Attualità,  Storia e Società

I Curdi: un popolo e un’identità bistrattati

Sara Clemente, Defend Rojava – Collage analogico

Negli ultimi decenni, ciclicamente l’attenzione dell’opinione pubblica europea (e non solo) s’è soffermata sulle sorti e sulle aspirazioni dei curdi: ben presto dimenticandosi delle une, spesso ignorando l’effettività delle altre. In Italia hanno destato clamore, nel 1998, le sorti del leader curdo Abdullah Öcalan, rifugiatosi per un breve periodo nel Belpaese dopo la sua fuga dalla Turchia; mentre in tutto l’Occidente si è tornato a parlare di essi a fine 2019, dopo che gli USA li hanno lasciati in balia d’un avverso destino una volta finito di abusare dei preziosi servigi da loro offerti nella lotta all’ISIS. Oggi pare siano stati nuovamente dimenticati, ma di certo torneranno a balzare agli onori delle cronache delle civilissime (si fa per dire) opinioni pubbliche occidentali in futuro: pertanto, si ritiene doveroso far un po’ di chiarezza e raccontare in breve le vicissitudini curde.

I curdi, fra passato e presente

Per non risultare pedante ed infeconda, la narrazione storica esige di rispondere a domande sorte dal presente per indagare il passato, e da qui tornare al presente ricca d’un bagaglio d’informazioni atte a meglio comprenderne le complessità. Ci si propone d’interrogarsi in merito alla questione curda, definendola spazialmente e concettualmente, ripercorrendo le tappe d’un avvenimento focale per la memoria dei curdi ed infine riemergere nel drammatico contesto dell’attuale guerra civile siriana.

Chi e dove sono i curdi?

Innanzitutto, non esiste una definizione oggettiva dell’identità curda, né è possibile riferirsi a un Kurdistan unito che mai è esistito. Essere curdo non è una evidenza, bensì un atto di volontà col quale, in contesti assai variabili, una persona o un gruppo si pongono come distinti rispetto alla comunità statale d’appartenenza: ogni tentativo di ridurli a un’identità ben definita è pertanto indebito, né terrebbe conto del rimescolamento di popolazioni di cui il Vicino e il Medio Oriente sono stati teatro. Dunque è possibile stabilire solo una stima dell’entità numerica del «popolo curdo» che, riunendo da 20 a 35 milioni di persone, costituisce uno dei gruppi etnici più popolosi dell’area.
I curdi sono dunque “diversi”; ma ammetterne la diversità non significa negare ogni fattore di unità, che consiste nella volontà di vivere insieme, trascendendo quelle differenze di fatto che sarebbe vano occultare. Inoltre, essi si trovano situati all’interno di complesse dinamiche sociali e spaziali. Il Kurdistan, come designazione territoriale degli altipiani che vanno dal Tauro orientale all’alta Mesopotamia, esiste sin dal XVI secolo; ma il «paese dei curdi» è più una geo-ideologia che una regione dai confini ben definiti. Di esso non v’è una definizione unanimemente accettata e le differenze d’estensione della sua superficie mutano considerevolmente da una concezione all’altra: si va dal ristretto «Kurdistan autonomo», progettato nel 1920 dal Trattato di Sèvres (il Trattato di pace tra le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale e l’ormai defunto Impero ottomano), una sorta di nicchia stretta tra l’emergente Turchia nazionalista, l’Iraq sotto il dominio inglese, la Persia e l’Armenia; sino al «Grande Kurdistan», esteso dal Mediterraneo al golfo di Bassora, rivendicato dai nazionalisti curdi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Territorio montuoso e ricco di petrolio, oggi si estende per ben quattro paesi differenti: il Trattato di Losanna (firmato nel luglio 1923), ha infatti dato il colpo di grazia alle aspirazioni curde ad un territorio proprio. Di conseguenza, sono apparse distinzioni tra i curdi della Turchia, quelli dell’Iraq, dell’Iran e della Siria.

Mappa della presenza curda in Medio Oriente. In arancione, il “Kurdistan autonomo” del Trattato di Sevres; in verde, il “grande Kurdistan”. In azzurro, i confini sommari della repubblica di Mahabad (di cui si tratta di seguito).

