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Recensione di “La vita intima” di Niccolò Ammaniti – Vincitore del Permio Viareggio Rèpaci Narrativa 2023

un articolo di Chiara Girotto

Nei recenti anni pandemici abbiamo assistito a quella che è stata spesso definita come “l’esplosione dei social”, per indicare come il mondo online si sia progressivamente impadronito delle nostre vite quando l’altro mondo, quello esterno, non sembrava avere molto da offrire oltre al contagio pandemico. Definirlo mondo esterno e non mondo vero implica una serie di problematiche, ormai arcinote, che si possono riassumere nell’evanescenza del confine tra realtà e finzione, tra verità e apparenza: una questione, questa, così pregnante nel nostro presente da essere approdata in fretta sulle sponde della narrativa.

La vita intima di Niccolò Ammaniti parte per l’appunto da tale presupposto, dipanandosi tra le pagine come una serie di variazioni su quest’unico, centrale motivetto: la quotidianità di Maria Cristina Palma è finta e plasticosa come i suoi seni artificiali. La moglie del presidente del consiglio italiano Domenico Palma è odiata da molti, supportata da pochi e capita, o così pare, solo dal suo tuttofare Luciano e dalla figlia Irene, dolci figure le cui battute paiono uscite direttamente da una sceneggiatura hollywoodiana. A guidare i suoi passi, sia quelli apparentemente insignificanti come la tinta ai capelli, che quelli cruciali, come cosa postare sui vari profili, c’è il Bruco, il suo social media manager, un novello dio – non d’Israele, ma dell’algoritmo- che per rivelarsi sceglie le mail al posto dei cespugli ardenti.

Esattamente come accade per il dio dell’Antico Testamento, nessuno lo ha mai visto, nemmeno il premier, ma forse proprio in virtù di questa imperscrutabilità la first lady, la cui fatica quotidiana consiste principalmente nell’essere osservata, segue alla lettera le sue direttive su come apparire perfetta. Nel flusso di eventi mondani e cene di rappresentanza, solo un elemento sfugge al rigido controllo di tutti coloro che le gravitano attorno: la vita intima resta seppellita sotto strati di make-up e traumi laceranti mai davvero metabolizzati da una donna che, comprensibilmente, viene ribattezzata Maria Tristina.

La vita intima, Niccolò Ammaniti

La vita intima tra realtà e apparenza

Difficile non fare della propria tristezza un sentimento dominante in un contesto così asfissiante, in primis perché costellato di falsità. A essere falsi sono le amicizie interessate, i rapporti affettivi, anche coniugali, che si rivelano di reciproca convenienza; l’entourage esistenziale della protagonista si muove orientato da un’unica, spietata dinamica, che è quella del calcolo. Solo il passato si sottrae alla logica estetica e politica del do ut des, restituendo alla donna sprazzi di esperienze incontaminate dagli imperativi del dover sembrare qualcuno per ottenere determinate conseguenze. Più che del presente, è di questi anni che furono che si nutre l’interiorità di Maria Cristina, custode gelosa che inizialmente non sa e non vuole riesumare nulla al cospetto di altri, forse per preservare intatta la magia di una libertà ormai lontana.

Questo passato remoto bussa, più che alla sua porta, alle soglie virtuali del suo cellulare con un video pornografico in cui compare la sua versione più giovane e per giunta consenziente. Un filmato potenzialmente letale per la moglie di un personaggio politico in vista, non solo per quanto riguarda il lato pubblico della faccenda, ma anche per la dissonanza cognitiva che la travolge. Maria Cristina Palma, ex eletta donna più bella del mondo da svariate riviste di moda, algida, elegante e inaccessibile ai più, non si riconosce minimamente nella sua versione ventenne, che le provoca un profondo senso di straniamento. Approdata sulle sponde – fatali per un essere di genere femminile nella società odierna – della mezza età, si domanda che cosa sia accaduto, come abbia fatto a costruire intorno a sé un’impalcatura esistenziale così ingabbiante e odiosa, eppure così solida, se solo venti anni prima riusciva a essere tanto incauta.

Ecco che il romanzo si trasforma in un inseguimento a più riprese dell’uomo del filmato, nel tentativo di reprimere un’esperienza che infanga e nega il presente della protagonista. Al di là delle mere questioni legate alla trama, un concetto emerge con tutta la sua problematicità dalle pagine de La vita intima: Ammaniti scrive a più riprese della Verità, da introdurre in maiuscolo perché nel libro si tratta del principio assoluto e incontrovertibile che interessa la filosofia occidentale da migliaia di anni. «La paura finisce dove incomincia la verità», sentenzia un personaggio: una scenografica affermazione a cui, tuttavia, sono sottesi diversi presupposti interessanti. L’intera macchina narrativa di questo chiacchierato libro si muove prima per occultare, poi per liberare l’autenticità di una donna che semplicemente non riesce più a reggere la farsa dei social, delle dirette tv e delle conferenze stampa. Il sesso ripreso in camera ha poco a che fare con tale gettata di maschera: nel finale consolatorio si assiste a un’autoassoluzione da parte di Maria Cristina, che banalmente sceglie di abbandonare la finzione e di essere sé stessa.

Intimità, verità, scelta: le trappole nascoste nei termini

Una conclusione un po’ facilona persino per Ammaniti, così abile nel tenere i lettori incollati alla sua prosa. È nel finale che La vita intima scade, proprio per la semplicistica polarizzazione dell’apparire contro l’essere, dicotomia che invece viene resa nella sua complessità nella prima parte dell’opera. Lascia l’amaro in bocca che una riflessione sfaccettata, ma al contempo capace di arrivare anche a un pubblico non specialistico, su questo snodo centrale del nostro presente conosca un esito deludente. D’altra parte, nessuno ha costretto la protagonista a sottoporsi ai dettami di un’entità astratta che le suggerisce che tipo di acconciatura indossare per ottenere più like, nessuno l’ha minacciata di morte affinché si nutrisse solo di insalate per il resto dei suoi giorni, e di certo essere una moglie trofeo non è un obbligo intimato da chissà quali alti vertici, ma una scelta. Ponendo come assunto che questa serie di decisioni, frutto del libero arbitrio, l’hanno gettata in una spirale depressiva da cui all’inizio pare impossibile disincagliarsi, perché nel finale del romanzo sembra che basti decidere di smettere per essere felici?

Ammaniti dispone sapientemente sul tavolo delle questioni intricate a cui però pretende di fornire risposte lineari: se davvero fosse sufficiente infischiarsene dello scrolling altrui e dei commenti sul proprio invecchiamento epiteliale, il botox non esisterebbe. Si ritorna dunque al concetto di verità, e alla possibilità di optare per una vita “autentica”, qualsiasi cosa significhi questo termine, quando il condizionamento è in prima battuta interno, intimo, come suggerisce il titolo. Le pressioni che Maria Cristina subisce dal prossimo sono senza dubbio reali, ma subdole, e filtrate da una sensibilità personale che la convince di valere quanto il proprio corpo, da cui è ossessionata. Le costrizioni che si la protagonista si impone sono autentiche, se per autentico si intende qualcosa di concepito in interiore homine. Certo, l’intero bersaglio polemico del libro dovrebbe riguardare l’humus sociale in cui le costrizioni prendono forma, ma le sferzate ironiche dell’autore perdono intensità se poi il personaggio può rinunciare al condizionamento e scegliere di essere vera con uno schiocco di dita sul finale.

Affrontare tematiche di questa portata, centrali nell’attuale dibattito circa l’odierna condizione femminile, richiede uno sforzo autoriale non indifferente, specie se a scrivere è un uomo, appartenente a una categoria senz’altro afflitta dalle stesse criticità, ma con una portata inferiore a quella che sommerge le donne, imbrigliate dall’imperativo categorico dell’apparenza. Non è questa la sede adatta a riassumere decenni di teoria femminista in merito; è più stimolante, forse, interrogarsi brevemente sulle ragioni che si celano dietro a quest’esito narrativo.

Nella sua ingenuità, il libro di Ammaniti pungola il lettore, che si chiede se non ci sia qualcosa che gli è sfuggito. Sul suo profilo Instagram, al giornalista Marta Perego ipotizza che l’happy ending del romanzo sia l’ennesima mossa di marketing del famigerato Bruco, che suggerisce a Maria Cristina di confessare l’inconfessabile in diretta televisiva per diventare, come si direbbe in inglese, più relatable, ossia una persona in cui è facile immedesimarsi. Dietro alla consolazione potrebbe essere nascosto– molto a fondo, si potrebbe aggiungere- un messaggio disincantato sull’impossibilità di evadere dall’autoimposto regime di cattività virtuale, dove un cuore di pixel e una pancia piatta in fotografia valgono più del proprio equilibrio psichico.

Ciò che è certo è che l’estesa popolarità di opere come La vita intima confermano una tendenza all’uso, da parte di una considerevole porzione della narrativa contemporanea in Italia, di terminologie assolute come quelle di verità e falsità, astrazioni teoriche messe radicalmente in discussione da quel fenomeno babilonico che chiamiamo Postmodernismo. Nella nostra temperie storica e culturale, battezzata da alcuni studiosi come Raffaele Donnarumma «Ipermodernità», si assiste frequentemente sia al rifiuto dei giochi metaletterari e intertestuali tipicamente postmoderni sia al recupero di modalità ottocentesche, che riprendono l’idea di una narrazione realistica e quanto più possibile oggettiva. Vecchie categorie rese inutilizzabili dal pensiero novecentesco vengono riesumate: ecco che si può tornare a parlare di Verità facendo i seri, senza che un sorriso sardonico spunti sul volto di chi scrive. Ecco che la presenza autoriale si fa più forte, così come l’attenzione alle tematiche sociali e politiche, prima fra tutto quella del corpo, definito dalla critica “il primo reale”.

Eppure il sorriso, sul volto del lettore, spunta comunque. La prosa di Ammaniti incarna l’esempio lampante del suddetto ritorno alla realtà, caratteristica distintiva degli odierni prodotti culturali ad ampio consumo, ma l’impressione che se ne ricava è contraddittoria. Leggendo si ha la sensazione che La vita intima ambisca a essere qualcosa di più di una lettura della domenica senza riuscirci pienamente. L’ultimo romanzo del celebrato scrittore romano, vincitore del Premio Strega nel 2007 con Come Dio comanda, potrebbe essere collocato in calce alla definizione di midcult, ovvero quel tipo di espressione artistica che si appropria di alcuni stilemi della cultura alta, prima fra i quali l’ambizione engagée, edulcorandoli e rendendoli in questo modo digeribili dal pubblico massificato. Il risultato è un prodotto narrativo sicuramente godibile, ma di dubbia profondità concettuale, nonostante dalle pagine traspiri una volontà ironica di critica sociale e di denuncia la cui miccia non viene accesa. A Cesare quel che è di Cesare: La vita intima è un romanzo, che, a discapito delle perplessità o proprio grazie a queste, è in grado di animare il dibattito culturale. E già questo è un merito.


Per approfondire:

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/la-vita-intima-niccolo-ammaniti-9788806255152/

Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014

Dwight Macdonald, Masscult and Midcult. Con una prefazione di Umberto Eco, Prato, Piano B, 2018

https://www.arateacultura.com/

https://it.wikipedia.org/wiki/Niccol%C3%B2_Ammaniti

Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager