Critica di Prosa,  Premi Letterari,  Premio Strega

Cassandra a Mogadiscio di Igiaba Scego – Premio Strega 2023

di Chiara Girotto

Cassandra a Mogadiscio - copertina

E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle.

Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 272-283

Il valore della memoria

Il romanzo candidato al Premio Strega 2023 Cassandra a Mogadiscio, (Bompiani, 2023) di Igiaba Scego è l’esito di una scommessa a dir poco ardua: raccontare un paese, la Somalia, stravolto dalla guerra e osservato dai media occidentali con un misto di compatimento e disgusto. Raccontare di una famiglia, e quindi di un popolo, in diaspora, senza poter disporre di fonti documentarie: un secolo di colonialismo, dittatura e guerra civile ha provveduto a occultarle.

Al panorama di disinteresse e oblio collettivo in merito al passato e alle sorti della Somalia, Scego contrappone la potenza arcaica della testimonianza scritta. Memoir, ricostruzione storica, romanzo familiare: Cassandra a Mogadiscio racchiude in sé quella dimensione sincretica propria della letteratura di emigrazione, attingendo la sua forza dal multiculturalismo che la pervade. La figura omerica di Cassandra, veggente mai creduta, si pone così come alter ego mitico di chi combatte affinché la memoria trascurata, rinnegata non si perda, ma si incarni nel presente sotto forma di letteratura.

Il romanzo, scritto in forma autodiegetica, si articola nei capitoli di una lunga lettera rivolta alla nipote dell’autrice. Sin dal principio, la lettera segue un percorso narrativo che intreccia due livelli, quello storico-collettivo e quello individuale-familiare. Il racconto delle due realtà, perfettamente distinte eppure inscindibili, risponde all’esigenza autoriale di ricostruire un mondo di affetti, eventi e traumi con la consapevolezza che solo la scrittura può salvarne l’essenza.

Nient’altro, infatti, può preservare se non l’interezza, almeno i frammenti, di una Storia ormai priva di archivi, registrazioni, articoli1; nulla può affrontare il dolore silenzioso dei superstiti, dialogando con esso, se non la parola, rivelatrice anche degli aspetti luminosi di una cultura, quella somala, che troppo spesso si associa esclusivamente alle barbarie belliche. Trascrivendo i resoconti orali, unici reperti rimasti della guerra civile, Igiaba Scego ricostruisce un universo linguistico, visuale, sociale.

Cassandra a Mogadiscio e il Jirro

L’elemento autobiografico dell’opera ne costituisce senz’altro il fil rouge: Cassandra a Mogadiscio è in primis la storia di una famiglia lacerata e in esilio, di una madre e di un padre somali che crescono la propria figlia, ossia l’autrice, in terra straniera, confrontandosi con l’indigenza e le discriminazioni della realtà italiana; realtà particolarmente dura da affrontare se si ha alle spalle una carriera diplomatica e politica di primo rilievo nel proprio paese d’origine, con tanto di stabilità economica e affettiva annesse. Il padre di Scego Alì, infatti, ex traduttore e mediatore per il regime coloniale britannico, arriva in Italia dopo l’avvento della dittatura di Siad Barre, che destituisce e mette in fuga tutti i membri della previa classe dirigente. Con lui viaggia Chiadigia, donna dal passato ancora più straordinario: in origine pastora nomade, poi first lady al fianco del consorte, e infine esule.

Gli occhi di un qualsiasi lettore occidentale potrebbero muoversi increduli tra le righe del romanzo, stentando a concepire tali improvvise frustate della sorte, che ha sbaragliato costantemente le vite non solo della famiglia Scego, ma dell’intero popolo somalo. Componendo un quadro plurale e variegato della propria genealogia, la scrittrice dimostra come la catastrofe dell’instabilità politica e militare della Somalia abbia condannato tutti alla precarietà e all’espatrio, se non a destini peggiori. In Cassandra a Mogadiscio aleggia il tono potente e atavico della tragedia, che tramite l’esperienza del singolo sprigiona le istanze insondabili della sofferenza collettiva.

Non è un caso che il grande protagonista semantico del romanzo sia il Jirro, termine somalo che indica la malattia del corpo quanto quella dell’anima. Il Jirro altro non è che la conseguenza diretta dei soprusi e delle violenze che insanguinano il territorio somalo sin dai tempi del colonialismo europeo e italiano: ciascuno dei personaggi vivi e defunti raccontati da Scego lo incarna a modo proprio, somatizzandolo o combattendolo nella propria interiorità, dato che al Jirro è impossibile fuggire. Questo male psicofisico è ovunque, dagli abusi verbali dei militari inglesi nei confronti di Alì alla tremenda pratica dell’infibulazione a cui viene sottoposta Chadigia, dalle purghe del regime di Siad Barre ai combattimenti che riducono l’antica Mogadiscio, ricca di storia e commerci, a un cumulo di rovine. Come una patologia ereditaria, si insinua nella soffitta di Balduina, Roma, da cui una giovane Igiaba Scego assiste, impotente, all’imperversare della guerra civile somala, in cui per due anni sua madre si trova dispersa, per poi riuscire fortunatamente a tornare viva in Italia.

L’autrice racconta come, nel suo caso, il Jirro abbia assunto la forma di un disturbo alimentare, concepito come unica reazione possibile di fronte all’insensatezza della madre scomparsa in un conflitto brutale che, per amor di cronaca, prosegue fino ai giorni nostri. Nel libro di Scego il discorso sui corpi, connesso a quello della malattia, è lo snodo focale che veicola l’altrimenti ineffabile senso permanente di straniamento e disperazione che la violenza genera. Il tema del progressivo affievolirsi della vista, reale problematica di salute che affligge l’autrice, sul piano metaforico diviene ulteriore espressione del trauma subìto, ma non solo: riprendendo il topos classico della cecità correlata alle facoltà divinatorie, Scego rimarca la profonda consapevolezza del reale acquisita proprio in virtù dello sradicamento e della brutalità esperite. Come l’Omero «cieco e mendico» evocato da Cassandra nei Sepolcri foscoliani, la scrittrice trova conforto nell’ars poetica, che eterna le memorie oscure dell’ormai distrutta Mogadiscio – moderna Troia – nel mito.

La ricchezza della lingua, la cura dello scrivere

Limitarsi infatti a definire Cassandra a Mogadiscio come un romanzo vittimistico e polemico, o semplicemente un racconto straziante, non sarebbe onesto intellettualmente. La motivazione profonda che guida la prosa di Scego non è quella della denuncia che punta il dito, ma l’idea, riscontrabile negli scritti di pensatori come James Hillman2 e Jerome Bruner3, della scrittura come pratica terapeutica, del racconto di sé come azione necessaria per appropriarsi degli eventi, al fine di non restare schiacciati dalla Storia. La scrittura del romanzo è, a detta dell’autrice, una vera e propria cura dell’anima, nonché il più potente strumento di indagine per sondare le testimonianze orali su cui poggia la sua ricostruzione.

Nessuno spazio è lasciato alla mera autocommiserazione, e poco, forse, al rancore: una sincera gratitudine per i propri cari e per la vita, invece, è palpabile, così come l’amore per la professione di scrittrice, vissuta sia come missione che come autentica vocazione spirituale. Nella sua natura multiforme, Cassandra a Mogadiscio professa anche un autentico amore per la lingua italiana, idioma dei colonizzatori ma anche

«di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma, Amir Issaa, Leila El Houssi, Takoua Ben Mohamed e Djariah Kan. Lingua un tempo al singolare e ora al plurale. Lingua mediterranea, lingua di incroci.»4

Al cospetto della tutt’altro che innocua dominazione fascista prima, e dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria della Repubblica Italiana in Somalia) dopo il secondo conflitto mondiale, scrivere in italiano si rivela una scelta politica oltre che di poetica. Accogliere l’italiano equivale, in un certo senso, a una riconciliazione, ma rappresenta anche un atto di fiducia verso una cultura – quella in cui in qualità di italiana Scego è nata e cresciuta – straordinariamente feconda dal punto di vista letterario.