Le odierne rivendicazioni dei curdi

Sin dalla fine dell’Impero ottomano (dal 1918, dunque) i curdi lottano per poter raggiungere la propria indipendenza, o perlomeno una qualche forma di autonomia concordata coi diversi Stati in cui risiedono. Negli ultimi decenni, si può dire che lo slogan del PDK iraniano “Democrazia per l’Iran, autonomia per il Kurdistan” venga condiviso via via dalla grande maggioranza dei curdi, di ogni Stato e di qualsiasi partito, che comprendono l’importanza della battaglia politica da condurre nei paesi in cui vivono (o in cui hanno vissuto), mettendo così in secondo piano l’obiettivo dell’indipendenza, che presuppone una secessione territoriale. Contrariamente alle rivendicazioni che vengono loro attribuite, l’aspirazione dominante dei curdi tiene realisticamente conto delle frontiere internazionali esistenti; ma ciò non significa che i curdi si siano rassegnati a subire la frammentazione che è stata loro imposta. La costituzione, nell’ottobre 1992, di uno “Stato curdo federato dell’Iraq settentrionale” potrebbe servire ad esemplificare quanto auspicato da molti curdi: in sé riunisce infatti l’idea di autonomia unitamente a quella di federazione futura e all’intenzione di mantenere questa entità all’interno dei rispettivi Stati dell’Iraq. Il problema essenziale per i curdi è dunque quello di una reale democratizzazione dei regimi e dei sistemi politici del Vicino e Medio Oriente, preliminare indispensabile per il riconoscimento culturale e politico del proprio popolo; ma a questo riguardo molto resta da fare e la volontà delle potenze occidentali, sedicenti dispensatrici di democrazia, di spingere in questa direzione rimane assai debole.

La Repubblica di Mahabad 

Le differenti parabole seguite da questa popolazione, a maggioranza sunnita, nei diversi paesi di residenza ha condotto, come già detto, ad una sua differenziazione. La componente turca è probabilmente quella più in difficoltà sul fronte interno, poiché il PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato da Öcalan nel 1974) è considerato da Ankara alla stregua di un’organizzazione terroristica; quella iraniana è stata tradizionalmente molto attiva nella lotta per la propria autonomia, ma appare oggi la più prona ai desiderata dello Stato centrale; quella irachena si è vista invece riconoscere uno statuto d’autonomia nel 1992, al termine della Prima Guerra del Golfo. Ultima ma non ultima la componente siriana, dal canto suo, ha attivamente partecipato alla lotta al Califfato Islamico e, in cerca di una propria autonomia, alla stessa guerra civile: il che l’ha condotta a subire, tra le altre, le angherie dell’ingombrante vicino anatolico.

Quel che continua ad accomunare le diverse componenti del popolo curdo è l’assidua difesa della propria identità nazionale attraverso elementi culturali quali la lingua, la religione, l’unità etnica, nonché la collaborazione e l’assistenza tra di sé (pur zoppicante in certi momenti) e persino la creazione di una bandiera del Kurdistan. Pertanto più volte nel corso della storia il popolo curdo ha effettuato rivolte e ribellioni, fallite infine per svariate cause: dal tradimento di potenze che prima hanno assicurato loro un appoggio politico-logistico per poi defilarsi mutatis mutandis sino al disaccordo emerso fra le diverse tribù, le quali hanno talvolta preferito perseguire interessi particolaristici piuttosto che una causa comune. Tra tutti i tentativi di autonomismo curdo il più significativo, anche se ai più sconosciuto, è rappresentato dalla fondazione della repubblica di Mahabad in territorio iraniano, la prima nonché unica entità pseudo-statale curda.

Siamo nel Novecento: in Iran i curdi costituivano una piccola parte della popolazione ma, esattamente come negli altri Stati in cui si erano trovati dispersi dopo il conflitto mondiale, rappresentavano un problema per i governanti, poiché fonte in continua ebollizione di conflitti e tensioni. Facciamo un ulteriore piccolo salto indietro: negli anni Trenta l’Iran aveva iniziato ad intrattenere rapporti commerciali con la Germania nazista; al volgere della Seconda Guerra Mondiale il governo presieduto dallo Scià di Persia si era dichiarato però neutrale, venendo così in contrasto con gli interessi delle stesse potenze Alleate. Il 25 agosto 1941 gli anglo-sovietici, interessati ad aprire una via di rifornimenti che dal Golfo Persico conducesse sino all’Unione Sovietica via Iraq, invasero l’Iran da nord e da sud. Gli scontri durarono pochi giorni e la resistenza dell’esercito iraniano risultò inconsistente, al punto che i soldati fuggirono abbandonando il materiale bellico in loro possesso per poter tornare alle proprie case.

L’intervento anglo-sovietico portò all’abdicazione, il 16 settembre 1941, di Reza Shah Pahlavi in favore del figlio, Muhammad Reza Pahlavi. La spartizione del territorio da parte delle potenze occupanti provocò un totale vuoto di potere nei territori tra Mahabad e Saqqiz dando occasione alle città e alle tribù curde di organizzare un proprio potere autonomo all’interno della regione. I capi tribù più sedentari cercarono così di recuperare i privilegi perduti durante il governo di Reza Shah, iniziatore d’un percorso di centralizzazione delle istituzioni nonché impositore di una prima ondata di modernizzazione alle tribù. In seguito alla disgregazione dell’esercito iraniano, le comunità tribali imbracciarono dunque il materiale bellico abbandonato dai soldati persiani, mentre i capi tribù in esilio tornarono nei propri territori, riacquisendo il potere territoriale perduto e riprendendo le proprie attività di predoni sulle strade che collegavano le varie città della regione.

Il 16 settembre 1942, fuori dalla città di Mahabad, un piccolo gruppo di cittadini della classe media si riunì per parlare della composizione di una formazione politica clandestina che fosse ispirata da un forte sentimento nazionale: tra gli invitati era presente anche Mir Haj, ex capitano dell’esercito iracheno, appartenente ad un partito del nord dell’Iraq chiamato Hewa (“Speranza”). Un evento questo che testimonia da sé il grande senso di appartenenza nazionale coltivato dai curdi sin da allora. Nei colloqui tenutisi si decise come l’organizzazione nata dall’incontro necessitasse di essere ristretta ad un numero esiguo di membri e dominata da elementi urbani istruiti, mentre il programma deliberato era puramente curdo e nazionalista. 

I presenti decisero inoltre di costituirsi in comitato, denominandolo Komala-i Jiyanawi Kurdistan (traducibile in “Comitato per la resurrezione del Kurdistan”), meglio noto come JK Society. Essa riuscì, nel luglio 1943, nell’impresa di far stampare a Tabriz (occupata in quel momento dall’Armata Rossa) il primo numero della rivista curda Nishtiman (“Patria”). Sulla prima pagina della pubblicazione veniva riportato un verso del Corano, a rimarcare la fede nella religione islamica, difendendosi in tal modo dalle accuse di ateismo e comunismo mosse al movimento dai signori terrieri, dalla comunità mercantile e, specialmente, dal clero.

La rivista fece appello alla benevolenza e all’umanitarismo dei signori territoriali per riformare le dure condizioni di sfruttamento in cui versavano i contadini e affrontò il concetto di popolo curdo e nazione curda, usati tra loro come sinonimi: concetto di grande importanza per il Komala, in quanto riunificò tutta la narrativa nazionale allo scopo di giungere alla costituzione di una terra curda indipendente. La dinamicità del Komala e la sua maturità come gruppo nazionalista pan-curdo veniva rivelata anche dai rapporti che esso aveva intrapreso con le altre aree del Kurdistan: nel marzo 1944, ad esempio, Muhammad Amin Sharafi venne inviato in Iraq, a Kirkuk, per visitare i rappresentanti del partito Hewa, discutere dei piani futuri e stringere alleanze di mutuo soccorso. Pochi mesi dopo la visita venne ricambiata.

Sinché, nel maggio 1944, il Komala ed i suoi alleati iracheni giunsero a disegnare come simbolo di unità nazionale quella che tutt’oggi viene considerata la bandiera ufficiale del Kurdistan: una bandiera tricolore con gli stessi colori della bandiera iraniana, ma posti al rovescio e con l’aggiunta di un sole giallo al centro. A poco tempo dopo risale la fondazione della repubblica di Mahabad, la quale riuscì però a sopravvivere per un solo anno (dal gennaio al dicembre 1946), sino al momento in cui l’Iran non ebbe la forza di reagire e seppellirne le speranze sotto cumuli di sabbia, a suon di cannonate: ormai in pieno clima di Guerra Fredda, i sovietici avevano infatti deciso di togliere il supporto sino ad allora offerto ai curdi e lasciare mano libera all’Iran per la rioccupazione del territorio.

Bandiera della repubblica di Mahabad. I colori sono invertiti rispetto ai colori della bandiera iraniana sotto la dinastia Pahlavi.

I curdi del Rojava: breve storia del conflitto siriano

Tornando ai giorni nostri v’è da notare che, ora come allora, sono gli effimeri interessi geopolitici a decidere il destino di un popolo, il cui sentimento comunitario è tutto meno che contingente.

In Siria la Primavera Araba germinata nel 2011 ha subito assunto i connotati d’una guerra civile. Nel caotico contesto dello scontro fra lealisti e ribelli, si sono aggiunti attori esterni non statuali quali Hezbollah (formazione partitica e militante libanese di estrazione sciita, intervenuta a sostegno di Damasco spalleggiata come sempre dall’Iran) e gli estremisti sunniti (presto radunatisi sotto le bandiere del sedicente califfato islamico di al-Baghdadi). Successivamente, l’intervento russo del novembre 2015 ha sancito la regionalizzazione del conflitto: ciò significa che le dinamiche interne della crisi siriana sono diventate variabili dipendenti da quelle mediorientali; gli stessi curdi si sono trovati a dover fronteggiare non solo Assad, ma nemici e falsi-amici esteri.

La guerra civile siriana del 2011 ha di fatti inevitabilmente interessato anche le regioni curde della Siria del nord, come le città di Kobanê (al confine con la Turchia), Afrin e Hasaka. Le milizie curde, componenti preponderanti delle SDF (Forze Democratiche Siriane) coinvolte nella difesa delle città del nord-est siriano dall’avanzata jihadista, hanno conquistato una fascia di territorio che, nel novembre 2013, ha ottenuto di amministrarsi autonomamente, gestendo le questioni politiche, militari, economiche e di sicurezza della regione denominata Rojava, il Kurdistan siriano. Governato dall’YPG (Unità di Protezione Popolare), braccio armato del PYD (Partito dell’Unione Democratica, corrispettivo siriano del PKK turco), il territorio ha seguito dinamiche differenti e de facto separate da quelle del resto della Siria, dove frattanto i lealisti hanno recuperato terreno, confinando i combattimenti nell’area di Idlib.
Formalmente oppositrici del governo di Damasco, le forze curde (composte per circa il 40% degli effettivi da combattenti di sesso femminile) hanno spesse volte collaborato con le forze lealiste per difendere le città siriane dal nemico comune rappresentato dall’ISIS.

Nel marzo 2016, alla conferenza di Rmeilan i curdi siriani hanno proclamato la federazione dei tre cantoni sottratti ai jihadisti sul campo di battaglia: Jazira, Kobanê e Afrin. Ciò ha visto l’opposizione non solo di Damasco, ma anche di Ankara, da decenni preoccupata ad interrompere ogni possibile collegamento fra curdi siriani e turchi. A seguito dell’espansione dei miliziani curdi a ovest dell’Eufrate con la conquista della città di Manbij, nel mese di agosto la Turchia ha lanciato l’operazione Scudo dell’Eufrate (agosto 2016-marzo 2017), penetrando militarmente in territorio per impedire l’unificazione dei tre cantoni.
Nel gennaio 2018, con l’operazione Ramoscello d’ulivo (gennaio-marzo 2018) l’esercito turco è intervenuto nuovamente in Siria, occupando il cantone curdo di Afrin.
Ancora, il 9 ottobre 2019 la Repubblica di Turchia, guidata dal proprio presidente Recep Tayyip Erdogan, ha fatto scattare l’operazione Fonte della Pace nel Rojava. Tralasciando i nomi delle operazioni, che sanno amaramente di beffa ottomana, esse hanno ufficialmente avuto lo scopo di contrastare ed eliminare le residue milizie dell’Isis nel nord della Siria; ma, nei fatti, tali azioni militari sono state condotte col tanto ufficioso quanto pressante obiettivo di spegnere le velleità autonomistiche dei curdi siriani del PYD, separandoli definitivamente dal PKK, e creare una zona cuscinetto, controllata manu militari e resa scevra da popolazioni curde tramite il reinsediamento in loco di milioni di profughi siriani.

Tutto ciò è stato reso possibile dal ritiro strategico delle forze statunitensi voluto da Trump. Sino ad allora i principali attori coinvolti nell’ovest della Siria (Russia, Iran e Turchia, per l’appunto) erano rimasti impossibilitati ad operare nell’est del paese: il voltafaccia americano ha così spianato le porte ai turchi. Si è venuta pertanto a creare una situazione drammatica per i civili e paradossale per le forze in campo: nel Rojava infatti un membro della NATO (la Turchia) ha attaccato il principale alleato in Medio Oriente della potenza a stelle e strisce nella lotta al Califfato Islamico (il popolo curdo siriano, per l’appunto). I curdi, stretti fra le diverse ostilità degli Stati che ne ospitano la popolazione ed il machiavellico opportunismo del Numero Uno americano, unico ed altalenante alleato a loro disposizione, hanno visto ancora una volta la propria identità nazionale messa a dura prova. Ciò ha spinto i curdi, il 13 ottobre 2019, a stipulare un accordo con Assad per respingere l’aggressione di Ankara: privato d’ogni appoggio nonostante la lealtà sempre mostrata, il PYD ha dovuto trattare da una posizione di debolezza, accettando clausole assai vaghe in merito alla futura autonomia curda. Pur sapendo di non potersi fidare né di Damasco, né di Mosca: quest’ultima già nel 2018 ha abbandonato Afrin per lasciar campo ai turchi; mentre Assad ha già tradito gli accordi di riconciliazione raggiunti con milizie locali in altre aree del paese. Trattasi dunque d’un accordo obbligato dall’oscuro divenire.

Per quanto riguarda il ritiro delle armate dei civilissimi portatori di democrazia nel mondo, propagandato dal loro presidente Trump in ottica elettorale, v’è da notare come abbia assunto di fatto i connotati di un ricollocamento delle truppe, più che di un esodo delle forze americane dal teatro mediorientale. Gli europei dal canto loro, con l’assenza di strategia, le incomprensioni in seno alla PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) e la flemma che ne contraddistingue la politica estera dalla fine del secondo conflitto mondiale, non sono nemmeno riusciti a stipulare un accordo comune atto a porre quantomeno un embargo sulla vendita di armi alla vicina Turchia.

Carta di Laura Canali del Rojava, 2020. Tratta da Limes, link a fondo pagina

Tirando le somme: la centralità del Rojava e l’ipocrisia Occidentale

La guerra nel Rojava e nel resto del territorio siriano è destinata tanto a complicarsi quanto a dilungarsi: la partita per il Nordest della Siria è di fatti al centro della competizione in Medio Oriente. Il nodo più drammatico risiede nella sorte degli oltre 5 milioni di sfollati curdi e siriani, ora al centro del fuoco incrociato di interessi di potenza contrapposti, in una delle aree più calde del pianeta; prostrati non solo dalla guerra, ma anche da una crisi economica spaventosa, alla quale gli stessi USA largamente contribuiscono, impoverendo con le proprie sanzioni le vite già precarie delle popolazioni per colpirne il padrone. Altro che portatori di civiltà: la condotta dell’Aquila è a dir poco aberrante. Oggi come nel passato, a tradire i curdi sono state superpotenze sedicenti portatrici di valori universali: se il comunismo sovietico risente ancora dell’etichetta di “Impero del Male” affibbiatagli da Reagan, colpisce l’ipocrisia di chi vorrebbe esportare la democrazia nel mondo, e con essa i diritti umani, civili, sociali. L’ipocrisia americana: propriamente Occidentale, è anche nostra, europea.
Nulla di nuovo sotto il sole: da tempi immemori la realpolitik non bada all’etica, né ai sogni.


Fonti e blibliografia

https://www.arateacultura.com

Simone Bertuzzi

Redattore sez. Storia & Società