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Davide Latini – Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala – L’incertezza di una storia già scritta

Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala

Cambiare il proprio destino è quasi un dovere per chi vuole emergere, nella cultura occidentale odierna. Eppure è sempre più la norma accontentarsi e lasciarsi trasportare dal fiume degli eventi e delle leggi non scritte che la società impone, nonostante i mezzi per cambiare le regole del gioco e raggiungere una parvenza di autorealizzazione esistano e siano alla portata di molti. Purtroppo non vale lo stesso altrove e il destino, che per noi occidentali è tanto incerto quanto versatile, per altri rappresenta un’ineluttabile condanna. Davide Latini, nel suo ultimo romanzo “Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala” (Haiku edizioni, 2021), ci guida alla scoperta di un mondo dove vige un crudo paradosso: per chi vive nelle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo, situata tra il Bangladesh e l’India, ogni aspetto della vita è precario, l’unica certezza è che nulla sia destinato a cambiare.

“Vivere nelle Sundarbans non è una scelta, è un destino.”

Già nel suo primo romanzo “Un dio perdente” (Edizioni Efeso, 2019) Latini aveva esplorato il tema del destino e del prezzo da pagare per mutarlo, nella vicenda di un nuotatore che, pur di raggiungere a tutti i costi il successo, si affida al doping. La storia del cacciatore di miele, invece, racconta l’altra faccia della medaglia: l’assenza di scelta, il vuoto esistenziale che deriva da una strada già scritta.

Così il racconto sembra essersi già concluso prima dell’inizio del libro, con la morte di Shamim, un padre di famiglia costretto dalla povertà a rischiare la propria vita addentrandosi nella foresta di mangrovie, popolata di bestie pericolose, alla ricerca del prezioso oro liquido: il miele delle Sundarbans. L’intera vicenda è guidata dall’assenza di Shamim e si srotola fino alla conclusione con una linearità tragica e inarrestabile, come se l’uomo, mentre veniva divorato da una tigre del Bengala, avesse potuto vedere nella propria testa tutte le conseguenze della propria morte narrate nel libro.

Il figlio di Shamim, Roni, si ritrova così catapultato al centro di due forze opposte, incarnate dalle donne che restano a comporre la sua famiglia. Da una parte la sorella Nasima vorrebbe fuggire a Dacca: desidera un cambiamento ed è intenzionata a lottare fino a raggiungerlo. Rimpiange di essere una donna e dunque di non potersela cavare da sola senza trovarsi in pericolo, ma non demorde e arriva a influenzare anche il fratello. Roni così matura un “odio invincibile” per le condizioni in cui vive e dichiara: “Mi batterò per cambiarle!” Ma gli adulti lo mettono in guardia: “Il mondo è duro, Roni. Non aspettarti che la gente ti voglia bene”, o ancora “Dovrai piangere tutte le tue lacrime prima di vedere un mondo nuovo

Dall’altra parte la madre ha abbandonato da tempo il sogno di diventare una maestra e non ha intenzione di cambiare vita, nemmeno quando, dopo la morte di Shamim, si vede voltare le spalle dai suoi stessi compaesani, convinti da una superstizione locale che sia una “mangiatrice di mariti” e porti sfortuna. “Io sono nata qui, qui sono cresciuta e qui morirò” sentenzia. Si oppone ai figli, spiegando che a Dacca le persone non sono diverse, ma con sempre meno convinzione, comprendendo che tenere i figli chiusi in uno stato di inerzia sia soltanto l’utopia di una madre. Le sue parole torneranno alla mente del lettore quasi come una premonizione quando anche la città di Dacca sarà descritta con un volto dilaniato dalla povertà. E il dilemma di Nasima, che non si arrende nemmeno davanti a questo, resterà tragicamente irrisolto: quanto ha senso lottare per un futuro che non può essere mutato?

Roni dal canto suo non ha alcun sogno in particolare. Alla morte del padre è costretto a farsi adulto e dunque a scontrarsi con le innumerevoli contraddizioni del suo mondo. In primis la povertà e la fame gettano quotidianamente la sua famiglia in una situazione di estrema precarietà. Ma poi anche la religione e la morale si rivelano ambigue nelle Sundarbans. Si scopre smarrito quando gli viene chiesto perché si preghi la dea Bon Bibi prima di una spedizione, se Allah è l’unico dio. O ancora, nonostante Khalil, l’agente per conto del quale Shamim si recava in spedizione, non ha intenzione di restituire il denaro dovuto al defunto, c’è chi lo giustifica, spiegando che è sempre necessario capire il motivo che spinge una persona ad agire. Così il sogno di Roni si concretizza nell’odio e nel desiderio di vendetta nei confronti sia della tigre che ha ucciso suo padre sia di Khalil. Ma ciò non basta per estinguere le contraddizioni: una scintilla di quello che potrebbe diventare amore si accende nei confronti della figlia dello stesso Khalil; e ancora, nel comprendere che anche l’agente era un cacciatore di miele, Roni scopre una sovrapposizione tra l’individuo che vuole uccidere e il proprio padre. Tutto ciò lo getta in uno stato di profondo conflitto che sembra potersi risolvere solo con un atto di violenza.

Il lungo monologo interiore di Roni che si dirige verso l’ufficio di Khalil per ucciderlo ricorda quello di Michele Ardengo negli Indifferenti di Moravia, pur essendo il contesto completamente diverso. Il ragazzo immagina il processo e una condanna a morte affrontata onorevolmente in nome di una giustizia personale, ma finisce per tornare sui propri passi più di una volta. Se negli Indifferenti, come nella società di oggi, l’inettitudine di Michele era dovuta a uno stato di passività nei confronti del mondo, la non-azione di Roni è tutt’altro che indecisa, bensì tacitamente guidata dalla consapevolezza di non poter cambiare nulla in ogni caso. Le parole del padre riecheggiano nella sua testa “Cosa pensi che io possa fare? Se il mio destino è quello di essere ucciso da una tigre” e delineano per Roni l’unica strada che sembra percorribile. Il ragazzo decide dunque di seguire le orme del padre e diventare a propria volta un cacciatore di miele e l’esito della sua spedizione nella foresta di mangrovie sarà raccontato nella seconda parte dell’opera: non resta che leggerla.

“Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala” è un prezioso documento di antropologia che permette ai lettori di immergersi non solo nelle tradizioni culturali e religiose di un popolo lontano da quello occidentale, ma soprattutto di coglierne le sfumature della morale fino a maturare un’umana vicinanza con loro. Non a caso l’autore attinge alla propria esperienza diretta di vita e lavoro in Asia e il suo modo di raccontare, semplice e al contempo ricco di immagini suggestive, rispecchia magistralmente il punto di vista degli abitanti delle Sundarbans. L’opera, con una pungente conclusione, sottolinea quanto realtà come quella descritta siano estranee alla concezione occidentale, mostrando una coppia turisti che acquistano dei vasetti di miele per mille e duecento taka l’uno, quando i cacciatori ne guadagnavano meno di cento per rischiare la propria vita. La prima vergogna dell’uomo è la mancanza di consapevolezza.


Un ringraziamento speciale va alla casa editrice Haiku Edizioni di Roma, per averci fornito l’opera in anteprima.
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Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala
Un dio perdente