Del resto, nell’opera anche il somalo è fortemente radicato all’interno del testo come forma espressiva altrettanto cruciale. Osservando tale sinergia linguistica, sorge spontaneo un confronto con Luigi Meneghello e con la sua idea di dispatrio, in cui il trauma dell’emigrazione si traduce poi in una mutua influenza prolifica tra italiano e inglese. Nel romanzo di Igiaba Scego, le due lingue convivono arricchendosi a vicenda di nuove significazioni.

Narrazione e pathos

A tal proposito, è interessante notare come l’opera di Scego si serva dell’italiano per presentare quella che si potrebbe definire una contro-narrazione della realtà somala rispetto all’immaginario occidentale, tra l’altro alquanto scarno, in merito. Tra i numerosi esempi possibili, emblematico è quello della madre dell’autrice. Chadigia è una donna che lungo il corso della sua esistenza ha saputo badare ai cammelli della sua tribù quanto partecipare a delegazioni di rappresentanza all’estero; una madre che, pur non sapendo leggere o scrivere, compone poesie e incoraggia la figlia trascrivere le sue memorie personali e storiche sul Novecento somalo, così che la nipote, e con lei il mondo, conosca.

Un personaggio così eclettico resta inciso nella mente di chi legge, infrangendo qualsiasi tipo di stereotipo razziale: nel romanzo di Scego la Somalia affascina e incanta proprio grazie al suo capitale umano, e questo nonostante gli orrori, oltre l’amarezza.

L’efficacia narrativa dell’autrice risiede anche nello stile epistolare ricorsivo che in alcuni punti sfiora il tono della lamentazione, senza – quasi mai – eccedere nel patetismo. L’equilibrio tra emotività tragica e asciutta semplicità favorisce la commozione: nella prosa di Cassandra a Mogadiscio riecheggiano alcune pagine morantiane, dove l’autrice manovra sapientemente gli ingranaggi del pathos senza che nella lettura ci si accorga del macchinario.

«La parola dell’altro»

In conclusione, la scommessa posta dall’autrice è stata vinta: rendere di nuovo vivo un passato lacunoso e lacerante, che, come scrive la stessa Scego, non rientra in nessun libro di storia del Novecento. Un tempo trascorso ma strettamente correlato al presente da una scia di esilio e conflitti, ma anche di sincretismo, legami indissolubili, arte.

«Così ho capito che l’autobiografia è affascinante per il suo costruirsi in constante movimento. Il passato non è mai fermo, segue i nostri cambiamenti. Esistono degli eventi, ma non tutti gli eventi ci sono chiari nello stesso momento e allo stesso modo. Tutto è legato a quanto siamo disposti a scavare e ad accettare ciò che il passato ci svela. E poi c’è la parola dell’altro, che apre e chiude spiragli».

Sicuramente Igiaba Scego è capace di aprire, più che uno spiraglio, un portale, su un universo culturale ricchissimo dove convivono due anime, quella somala e quella italiana, assieme all’urgenza di tradurle in letteratura.

Note:

1 https://www.nazioneindiana.com/2023/02/22/igiaba-scego-cassandra-a-mogadiscio-recensione/;

2 James Hillman, Le storie che curano: Freud, Jung, Adler (Healing Fiction, ed. or. 1983), trad. Milka Ventura e Paola Donfrancesco, Milano, Raffaello Cortina Ed., 1984;

3 Jerome Bruner, La costruzione narrativa della realtà, in Rappresentazioni e narrazioni, a cura di M. Ammaniti, D.N. Stern, Bari, Laterza;

4 Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, cit., pg. 737;

5 Ivi, pgg. 25-26.

Bibliografia:

Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, Milano, Bompiani, 2023, [ed. digitale];

Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, Milano, Mondadori, 2019.

https://www.arateacultura.com/

https://www.bompiani.it/catalogo/cassandra-a-mogadiscio-9788830109230

Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager