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Tangerine – Donne, nere, sexworkers 

Tangerine
Fotografia di Emanuele Colombo

L’arte, soprattutto nelle sue declinazioni narrative, è un mezzo incredibilmente potente. E’ in grado di impattare la percezione delle persone e di cambiare alcuni aspetti della realtà, nel bene o nel male. 

Ad oggi, i film e le serie televisive stanno acquisendo una centralità sempre maggiore nel ruolo di veicolare informazioni ed educare il pubblico. Questo perché guardare un film, rispetto a leggere un testo, è un’esperienza maggiormente passiva, che richiede meno sforzo e che allo stesso tempo, trattandosi di immagini, rimane più impressa nella memoria.

La storia aveva confermato già il potere della settima arte nel 1915 – praticamente ancora in culla – quando, con Birth Of A Nation, Griffith aveva riscritto le vicende della guerra civile americana nella percezione dei sudisti sconfitti, incoraggiando un rinnovato interesse e partecipazione al Ku Klux Klan che causò forti tensioni razziali sfociati in forme estreme di violenza. 

Negli ultimi anni si è vista un’attenzione particolare nel cercare di utilizzare l’opportunità che offre il mezzo filmico per porgere attenzione alle persone di colore e altre minoranze. The Help (2011), 12 Anni Schiavo (2013), Selma (2014), Moonlight (2016) e Blackkklasman (2018), sono alcuni esempi di questa tendenza. 

Generalmente parlando, nonostante un’aria di cambiamento e apertura, l’industria cinematografica resta purtroppo uno spazio dove le persone bianche rimangono privilegiate, sia dietro la macchina da presa, come registi e produttori, sia davanti, come attori. Per questo motivo la maggior parte delle storie raccontate sono per lo più incentrate sull’esperienza di vita delle persone bianche, in particolare di quelle etero e cisgender. 

Tangerine

In questo panorama chiuso, uno dei migliori film che racconta l’esperienza di persone marginalizzate è Tangerine, film del 2015 per la regia di Sean Baker.

Le protagoniste sono due donne trans afroamericane, che lavorano nel campo del sex work. La vicenda si svolge nel giro di una giornata e ruota intorno a Sin-Dee Rella, che dopo aver passato 28 giorni in prigione scopre dalla migliore amica, Alexandra, che il suo fidanzato – nonché suo pappone – l’ha tradita con una sexworker cisgender. Decide così di andare a cercarla per vendicarsi della ferita e dell’umiliazione. Nel mentre, Alexandra distribuisce volantini per un’esibizione che farà in un locale quella stessa serata.

Associare l’immagine delle persone trans a quelle dei lavoratori nel campo del sexworking rinforza uno stereotipo fortemente presente nell’immaginario collettivo: vedere le persone transgender solo come lavoratori che vendono sesso, dimenticando il resto di ciò che rende completa una persona. Questo avviene perché i media ipersessualizzano le persone transgender, soprattutto quelle che attuano una transizione MtF (Man To Female, da Uomo a Donna), implicando che chi compie la transizione lo faccia soprattutto per motivi legati alla sfera del sesso. Per esempio vi è il pregiudizio che il fine sia esaudire una fantasia sessuale o – come pensa J.K. Rowling – poter entrare negli bagni pubblici il cui accesso prima era vietato e assalire le indifese persone cis. Ridurre l’identità delle  persone trans al sesso significa sminuire la dignità umana, ed è solo un aspetto della tendenza della società a sessualizzare la donna in generale. 

Come molti gruppi marginalizzati, le persone trans – e in particolare quelle di colore – si trovano a non aver molta altra scelta al di là del campo di lavoro del sesso. Esistono persone trans impiegati in vari altri settori, anche particolarmente prestigiosi, ma spesso è perché godono di altri tipi di privilegi, come ad esempio una famiglia benestante e una pelle bianca. 

Questo è per via del trattamento che le persone trans ricevono sia nel nucleo familiare – dove subiscono abusi o da cui vengono abbandonate – sia dalla società, che li tende a discriminare e a esorcizzare. In mancanza di un network di supporto, quindi, si trovano maggiormente a rischio di vivere in povertà. La prostituzione diviene una soluzione per coloro che non hanno nulla, essendo virtualmente priva di ostacoli professionali: non servono qualificazioni o competenze particolari. 

Ma tutti gli individui coinvolti nel mondo della prostituzione sono persone con sogni, ambizioni, amici e famiglia, che meritano dignità e riconoscimento, senza stigmi, pregiudizi e moralismo.

Film come Tangerine sono fondamentali perché svolgono una funzione utile alla lotta intersezionale: ci mostrano gli individui al fondo della società, parte di più di una minoranza o di un gruppo sociale discriminato. Le protagoniste subiscono tipi diversi di oppressione, che si sommano lasciandole incredibilmente vulnerabili.

Il fatto che il budget di Tangerine fosse così limitato da dover esser filmato attraverso un iphone 5s e dei programmi per stabilizzare il frame rate e dare un effetto cinematografico, aggiunge fuoco all’idea che gli ultimi della società devono cercare di fiorire con pochi mezzi e risorse a disposizione. 

Anche il tono riflette un aspetto della realtà di queste persone: esso è molto comico perché è attraverso l’umorismo che si riesce a sopravvivere in certe situazioni.  L’umorismo si rivela come una sorta di atteggiamento titanico di fronte ad un mondo spaventosamente grigio. E’ un meccanismo di difesa e di ribellione allo stesso tempo. Viene utilizzato per adattarsi a situazioni avverse, creando una distanza tra sé e i fattori che causano stress e dolore. Non solo è utile al singolo ma è lo è anche per la coesione del gruppo perché è in grado di avvicinare le persone.

Nonostante il lato comico, il film non rinuncia al realismo. L’attrice che interpreta Alexandra, Mya Taylor, quando è stata approcciata per partecipare al progetto di Baker, ha voluto che la pellicola fosse brutalmente onesto, senza finzione, e che fosse allo stesso tempo divertente. Il risultato è Tangerine.

Il sex work è lavoro

In una scena del film, Alexandra entra nella macchina di un uomo intento a pagarla per dei servizi. L’uomo ha solo 40 dollari, una cifra che non basta a pagare il tipo di prestazione richiesta. Dopo una contrattazione in cui entrambe le parti scendono ad un compromesso, viene concesso un tipo di servizio ridotto. L’uomo però si rifiuta di pagare e scappa. Alexandra lo insegue per farsi dare i soldi che si è guadagnata, ma viene fermata dalla polizia che, data la natura illegale della transizione, lascia andare entrambi senza però restituire i soldi alla donna.

Il fatto che la polizia scelga di guardare altrove e quindi non punire Alexandra – ma neanche di tutelarla – è una rappresentazione piuttosto ottimistica del reale rapporto tra la polizia e le sex workers in generale.

A Los Angeles, come nel resto degli Stati Uniti, la prostituzione è completamente criminalizzata. Le sex workers percepiscono l’istituzione della polizia come un gruppo di persone intrinsecamente ostili, intenzionati a sfruttarle, derubarle, punirle. Per una sex worker ricorrere alla polizia – in caso di abuso o pericolo, di sfruttamento da parte del proprio capo, per denunciare una qualsiasi ingiustizia subita – può essere un’opzione quasi impensabile. Le conseguenze di un arresto sono infatti devastanti. Prima del 2011, in Louisiana, essere arrestati per prostituzione significava vedersi  esclusi da servizi di welfare, dal mercato immobiliare e dalla maggior parte dei lavori. Al di là del pericolo dell’essere inserite nel registro dei sex offender, le sex worker percepiscono la polizia come la minaccia più grande per via di abusi legati alla loro impotenza di fronte alle persone in divisa, che esercitano un potere incredibile su di loro: pestaggi, stupri ed estorsioni sono il risultato della fragilità di questa classe di lavoratori. A conferma dell’intersezionalità dei sistemi di oppressione, le sex worker maggiormente colpite risultano quelle nere o trans, che sono sette volte più a rischio di essere arrestate. 

Riconoscere il sex working come lavoro è il primo passo per migliorare le condizioni materiali delle prostitute, anche in paesi come il nostro, dove è il cliente a essere criminalizzato. Riconoscerlo come lavoro, comunque, non significa affermare che si tratti di un buon lavoro, ma significa semplicemente approvarlo come un modo legittimo di ottenere soldi e quindi le risorse di cui si ha bisogno per vivere. Per farlo bisognerebbe eliminare lo stigma, fortemente patriarcale, per cui un individuo che ha rapporti con più persone o per soldi sia moralmente degradato e quindi da allontanare. In molti lavori si vendono servizi attraverso il proprio corpo, e scandalizzarsi perché in questo caso si tratta di prestazioni legate alla sfera del sesso è probabilmente un retaggio religioso che va abbandonato. 

Dopo aver riconosciuto le e i sex worker come lavoratrici e lavoratori bisogna tutelarli attraverso diritti e regolazioni, per impedire gli abusi di potere e gli sfruttamenti che avvengono in tutti quei mercati non regolati dove il capitalismo si fa intenso e brutale, come quello della droga.

Un giorno, auspicabilmente, nessuno sarà più obbligato a lavorare nel mondo del sex work per mantenersi, nel mentre è giusto salvaguardare e prioritizzare il benessere di chi fa parte di questo mondo. Ciò è impossibile se queste persone vengono stigmatizzate e lasciate tra le mani di polizia e criminali che sfruttano la loro mancanza di potere e diritti.

Rappresentazione transgender

In uno dei nodi principali del film, Alexandra per cantare in un locale paga il suo proprietario, contrariamente a quanto succede solitamente. La sua esibizione viene seguita da Sin-Deh e dalla ragazza con cui il fidanzato l’ha tradita (praticamente rapita e tenuta in ostaggio). Oltre a loro sono presenti soltanto un paio di persone capitate lì per caso e indifferenti.

Si tratta di una scena che simboleggia come nel panorama della cultura e intrattenimento di oggi non ci sia spazio per le persone transgender, sia perché i produttori non danno opportunità, sia perché il pubblico non vuole vederle.

Anche quando vi sono ruoli in cui si interpretano persone trans, è facile che sia una persona cis ad interpretarli. Recentemente questo è stato il caso con Jared Leto in Dallas Buyer Club (2013) e Eddie Redmayne. La maggior parte di questi ruoli, inoltre, riguardano personaggi che vengono visti come vittime o come predatori, troppe poche volte come personaggi completi e con la dovuta dignità. Il sito Glaad, studiando e analizzando episodi di programmi televisivi dal 2002 al 2012, ha sottolineato come il 54% di questi contenesse una rappresentazione negativa delle persone trans e solo il 12% avesse una rappresentazione onesta e precisa.

Vi sono ancora troppi pochi casi di rappresentazione positiva con attori e attrici effettivamente trans. Tra questi ci sono le serie Orange Is the New Black (2013-2019), Pose (2018-), Euphoria (2019-), e il documentario Disclosure (2020), che mostra come il cinema non sia mai stato capace di raccontare l’esperienza di vita transgender e come anzi abbia aiutato a rinforzare una serie di stereotipi negativi. Ancora meno sono i film significativi da questo punto di vista: un esempio è Paris is Burning (1990).

Sempre più registi dovrebbero sfruttare il potere del cinema per fare in modo che gli ultimi e i dimenticati abbiano uno spazio di qualità nell’immaginario collettivo, non solo attraverso racconti documentaristici, ma anche mediante storie come Tangerine: storie di amicizia, gelosia e rabbia; storie umane di valori ed esperienze universali in cui noi tutti possiamo rivederci ed empatizzare.

Il cinema è cultura; la cultura è ciò che mantiene e giustifica le relazioni attuali tra persone e gruppi di potere, ma anche ciò che le cambia. Utilizziamolo come strumento di educazione e non solo di intrattenimento.


Credits:
Emanuele Colombo per la fotografia in copertina.

Emanuele Colombo, classe 2001 nato e cresciuto nella provincia di Bergamo. Fotografo in maniera ossessiva e compulsiva, cerca di documentare il grottesco e lo strambo del mondo, anche se ogni tanto si diletta in ritratti più in linea con i canoni della società


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