità anche della sua carriera in Italia. Il giudice aveva già pronunciato la sentenza, senza possibilità di ricorso in appello, e gli concedeva un’ultima arringa, pur sapendo che, in ogni caso, non avrebbe cambiato idea.

Con la palla ai piedi, ora Issa cercava la porta. Si trovava vicino all’area di rigore. Tra lui e la porta si frapponeva il muro di due difensori molto agguerriti. Gli avversari e Issa erano sicuramente più in sintonia: entrambi rispettavano lo spirito della competizione, credendoci davvero e senza riserbo. Il lato negativo di questa comunione di intenti era il doverli sfidare, difficoltà che non era ancora riuscito a superare.

Nonostante le continue azioni finite a vuoto, nonostante tutte le palle perse da sotto i piedi, quelle intercettate e quelle non raggiunte, Issa ci credeva comunque, o forse desiderava che il suo canto del cigno fosse il migliore possibile, una fiamma finale per lasciare anche solo un ricordo nella mente dei compagni, degli avversari, dei tifosi, della dirigenza e nella storia. Magari qualcuno di loro avrebbe pensato “Quel ragazzo aveva talento, era speciale. E’ un peccato che non sia riuscito ad esprimerlo.” e questo a Issa sarebbe bastata come consolazione. La consolazione di sentirsi dire che non era come gli altri, che aveva una scintilla in più, che era superiore, quasi per diritto di nascita. E’ vero, non importa cosa si ha dentro, ma quello che ne risulta fuori, nel mondo concreto, ma Issa aveva bisogno di credere nella sua grandezza, quasi forzando il mondo dentro la propria narrativa. Non poteva credere semplicemente di aver fallito, come tantissimi prima di lui. Non poteva accettare che non sarebbe entrato nella storia del calcio, che non avrebbe mai letto il suo cognome sulla schiena di un bambino pieno di sogni e ambizioni, le stesse che in questo momento si stavano spegnendo in lui.

Non è facile accettare che in questo mondo fatto di pochi vincitori e schiere infinite di sconfitti, anche noi, che ci sentiamo così protagonisti di ogni cosa, siamo uno dei tanti. Ed è ancora più difficile, quando si arriva così vicino al proprio obiettivo, realizzare che le nostre forze non ci porteranno più in là, che si è raggiunto il capolinea. Quando si fa carriera e si vede continuamente il proprio progresso, è naturale credere che l’impegno e le abilità ci possano portare fino all’apice. E’ nel momento in cui ci si rende conto che esiste un limite, però, un limite del nostro talento, della nostra abilità, della nostra capacità di andare sempre meglio, in quel momento è come se si morisse un pochino. Scoprire i propri bordi ci costringe a prendere la distanza da quei primi pensieri, a smetterla di valutarsi in potenza, ma soltanto in atto: non si tratta più di immaginare quali siano le proprie potenzialità, dove si possa arrivare. Si tratta di accettare quello che siamo.

“Io sono un giocatore mediocre di Serie B, questo sarà l’apice del mio percorso, della mia vocazione. Nonostante io sia, per me, l’inizio e la fine dell’universo, non sono che un nome scritto in piccolo in un foglio momentaneamente appeso nella bacheca della vita, destinato ad essere staccato e dimenticato nel giro di pochi anni.”

Issa doveva schiacciare questi pensieri troppo intensi in un comparto della sua mente, e cercare
di concentrarsi sulla partita. L’energia che ci metteva nel cercare le occasioni era la stessa di chi ha paura di se stesso e cerca distrazioni, cerca imprese nelle quali immergersi per non affrontare mai il rischio di doversi confrontare con le proprie paure, i propri rimpianti. Issa avrebbe desiderato che quei 90 minuti non finissero mai, per continuare a giocare con quella maglietta, per continuare a convincersi di essere finalmente arrivato al successo, in Italia. Voleva rimandare il più possibile quella che sentiva come la fine della sua vita, che da quel giorno in avanti sarebbe stata priva di scopo, derubata di quel motore esistenziale che la faceva andare avanti e per la quale aveva concentrato tutte le sue energie.

E’ per questo motivo che i suoi compagni di squadra gli erano così freddamente indifferenti. Perché Issa non aveva mai cercato un rapporto con loro, non aveva mai cercato un’amicizia, delle confidenze. Issa pensava solo al pallone. Vedeva tutti gli altri come dei rivali, persone che doveva superare e che in fondo sottovalutava, nonostante la realtà fosse chiara e i risultati dei compagni spesso li ponessero a un livello superiore. Issa sentiva che non erano destinati come lui, erano dei personaggi secondari, delle macchiette, persone il cui nome si perde inosservato tra i titoli di coda. Il protagonista era lui.

Questa sua mentalità si traduceva in scarso gioco di squadra, da entrambe le parti. Pochi palloni scambiati, poca fiducia. Nel vedere come – in questa partita soprattutto – la squadra gli aveva definitivamente voltato le spalle, Issa provava un’ira incontrollabile, che esprimeva verbalmente insultando i compagni, sperando che le parole potessero risvegliare qualcosa nei loro animi e farli venire in suo soccorso. Un appello a Qualcosa. Issa non sapeva bene cosa fosse questo sentimento, ma era come se sentisse che il loro supporto gli fosse dovuto, un diritto, così il suo inveire era un modo per pretenderlo. Aiutatemi, dovete farlo. Eppure lui solo correva con convinzione nel campo.

Alla fine del primo tempo, il risultato era di 2 a 0 per l’Entella. Nello spogliatoio l’Allenatore chiese un poco più di impegno, quel minimo per non dare l’idea che si stesse mancando di rispetto alla squadra avversaria. Non una parola riguardo al mancato supporto delle intuizioni di Issa, non un incitamento a farlo brillare. Non c’era più niente da dire. Issa avrebbe voluto continuare ad urlare per farsi sentire, per avere l’attenzione dei suoi compagni ma in quel momento di attesa tra un tempo e l’altro Issa smise di combattere contro la realtà che stava eliminando le sue mistificazioni, che stava togliendo il velo di maya, smontando la narrativa che aveva in testa. Issa stava davvero capendo che era la fine, che arrabbiarsi non avrebbe portato a nulla e che anzi, fino ad ora, non aveva fatto altro che sbagliare.

Sia dentro che fuori dallo spogliatoio non aveva amici. Da due anni si era trasferito in Italia, lasciando in Senegal tutti i suoi legami. Dopotutto non erano legami profondi o importanti, ma solamente pesanti: i parenti contavano su di lui per un ritorno economico. Ad ogni loro telefonata Issa percepiva che il sottotesto era una richiesta di soldi, di favori. Solo la madre e il padre erano importanti per lui, perché gli avevano dato la vita e lo avevano supportato nel suo sogno sportivo. Nei confronti degli altri, invece, riserbava uno sguardo sospettoso, di sdegno. Forse perché nella sua testa si sentiva già un grande calciatore europeo, e dunque pensava di essere di una pasta diversa da tutti gli altri connazionali. Non li considerava suoi pari, ma esseri inferiori, che non potevano meritarsi il suo affetto. Sentiva che non sarebbero stati in grado di capire la sua grandezza e la grandezza del suo destino, per questo li aveva tenuti a distanza.

Ora che aveva scoperto che in fondo non era così diverso, però, non poteva che pentirsi di tutto. La superbia lo aveva portato alla solitudine, una solitudine che un tempo aveva desiderato, immaginandosi solo ma ammirato da tutti. Ma scoprire di essere soli e non essere nemmeno considerati è la più triste delle condizioni. Se si fosse aperto a gli altri, se avesse cercato di creare una rete di supporto sia nel campo che fuori, forse questo momento non sarebbe mai arrivato. I compagni lo avrebbero sostenuto, avrebbero cercato di farlo migliorare, di spingerlo a nuovi traguardi. Gli amici gli avrebbero permesso di sentirsi una persona di valore al di là dei propri successi, lo avrebbero considerato una parte fondamentale della loro vita, qualcuno la cui assenza avrebbe reso la loro vita un po’ meno speciale. E invece nulla. Non aveva più nulla. Aveva
fallito.

Durante il secondo tempo Issa giocò con molto meno intensità, passando spesso le palle ai compagni, riuscendo addirittura a segnare un goal. Il mese successivo era già tornato in Senegal, pieno di vergogna e rimpianti. Nessuno delle sue vecchie conoscenze aveva neanche lontanamente idea di che squadra fosse il Frosinone; a dire il vero non sarebbero riusciti a nominare dieci squadre della serie A, tantomeno una della Serie B. Quando Issa ne parlava veniva comunque accolto con parole di stima e ammirazione.

Per un po’ di mesi si diede a qualche lavoretto di quelli che possono fare un po’ tutti, facendoli maluccio. Non era niente nel calcio, non era niente fuori dal calcio. Dopo una pausa di quasi un anno decise di tornare a giocare a pallone e riuscì ad entrare nella prima squadra del Dakar. Non andò più in là di così, ma strinse delle amicizie sincere.

Una volta che il suo fisico non riuscì più a reggere gli sforzi richiesti, abbandonò la carriera da giocatore e cominciò ad allenare una piccola squadra di calcio a Yoff, composta da ragazzini di dieci, dodici anni. Molti di loro una volta cresciuti, lo hanno un po’ dimenticato. Altri, quando pensano a lui, hanno un ricordo commosso. Se sono quelli che sono oggi, è anche grazie a lui. Non sono i migliori in nulla di particolare, ma ovunque siano arrivati nella loro vita, Issa ne è stata una parte fondamentale.


Credits:
Francesco Chiarotti
per l’illustrazione in copertina.

L’illustrazione nasce da un’idea di attesa di un futuro idealizzato. Il protagonista aspetta immobile la sfocatura della sua vita: un irrealizato destino da calciatore. L’illustrazione è stata composta con metodo digital collage, successivamente ricalcato con lo strumento penna su Adobe Illustrator.

Francesco Chiarotti, 26 anni. Appassionato di musica, cinema e streetwear, convoglia nelle sue illustrazioni le tendenze che più lo catturano. Da sempre disegnatore, da un po’ di tempo anche grafico e illustratore. Abita a Barcellona, ama i colori e le forme, e ne cerca il giusto compromesso. “Toglietegli tutto, ma non il gaussian blur.”

Instagram: @fran.cescano
Behance: Francesco Chiarotti


arateacultura.com