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Tra Oppenheimer e Delitto e Castigo: l’eterna e disperata lotta contro il senso di colpa

Un articolo di Anna Rivoltella

Senso di colpa e razionalità sono gli estremi di uno dei tanti dualismi irreparabili che caratterizzano l’uomo: non a caso sono il perno dell’ultimo lavoro di Christopher Nolan, capace di attirare al cinema non solo gli animi appassionati di formule fisiche, ma anche gli amanti dei più affascinanti flussi di coscienza di Dostoevskij. La fratellanza tra Oppenheimer e Raskolnikov nasce dunque spontaneamente quando si prende come oggetto d’indagine filosofica lo scontro e l’incontro tra l’ardente umanità e la fredda razionalità che muove le trame di questi due capolavori: Delitto e Castigo (1866) e Oppenheimer (2023).

Tra dovute distinzioni, domande irrisolvibili, azzardate ipotesi e sottili somiglianze è interessante osservare come le riflessioni avanzate a fine Ottocento da uno scrittore russo vissuto in povertà possano essere ricondotte ad un film da quasi novecento milioni di dollari d’incasso. Per concludere che, forse, l’Oppenheimer di Nolan non è altro che un Raskol’nikov del nostro tempo e, in fondo, ciò che ha scritto Dostoevskij in passato vale ancora oggi. Le due opere testimoniano due storie di vite tormentate che portano ogni uomo che respiri – qualunque contrasto lo dilani – a preferire sempre “vivere così che morire subito! Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in modo impossibile ma vivere…1 anche se il peso che si porta sulle spalle è uno o duecentomila morti.

Raskol’nikov: quando la filosofia incontra la coscienza

Raskol’nikov

Per capire il paragone proposto con Oppenheimer bisogna porre le basi dell’interpretazione di Delitto e Castigo, poiché, come per tutti i classici, esistono tante letture di significato quanti lettori della storia. In primo luogo, solo spogliando la trama di tutte le sofisticherie è possibile inquadrare l’essenza di questo romanzo: un uomo, Raskol’nikov, uccide l’anziana affittuaria della casa che abita, perché ha bisogno di soldi. Dal piattume di tale vicenda prende spunto la genialità dell’autore e il ruolo ricoperto dalla filosofia all’interno di questo libro. Dopo aver compiuto l’omicidio, premeditato ma non andato esattamente secondo i piani, l’uomo si costituisce senza sfruttare o informarsi sulle ricchezze sottratte alla vittima, unico (apparente) obiettivo della sua azione. Fin qui nulla di nuovo: un reato finito male per l’assassino e bene per la giustizia.

La genialità della creatura letteraria dipinta da Dostoevskij subentra soprattutto nel concetto di colpa e di umanità. Raskolnikov non solo non si pente di aver commesso l’omicidio ma si rammarica di aver confessato. Abbiamo quindi l’immagine di un soggetto che, portato a un atto di sincerità da parte della sua coscienza peccatrice, si pente della sua stessa umanità che l’ha indotto a confessare. Il senso di colpa non si riferisce alla all’uccisione, ma a sé stesso.

Pentirsi di essersi pentito, sentirsi in colpa per il proprio insopprimibile senso di colpa. Questa è la raffinatezza del quadro psicologico proposto dal romanzo. Un quadro che, senza l’introduzione dell’altro lato della medaglia, rimane però incompleto: la razionalità o filosofia, che controbilancia il peso di questa incontrollabile umanità, ha creato un cedimento nel suo stesso piano maligno, portando il nostro eroe a rivelare il suo crimine.

Ad una prima reazione di sgomento in seguito all’omicidio, che innesca nel protagonista un primo istintivo senso di colpa, inducendolo a costituirsi alla polizia, subentra poi un tentativo disperato (perché volto al fallimento) di giustificare la propria azione attraverso la razionalizzazione. La filosofia in questa sede risulta il processo giustificatorio utilizzato dall’uomo per pulirsi la coscienza. Ecco quindi che Raskolnikov arriva a paragonarsi con Napoleone, un esempio di superuomo Nietzschano: se per fare la storia avesse dovuto compiere dieci omicidi in qualche modo essi sarebbero giustificati, perché le vittime andrebbero a configurarsi come un piccolo sacrificio per un profitto molto maggiore. Da tale riflessione discendono vari tentativi di inquadrare il proprio gesto efferato in una cornice che sia in grado di farlo apparire come giustificabile a sé stesso. Non riuscendoci, egli poi diventa il principale accusatore di sé, fremendo affinché qualcuno lo incolpi.

La sua confessione non gli appare però come una liberazione della coscienza, ma è qualcosa di molto peggio. Egli sperava, anticipando il tentativo di una rifondazione morale Nietzschana, che il suo gesto sarebbe stato “al di là del bene e del male”, cioè iniziatore di una morale ad personam adatta al nuovo superuomo. Il fatto che Raskol’nikov non sia riuscito a integrare quel suo gesto all’interno di nessuna filosofia lo ha fatto sentire misero, impossibilitato a diventare uno dei grandi uomini che lui ammirava: subentra, in ultima istanza, il pentimento per la sua stessa confessione. Il senso di colpa per aver ucciso lo ha reso infatti “troppo umano”, quando lui avrebbe voluto essere qualcosa di “oltre l’uomo”, nella speranza di fondare un’umanità sulla razionalità. Non riuscendosi, egli riversa su di sé il senso di colpa per la propria fallibilità, e logora nella commiserazione per l’impossibilità di fuggire alla sua umanità.

Oppenheimer: quando la scienza incontra l’etica

Oppenheimer

Nel film di Nolan, similmente, ci troviamo di fronte ad un uomo dilaniato tra l’amore per la scienza, il piacere del progresso tecnologico, delle scoperte innovative, e la riflessione morale sulle conseguenze di tali traguardi raggiunti. Certamente il personaggio incarnato dal celebre Cillian Murphy è poco scrutabile nella sua coscienza, infatti non è facile definirlo in bianco o in nero sul piano morale. Egli appare palesemente dilaniato dal senso di colpa per aver costruito quella bomba atomica usata a spese di civili innocenti, causando centinaia di migliaia di morti. Allo stesso tempo però, ci sono alcuni istanti in cui la sua razionalità, così come fa la filosofia in Dostoeskij, cerca di convincerlo che ciò che ha fatto sia eticamente neutro, che lui ha solo inventato lo strumento, senza usarlo; che lui ha solo consigliato le città da bombardare, senza premere il pulsante. Ha solo eseguito, non ha comandato, ha agito per amore della scienza, per ambizione professionale, per rispetto dell’innata tendenza umana alla scoperta e alla conoscenza.

Anche in questo caso però, nemmeno lui sembra trovar pace nei suoi stessi tentativi di difesa filosofica: dichiara di essere diventato Morte, distruttore di mondi. Egli palesa così, nonostante i tentativi giustificatori portati avanti dalla ragione, la sopraffazione di un’umanità che si dichiara colpevole di fronte all’uccisione di suoi simili. Persino il presidente Harry S. Truman nel film ribadisce, quasi con fierezza ed onore, di essere lui il mandante dell’esplosione, che Oppenheimer non è nessuno in confronto, e che quindi farebbe meglio ad abbandonare il senso di colpa: la colpa la vuole tutta il presidente, vedendo in essa un merito e un vanto.

Anche se in un primo momento Oppenheimer appare ristorato da tali rassicurazioni, è percepibile come i suoi ragionamenti e quelli di chiunque altro, non possano alleviare le pene che la sua coscienza, indicata come la sua umanità, gli sta facendo passare. Essendo l’inventore della bomba, si identifica come il carnefice delle sue vittime, alimentando in sé un senso di colpa che l’onore di creare l’atomica in nome della scienza non riesce ad alleviare.

Il verdetto: è possibile una redenzione?

Come tutti i grandi quesiti esistenziali, sarebbe troppo banale rispondere come se ci fosse una crocetta giusta da tracciare con la matita della ragione. Infatti, di fronte al medesimo abisso di domande aperte sia dal film che dal libro riguardo alla dialettica tra ragione e senso di colpa, tra filosofia e istinto morale, tra razionalità e umanità, nessuno dei due artisti fa seguire un punto fermo all’interrogativo. Però, sono rintracciabili sfumature ancor più soddisfacenti che consentono almeno due possibili vie.

In Oppenheimer, grazie al finale, è possibile percepire una sorta di auto condanna: il protagonista sentenzia al collega Einstein di aver innescato un’imminente reazione a catena di armi nucleari. La vittoria del senso di colpa sulla giustificazione razionale la si avverte dal verbo che egli usa: “l’abbiamo fatto”. Egli si sente partecipe, iniziatore e colpevole di tutte quelle distruzioni che le sue invenzioni causeranno, senza che ci venga lasciato, almeno su schermo, un indizio di alleviamento di pena.

Nella vicenda di Raskolnikov invece, dopo esser stato condannato ad otto anni di lavori forzati, trova salvezza nell’amore e nella trascendenza, nella lettura del Vangelo. Questa luce in fondo al tunnel viene trovata quasi inaspettatamente: “Egli non immaginava nemmeno che quella nuova vita non l’avrebbe avuta così, gratuitamente, l’avrebbe dovuta pagare a caro prezzo, avrebbe dovuto riscattarla in futuro con delle grandi azioni…2

Sono queste grandi azioni, suggeriteci da Dostoevskij stesso come spirituali, ma incanalabili in infiniti scenari, a portare un po’ di sollievo all’uomo con la coscienza sporca. In un mondo dove ragione e colpa sono spesso in contrasto, dove si vorrebbe razionalmente spogliarsi dei tormenti che infestano la mente, bisogna ammettere che l’umanità vince sempre, e ogni tentativo di sopprimerla attraverso delle scuse è fallimentare. Non ci resta che lasciare che il senso di colpa ci guidi verso la nostra personale redenzione – spirituale o meno che sia -, per riscoprirlo poi, non più come guida, ma come bagaglio. E seguire il sentiero di una ragione non come giustificatrice di cause perse ma come creatrice di nuove storie.

  1. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, pag. 188 ↩︎
  2. F. Dostoevskij, pag. 569 ↩︎
Anna Rivoltella

Redattrice di filosofia