Attualità,  Storia e Società

Ambiente e Umanità: la Cop26 volgerà le spalle al progresso indefinito?

Il XXI sarà un secolo dirimente per il futuro della società umana su questo Pianeta.

Tra i giorni 28-30 settembre 2021, la città di Milano ha ospitato l’evento Youth4Climate: Driving Ambition, un’occasione d’incontro e scambio per quasi 400 giovani attivisti/e per l’ambiente provenienti da tutto il mondo (due per ognuno dei 197 Paesi membri dell’UNFCCC).

Un episodio che ha preceduto, sino ad intersecarne la parabola, la Pre-COP di quest’anno. Ospitata dal 30 settembre al 2 ottobre nel capoluogo lombardo (essendo l’Italia partner del Regno Unito per quanto concerne l’organizzazione della COP26), essa ha come di consueto riunito i ministri del clima e dell’energia di un gruppo ristretto di Paesi, affinché potessero dibattere dei nodi politici fondamentali da diramare in vista dei negoziati chiave che si terranno a Glasgow, tra l’1 e il 12 novembre 2021.

C’è da sperare che questa COP non risulti in fondo vana come molte (troppe) delle venticinque che l’hanno preceduta. “Basta chiacchiere, è ora di passare ai fatti“: tale messaggio, emerso sin dal corso della prima giornata di incontri, ha intriso di sé anche i successivi colloqui tra giovani e istituzioni, sino ad essere recepito da un Parlamento (il nostro) che non brilla certo per solerzia in materia ambientale.

Il 28/09/21 Greta Thunberg si infervora durante un discorso che passerà alla storia come quello dei “bla bla bla”. Sebbene taluni seniores si siano scagliati contro le parole dell’attivista svedese, indubitabilmente esse hanno avuto il merito di riassumere in poche frasi ad effetto interi decenni di procrastinazione in tema di sostenibilità ambientale su scala globale.

La precedente COP25 di Madrid, svoltasi nel novembre 2019, ha in sostanza chiuso i battenti con un nulla di fatto.
Lo scontro insanabile fra Stati, consumatosi specialmente attorno al nodo dell’articolo 6 degli Accordi di Parigi, aveva condotto all’auspicio di rimandare le discussioni all’anno seguente.

Sfortunatamente, l’epidemia di Covid-19 ha scompaginato l’agenda climatica internazionale, rimandando l’incontro all’autunno 2021. Anche un solo anno può fare la differenza poiché, come da decenni grida la scienza, non c’è più tempo da perdere.

La COP26 incombe, più s’avvicina e più se ne percepisce la portata storica. L’Umanità è chiamata a ridestarsi da un torpore ambientale che si è colpevolmente protratto sin oltre la soglia dei limiti naturali del nostro pianeta.
Il peso specifico dell’evento è dunque assai ingente: per comprenderlo a fondo, è come sempre necessario fare un passo indietro nel tempo.

Antropocene, il regno di Homo sull’Ambiente

A rigor di geologia, qualsiasi ominide sia mai apparso sulla faccia della Terra è esistito nell’era cenozoica (dal greco kainòs+zoè, ossia nuova vita), apertasi per l’appunto con l’estinzione dei dinosauri. Di questi ultimi 65 milioni di anni, i nostri avi hanno popolato il periodo Quaternario; al suo interno, l’epoca dell’Olocene (ultimi 12.000 anni) ha visto dipanarsi l’umanità post-Rivoluzione neolitica.

Insomma, tutto quanto viene di norma considerato storia umana si è svolto in questa epoca.
Di recente però, Paul Crutzen ha avanzato l’ipotesi secondo cui l’alterazione della composizione atmosferica sia un fenomeno tanto epocale da aver dato avvio ad una nuova fase nella storia della Terra. Una fase durante la quale il genere umano si è imposto quale influenza decisiva sull’ambiente globale: il che le è valsa la denominazione di Antropocene.

A seconda del criterio posto in evidenza, sarebbe possibile far risalire l’origine di tale nuova Età in un periodo compreso fra circa un milione di anni fa e gli ultimi decenni. Per alcuni studiosi, l’Antropocene sarebbe principiato con l’acquisito controllo del fuoco, ottemperato dai nostri antenati in età preistorica; mentre altri considerano impreciso parlare d’una vera e propria influenza umana sul clima prima dell’avvento della Rivoluzione industriale, attorno alla metà del XVIII secolo.

Al di là di simili periodizzazioni, è certo il fatto che l’impatto umano sull’ambiente sia aumentato vertiginosamente nel corso del XX secolo. Specialmente dopo il 1945, quando al termine della Guerra vennero liberate energie e capitali in tutto il mondo.

L’ambiente al cospetto degli avi

Decriptare le tracce dei passati antecedenti la stessa storia umana è uno dei poteri di cui ci ha fatto dono la tecnologia. Abbiamo così potuto appurare come, sin da quando ancora eravamo semplici cacciatori-raccoglitori, l’istinto del serial killer ecologico abbia seguito gli umani come un’ombra. Quasi fosse una tendenza iscritta nel genoma della specie.

Se di fatti solo di recente il clima ha risentito della nostra benevola presenza, da tempi immemori l’ambiente si trova sottoposto alle esigenze umane. Prova di quanto asserito sono le testimonianze pervenuteci delle estinzioni di massa occorse ogniqualvolta si siano verificati insediamenti di Homo in terre vergini.

Il caso più eclatante è forse quello della scomparsa, in breve tempo, di 23 delle 24 specie di megafauna che popolavano l’Australia all’epoca dell’arrivo dei primi umani, circa 40.000 anni fa; ma nei millenni seguenti simili episodi sono risultati essere piuttosto ricorrenti. Si stima pertanto che i Sapiens abbiano condotto all’estinzione grosso modo la metà dei grandi animali terrestri in cui si fossero imbattuti, prima ancora di aver inventato la ruota, la scrittura o gli utensili in ferro.

Del resto, v’erano altre strategie a disposizione. In particolare, l’appiccagione di incendi di ampia portata si rivelò un efficace metodo di caccia, in mancanza di mezzi più “civili”. Inoltre, una simile pratica favorì lo sviluppo di primigenie forme di proto-agricoltura: un’altra rivoluzione, quella agricola, che avrebbe inciso a fondo sull’ambiente naturale di aree sempre più estese del pianeta.

Simili modi operandi hanno peraltro condotto al sorgere di atroci sospetti. Ad oggi, però, non è ancora possibile stabilire con certezza se i Sapiens abbiano o meno giocato un ruolo decisivo nella scomparsa delle diverse specie di Homo che, fino a circa 35.000 anni fa, ancora popolavano il pianeta.

Albero genealogico di Homo e dei suoi parenti più stretti. Il Sapiens avrebbe potuto contribuire all’estinzione di alcuni specie di ominidi dopo esserne venuto a contatto (si fa riferimento specie all’incontro fra Sapiens e Neanderthalensis in Europa).

Ciò che bisogna appuntare è altro. Ossia, come tal miope modo di porsi nei riguardi dell’ambiente (e dei suoi abitanti) sia sciaguratamente persistito ben oltre l’inizio dell’età storica, giungendo quale consuetudine radicata sino a tempi assai recenti. Condotte del genere dovettero almeno originariamente essere dettate da logiche di sopravvivenza: di sicuro favorirono l’ascesa globale di Homo. Peccato che annoverassero per necessità di cose una lieve, se non nulla, cognizione delle conseguenze sul lungo periodo.

Sarebbe dunque ingiusto adirarsi con i pur civili Romani per aver dato avvio al disboscamento del bacino Mediterraneo al fine di costruire la flotta che avrebbe sconfitto Cartagine. Così come sarebbe in generale inopportuno rinfacciare ai nostri antenati di non aver considerato l’ambiente come un bene in sé, bensì sempre quale un che di riconducibile all’interesse (e alla proprietà) di noi umani.

Inappropriato, sì, poiché tali problematiche si scontano oggi, nel presente. All’epoca, semplicemente, non erano tali: sarebbe anacronistico affermare il contrario. Ciò è valido sino a epoche recenti.

Alla mercé della svolta industriale

L’avvio della Rivoluzione industriale in Inghilterra cementò un inedito squilibrio nei rapporti di forza mondiali. Le potenze europee decollarono, rilanciando il proprio slancio coloniale: ora non erano più interessate alla mera egemonia sui mercati periferici, bensì al controllo diretto dei territori che li ospitavano. Un controllo che avrebbe dovuto favorire l’inglobamento nel nuovo ordine economico europeo delle terre di recente sottomissione alla madrepatria.

La creazione, con conseguente diffusione, di una società basata sui combustibili fossili e sulla crescita industriale ha portato allo sviluppo moderno, comportando nei secoli un grave numero di conseguenze ambientali. Queste però si dipanarono diverso tempo dopo l’inizio dell’immissione di gas serra nell’atmosfera: la Terra è un sistema complesso, sono necessari decenni prima che l’immissione di nuovi parametri possa modificarne i parametri.

Si vuole dunque concentrare l’attenzione sulla creazione di un sistema di mercato su scala globale. Di fatti, un aspetto in genere trascurato del grande processo di espansione europea è quello relativo alla sua dimensione ecologica: in quale misura l’espansione vetero-continentale ha cambiato l’ecosistema e l’habitat delle Nuove Europe?

Per spiegare simili stravolgimenti è stato coniato il termine di imperialismo ecologico. I suoi agenti furono in primo luogo i virus ed i batteri europei che sterminarono, ad esempio, le popolazioni amerinde; ma paragonabili ai batteri per la loro straordinaria capacità di riprodursi furono le erbe infestanti. Esse accompagnarono ed alimentarono il moltiplicarsi senza limiti del bestiame europeo, allora sconosciuto in America e nelle terre australi.

Insomma, gli Europei non si accontentarono di conquistare; resero bensì queste terre sconosciute simili alle lande d’origine dei coloni, modificandone irrimediabilmente gli ecosistemi. In tal modo, venne favorita la dilagante emigrazione europea verso le Americhe, l’Oceania e il Sudafrica: il che chiuse il cerchio di questo imperialismo ecologico, che unì microbi, piante, animali e uomini bianchi nella modifica antropica di ambienti incontaminati.

Il depauperamento novecentesco dell’ambiente

Come si è detto, la Terra è un sistema complesso. Gli sforzi verso una maggior comprensione della tematica sono di recente stati riconosciuti con la consegna del Nobel per la Fisica 2021. Assegnato (anche) per la “modellizzazione del clima terrestre, per aver quantificato e predetto in maniera attendibile il riscaldamento globale“.

Ne deriva il concetto focale di “anello di retroazione“. Gli effetti dei nostri reiterati abusi sull’ambiente non sono linearmente leggibili. È errato pensare al processo di causa-effetto come un che di univoco: un effetto B rappresenta sempre una nuova condizione nel sistema, che andrà a modificare ogni futura influenza sulla causa A.

Nel sistema-Terra dunque ogni singola variazione, interagendo con gli altri elementi nel tempo, vi provoca delle modificazioni; ma queste saranno ramificate, non lineari. Ciò ha donato al sistema la dinamicità che gli è risultata vitale; ma lo ha anche esposto alla crescita esponenziale di determinati fattori nel momento in cui l’umanità ha preso a condizionare sempre più massicciamente la biosfera.

Sarà su alcuni di questi elementi che ci soffermeremo, nell’impossibilità di seguire in tal sede l’intera rete di modificazioni ambientali riconducibili all’apporto umano.

Carta di Laura Canali, Limes. L’ Environmental Performance Index è un metodo per quantificare numericamente le prestazioni ambientali di un paese relativamente agli standard internazionali. Un alto Epi non indica di per sé un’azione climatica di portata sufficiente.

L’inizio del secolo

Nel 1908 Svante Arrhenius, fra i primi scienziati a teorizzare l’effetto serra, scrisse “Il divenire dei mondi“. In esso descrisse in maniera idilliaca gli effetti sul clima generati dalle miriadi di tonnellate di CO2 che le industrie umane avrebbe immesso nell’atmosfera. “Vivremo epoche con climi più gradevoli, specialmente in quelle che oggi sono le regioni fredde del pianeta”, si legge.

L’effetto serra assurse fra gli indici della potenza raggiunta dall’homo technologicus: “Sembra che l’Uomo sarà presto capace di regolare il clima sulla Terra”, fece eco ad Arrhenius, in quegli stessi anni, un meteorologo suo connazionale.

Neanche la killer fog che talvolta infestava grandi centri urbani quali Londra o Los Angeles riuscì a generare l’idea di un’incombente emergenza climatica. Doveva ancora maturare la visione di un ecosistema unificato: le emissioni industriali continuarono a essere considerate un problema locale sin oltre la metà del secolo.

L’ambiente era un valore, certo, ma non un valore giuridico. Coloro che fecero fronte alle prime catastrofi ambientali si trovarono privi degli strumenti adatti. Si dovettero quindi applicare le norme di sicurezza sanitaria in maniera estensiva per instaurare la tutela ambientale anche a livello normativo. Tutt’oggi sono poche le Costituzioni in giro per il mondo che anche solo contengano il termine “ambiente” (eccezioni degne di nota sono quelle di Ecuador e Bolivia).

La Grande accelerazione e i Limiti dello sviluppo

Dapprima, non furono il ritmo accelerato del consumo di prodotti ed energia, delle emissioni di gas serra o della crescita della popolazione a preoccupare. La tematica della tutela ambientale penetrò le maglie dell’opinione pubblica mondiale a seguito delle ricadute nocive dei primi test nucleari. È proprio in reazione alle esplosioni in atmosfera e nel Pacifico che sorsero i primi movimenti ambientalisti transnazionali, tra la fine degli Anni 50 e l’inizio degli Anni 60.

Nel grafico, la linea nera rappresenta la temperatura globale stimata dalle osservazioni, mentre la linea blu è la media dei risultati ottenuti simulando l’andamento delle temperature con 20 modelli matematici diversi. A sinistra, nei modelli matematici sono stati inseriti i dati reali dei fattori naturali e antropici; mentre a destra non viene preso in considerazione alcun aumento delle emissioni di CO2. Ciò mostra come sia l’elemento umano, non quello ambientale, a spiegare l’aumento della temperatura media globale rispetto alle medie del periodo pre-industriale.

Purtroppo il clima da Guerra Fredda non favorì certo progetti di tutela ambientale. Al contrario, ha contribuito all’attuale tumulto ambientale. Le dinamiche bipolari giustificarono di fatti vasti impegni di denaro, forza lavoro e pianificazione per progetti infrastrutturali e di sviluppo, volti a sfruttare la natura a fini politici: il tutto con gravi implicazioni per l’ambiente. Riportiamo qualche esempio.

  • Alla fine degli Anni 50, i leader sovietici decisero di riconvertire ampie aree aride dell’Asia centrale in piantagioni di cotone. L’operazione richiese imponenti sistemi d’irrigazione, che attinsero acqua dagli affluenti del lago d’Aral. Oggi le dimensioni del bacino corrispondono a meno di 1/10 rispetto a quelle di mezzo secolo fa: un intero habitat è stato distrutto per risultati effimeri. Negli anni seguenti, Mosca avrebbe riscontrato serie problematiche legate alla dispersione di petrolio e gas in aree incontaminate (come il lago Bajkal, in Siberia); nonché con le scorie radioattive;
  • La Cina di Mao era desiderosa di produrre autarchicamente la propria gomma. Per farlo, vennero disboscate vaste zone dello Yunnan, insozzando la regione a maggior biodiversità dell’Impero di mezzo e alterandone il clima. Del resto, Mao attingeva ad una particolare tradizione marxista che considerava l’ambiente come un che di esistente solo per essere conquistato dal lavoro umano. Durante la campagna per il Grande balzo in avanti (’58-’61), il leader cinese riuscì a fare anche di peggio. Un apparente ravvedimento partì ad inizio Anni 70; ma ancora oggi vige una cultura del “prima inquina, poi – se possibile – risana“. In pieno stile capitalista, dietro l’ufficialità degli intenti del PCC e la pletora di organismi e norme a salvaguardia dell’ambiente, il criterio che orienta le scelte politiche a livello centrale e locale rimane, invariabilmente, la crescita del Pil. In breve, la Cina comunista è diventata il maggior inquinatore al mondo.
  • Per ideologia, continuità secolare e profondità delle modifiche ambientali, il blocco occidentale è stato quello che maggiormente contribuì alla Grande accelerazione. USA su tutti.
    Dal 1945 si è verificato un accumulo di CO2 nell’atmosfera per 3/4 della sua entità totale; il numero di veicoli a motore è passato da 40 a 800 milioni; gli abitanti del pianeta sono triplicati, dando luogo ad un inedito processo di urbanizzazione di massa; la produzione mondiale di plastiche è passata da 1 a 300 milioni di tonnellate; il DDT ha inquinato terre vergini (Vietnam su tutte), lo strato d’ozono si è rarefatto…

Il mito del progresso indefinito, miopemente inseguito a scapito del benessere delle generazioni future, è stato causa di tutto questo e molto, troppo altro. Non è un caso che le preoccupazioni per l’ambiente e per i limiti dello sviluppo a questo legati emersero in un periodo di disgelo fra i blocchi contrapposti.

Gli Anni 70: un’occasione perduta

Nel 1971, il Club di Roma commissionò al MIT un’indagine sui limiti dello sviluppo della società umana. Per farlo, l’istituto statunitense elaborò il primo modello dinamico del sistema-Terra: i suoi successori sono tutt’oggi utilizzati per elaborare previsioni climatiche su scala globale.

Guidata dall’idea che non fosse possibile proseguire in eterno lungo la via del progresso indefinito, il rapporto (uscito l’anno seguente) fu la prima denuncia dei rischi cui l’umanità stava inconsapevolmente correndo contro. Indubbiamente, fu in grado di accendere un ampio dibatto internazionale vertente attorno ai “dilemmi dell’umanità“, evidenziando quanto fosse fondamentale per la società contemporanea modificare alla radice i principi alla base tanto dei propri costumi, quanto delle proprie istituzioni.

Lo studio dimostrò scientificamente l’esistenza di un limite invalicabile dello sviluppo economico a causa delle risorse esauribili, presenti in quantità fissa in natura. Più che le previsioni quantitative, necessariamente imprecise, furono le tendenze emerse dallo studio a scompaginare l’opinione mondiale.

Lo studio ha considerato 5 anelli di retroazione, indistricabilmente connessi tra loro: risorse naturali; alimenti e produzione industriale pro capite; popolazione; inquinamento. I dati a disposizione mostrarono il tracollo della società ben prima del 2100. Una situazione simile negli esiti venne ricavata ponendo come ipotesi lo sviluppo dell’energia nucleare (che all’epoca suscitava diverse speranze).
L’unico grafico a mostrare una parziale condizione di stabilità. Pone come condizioni lo sviluppo tecnico abbinato alla profonda modifica di alcuni valori fondamentali della società umana, onde porre freno allo sviluppo incontrollato. Al di là dei dati ipotizzati, il modello offre una stima di quali livelli di popolazione e capitale possano essere sostenuti dal sistema-Terra, senza che questo giunga al collasso. Rappresenta dunque uno stato di equilibrio globale.
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La figura applica le stesse condizioni del grafico precedente, ma posticipando gli interventi al 2000. Si può notare come un quarto di secolo di differenza abbia condotto il modello simulato ad un collasso. Ciò poiché la crescita esponenziale causa incrementi non lineari nel sistema.

Tutto pareva indicare che la crescita, in ogni caso, si sarebbe arrestata. L’unica alternativa a disposizione consisteva, secondo gli autori dello studio, nel rallentare noi stessi la crescita prima che fosse la natura a farlo, con esiti irrimediabili.
Ne emerse il concetto (ideale) di equilibro globale: lungi dall’impedire lo sviluppo tecnico umano, lo avrebbe condotto verso lidi sostenibili sul lungo periodo.

Il dibattito si accese a livello internazionale; ma alla crisi petrolifera del 1973 si rispose cercando nuovi giacimenti petroliferi in luoghi inesplorati (fra cui i fondali oceanici e la Siberia), anziché principiare la svolta verso alternative rinnovabili. Tanto che ancora nel XXI secolo le tendenze produttive non si discostano in maniera evidente da quelle vigenti nella seconda metà del Novecento.

L’ambiente nei forum internazionali

Nonostante le premesse positive, gli Anni 70 non videro modificarsi la traiettoria della società umana. Al contrario, sul finire del decennio il mostro dell’anarco-capitalismo: con la sua brama di guadagno immediato, la sua ossessione per l’individualismo e il libertarismo, la svolta neoliberale risulta agli antipodi della via sostenibile di cui necessiteremmo.

Ciononostante, questi anni segnarono l’inizio di un (a tratti) fecondo dibatto internazionale in materia ambientale. Ripercorriamone in breve le tappe principali:

  • 1972, Conferenza di Stoccolma (UNCHE). Preventivamente impossibilitata (dall’Occidente, che in sede ONU temeva le iniziative del fronte Terzo Mondo) a formulare atti di diritto internazionale che fossero vincolanti per gli Stati partecipanti; fu però assai rilevante: per la prima volta nella storia, i rappresentanti di 110 Paesi di tutto il mondo e 400 organizzazioni (governative e non) s’incontrarono per discutere delle soluzioni adottabili su scala planetaria a favore della tutela dell’ecosistema.
    La seduta finale proclamò 26 Principi, alcuni dei quali divennero norme di diritto consuetudinario. L’umano viene definito “al tempo stesso creatura e artefice del suo ambiente”; si afferma che “siamo arrivati ad un punto della storia in cui dobbiamo regolare le nostre azioni verso il mondo intero, tenendo conto innanzitutto delle loro ripercussioni sull’ambiente”. La visione dell’ambiente è ancora antropocentrica; però viene quantomeno riconosciuto il legame biunivoco tra le azioni umane e lo stato dell’ambiente;
  • 1987, Our Common Future”, noto come Rapporto Bruntland. In esso si delineò lo sviluppo sostenibile quale “sviluppo che soddisfa i bisogni della presente generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. (Quasi ironico, se non vi fosse da piangere).
    Stabilì l’organizzazione di una conferenza internazionale su ambiente e sviluppo;
  • 1989, Protocollo di Montreal. Con successo, 196 Paesi si sono impegnati a ridurre e poi cessare l’emissione delle sostanze che minacciano lo strato dell’ozono (in particolare i gas CFC);
  • 1992, Conferenza di Rio (UNCED). La sopracitata conferenza. Rappresenta una tappa fondamentale nel cammino verso la promozione di modelli di sviluppo sostenibile a livello mondiale.
    Inoltre elabora ed approva importanti documenti quali: – l’Agenda 21 (pensare globalmente, agire localmente”);
    – I 27 principi della Dichiarazione di Rio. Introducono il concetto di “responsabilità comune ma differenziata”; nonché il principio di precauzione e del “chi inquina paga“. L’eliminazione della povertà viene indicata quale “obiettivo complementare” alla lotta climatica;
    -La Convenzione sulla Biodiversità;
    -La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). I governi che l’hanno ratificata si sono impegnati a perseguire obiettivi (non vincolanti) di riduzione delle proprie emissioni inquinanti. Essa ha condotto alla nascita della Conferenza delle Parti (COP), il ritrovo annuale tra i suoi firmatari volto a valutare i progressi fatti;
  • 1997, Protocollo di Kyoto. Adottato dalla COP3. Rappresenta il primo accordo internazionale a stabilire obiettivi vincolanti e quantificati per gli Stati che lo ratificano (sebbene l’adesione rimanga su base volontaria).
    L’obiettivo prefissato era quello di spingere i Paesi industrializzati a ridurre le proprie emissioni di sei gas serra: è pertanto essere il primo importante passo verso un regime di contenimento del riscaldamento globale.

    Sono previste l’adozione di misure nazionali oltre a tre meccanismi flessibili (scambio crediti d’emissione, sviluppo pulito e implementazione congiunta). I Paesi in via di sviluppo non erano tenuti a diminuire le proprie emissioni: un precetto abusato da Paesi quali la Cina; sicché la diminuzione delle emissioni pur (parzialmente) operata dai Paesi industrializzati è risultata compensata dall’aumento di quelle dei PVS (+14 GtCO2 all’anno nel periodo ‘90-’19).
    Nonostante i suoi limiti, il documento è stato emendato e rinnovato nel 2012 a Doha; inoltre, senza il suo impulso, forse non sarebbero sorte iniziative quali l’Agenda UE 2050 e gli Accordi Parigi;
  • 2015, Accordo di Parigi. Raggiunto in seno alla COP21, è il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici. I Paesi contraenti sono 190 e sancisce la volontà di affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici e fornire ai PVS un sostegno internazionale continuo e più consistente. La Cop24 di Katowice li ha resi operativi.

Il grafico mostra i target di riduzione per gli anni ‘08-’12 stabiliti a Kyoto per i diversi Paesi europei e le variazioni di emissioni effettive.
Si può notare come non tutti i Paesi avessero responsabilità di diminuire le proprie emissioni di gas serra e come, in generale, in pochi abbiano pienamente centrato gli obiettivi prefissati nel 1997. L’UE-15 ha superato la propria prova: impegnatasi per una riduzione dell’8%, ha tagliato le proprie emissioni dell’11,7%; tale percentuale sale se si tengono da conto i Paesi entrati nel 2004 nell’UE (i Paesi dell’Est hanno di fatti tagliato drasticamente il proprio inquinamento a seguito della crisi e del crollo del sistema sovietico).
Per quanto riguarda l’Italia, l’obiettivo non è stato pienamente raggiunto: a fronte di un impegno per la riduzione del 6,5%, è giunta al 4,7%.

Sull’orlo della catastrofe ambientale?

Rieccoci qua, mezzo secolo dopo l’uscita de I limiti dello sviluppo. Se siamo indietro sulla tabella di marcia, è perché negli ultimi decenni non abbiamo modificato le coordinate di una società di stampo capitalistico che, dal biennio ’89-’91, si è dipanata su scala globale.

Il nocciolo della questione poggia nel nesso tra logica (neo)liberale e degrado dell’ambiente. Può essere così sintetizzato: in una siffatta realtà, gli investimenti di capitale privato avvengono se si prevede un profitto corposo sul breve-medio periodo; ma il profitto si ottiene aumentando produzione e vendite, il che comporta un accentuato consumo di risorse e l’incremento degli scarti. Questi incrementi sono poi resi inarrestabili dalla pressione competitiva mondiale: si ottiene in tal modo una sistematica destabilizzazione dell’ambiente, preoccupante sul lungo periodo.

Sul lungo periodo, già; ma dobbiamo fare riferimento a mezzo secolo fa. Il lungo periodo si è fatto drammaticamente medio, se non breve. Preoccupa il fatto che, in tale arco di tempo, le modifiche alla traiettoria di sviluppo siano state nulle. Persino le soluzioni tecniche che pur stanno emergendo lasciano titubanti: queste sono delimitate dai classici parametri capitalistici. Tutte le azioni che potrebbero condurre verso quell’agognato equilibrio globale risultano impraticabili, in quanto confliggenti con la ragione liberale.

L’immagine raffigura la variazione della temperatura media globale tra il periodo 2014-2018 e quello pre-industriale. Rende evidente come il calore sia aumentato maggiormente in aree delicate del pianeta, facendo dubitare della raggiungibilità dei parametri di Parigi (che prevedono di contenere l’aumento fra i +1,5°-2°).
Variazione delle emissioni di CO2 di alcuni pesi massimi dell’inquinamento, misurate in Gigatonnellate.

I risultati contenuti nel Rapporto VI dell’IPCC hanno risuonato come un allarme rosso per l’umanità.

Persino la Chiesa Cattolica, sotto il pontificato di Francesco I, sta tentando di mobilitare la propria residua presa sulle società materialistiche di oggi per tentare di salvare in extremis molte meraviglie del Creato. Le quali rischierebbero altrimenti di dissolversi, l’una dopo l’altra, tra le mura del Mausoleo dell’Estinzione.

La continua accelerazione dei cambiamenti dell’Umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro […] benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la velocità che le azioni umane gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica […]. Dopo un tempo di fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane, una parte della società sta entrando in una fase di maggiore consapevolezza; si avverte una crescente sensibilità riguardo all’ambiente e alla cura della natura, e matura una sincera e dolorosa preoccupazione per ciò che sta accadendo al nostro pianeta”.

Papa Francesco I, Laudato Si, 2015.

La COP26 offrirà finalmente un’occasione di concreto mutamento di paradigma; o verrà forse esibita la consueta dialettica da tecnocrati, volta a coprire un vuoto nella sostanza dei provvedimenti?

La tabella raffigura le percentuali del mix energetico globale. Come anche chiarificato dal recente rialzo dei prezzi del gas naturale (dovuto ad una mancanza di offerta, non della domanda), siamo ancora indietro nella marcia verso la transizione ecologica. Alcuni Paesi UE sono tornati a bruciare il carbone per sopperire a tal mancanza; mentre alti restano i dubbi in merito alla convenienza della classificazione di gas naturale ed energia atomica quali “fonti green“.

Scenari futuri

Secondo Dahrendorf (1988), gli uomini si trovano oggi di fronte alla necessità di una scelta: o morire liberi, o sopravvivere schiavi. Tale cruda prospettiva discenderebbe da una semplice osservazione: il trend dei principali parametri della dinamica ambientale mostra di convergere verso un punto di crisi, che potrebbe sfociare in un collasso completo della civiltà umana. La modifica delle tendenze in atto potrebbe essere ottenuta impedendo l’accesso allo sviluppo da parte dei PVS e bloccando l’ulteriore sviluppo di quelli già sviluppati. Come già detto, nessuna delle due operazioni può però riscuotere il consenso delle popolazioni interessate, mancando il quale si imporrebbe la sospensione della democrazia in tutto il mondo.

La coppia di sequenze su cui ruota il discorso di Ralf Dahrendorf è quindi questa: democrazia-sviluppo-ecocatastrofe; sospensione della democrazia-blocco dello sviluppo-redenzione dell’ambiente. Esse delineano bene i dilemmi qui siamo sottoposti nell’attualità, certamente. Mancano però di qualcosa, di una pur minima speranza di una svolta positiva.

Come indicato da Stefano Mancuso, si ritiene che lo studio del comportamento della biosfera (e in particolare delle piante) oltre ad idee per tecnologie sostenibili potrebbe suggerire all’umanità persino delle indicazioni per una democrazia decentrata e partecipativa, che davvero possa innalzare i suoi cittadini a più alti livelli di consapevolezza.

Ci tornerebbe davvero utile. Perché non sarà solo questione di trovare la giusta invenzione che ci cavi magicamente fuori dagli impicci. La Storia sta per presentare all’umanità un conto salato, per il quale potremmo trovarci impreparati.


Bibliografia/sitografia

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Y. N. Harari, Sapiens. Da animali a dei: breve storia dell’umanità, 2011.
D. Meadows, D. H. Meadows, J. Randers , W. Behrens, Limiths to growth, 1972.
S. Mancuso, La Nazione delle piante, 2019.
A. Crosby, Imperialismo ecologico : l’espansione biologica dell’Europa, 1986.

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Simone Bertuzzi

Redattore sez. Storia & Società