Psicologia,  Storia e Società

Psicoeducazione e cambiamento: conoscere è abbastanza?

resistenza al cambiamento

Chiamiamolo sviluppo psichico, potenziamento delle abilità mentali o più generalmente crescita personale: chi intraprende un percorso di terapia va incontro ad una conoscenza di sé e dei propri processi mentali giovando dell’apprendimento di vie alterative del pensare e del sentire. I benefici portato da questo cambiamento si percepiscono nel quotidiano e hanno in egual misura un riscontro neurofisiologico. Secondo le osservazioni di neuro-imaging funzionale del premio Nobel Eric Kandel (1999), la terapia porta a trasformazioni funzionali, e quindi strutturali, dei neuroni stessi, permettendo il rafforzamento di nuovi legami sinaptici: una vera e propria forma di apprendimento.

La psicoeducazione, attributo fondamentale e irrinunciabile di diversi approcci terapeutici, consiste nel fornire una serie di informazioni circa la natura e la gestione di un determinato disturbo o fenomeno psicologico. In ambito clinico si incontra di frequente una sofferenza in gran parte dovuta alla mancata comprensione del proprio vissuto emotivo: non riuscire a identificare con chiarezza le sensazioni di disagio, né perché siano presenti o come poterle fronteggiare non fa altro che alimentare nell’individuo uno stato di vulnerabilità angosciosa.

Psicoeducazione: nessuno escluso

Questa specifica forma di educazione risponde all’esigenza del paziente e della sua famiglia di conoscere sintomi, fattori scatenanti, possibili metodi di trattamento ma anche quali tipi di condotte mettere in atto al fine di ridurre gli effetti e le complicanze del quadro psicopatologico in questione

Sapere diventa la conditio sine qua non che permette di attribuire un senso a quel che ingarbuglia la mente. In questo modo, la psicoeducazione rappresenta il principale intervento a sostegno del diritto fondamentale del paziente e di ogni essere umano: il diritto all’informazione.

I primi sviluppi del trattamento psicoeducativo risalgono agli anni ’80: per la prima volta i familiari dei pazienti schizofrenici venivano “istruiti” per fronteggiare le problematiche causate dalla sintomatologia manifesta della patologia. Il coinvolgimento della collaborazione familiare nei processi psicoeducativi si rivelò essenziale nella prevenzione delle ricadute e per gestire il carico emotivo legato alla situazione (Falloon, 1992) anche per quanto riguarda disturbi bipolari, depressivi e della personalità (Ball et al., 2006; Perry et al., 1999). Negli anni a seguire l’intervento si è rivolto direttamente al paziente stesso, il che non solo ha permesso di renderlo consapevole rispetto ai processi caratterizzanti della patologia, ma di farlo diventare attivo e responsabile all’interno del percorso di cura.

Implicazioni della diagnosi

Nella comunicazione della diagnosi si condensa l’essenza di questo processo conoscitivo in un momento tanto importante quanto delicato. 

La diagnosi psicologica, così come la definisce American Psychiatric Association & Association (APA) (2013) prevede: «[…] la valutazione di comportamenti e di processi mentali e affettivi anormali, che risultano disadattivi e/o fonte di sofferenza attraverso la loro classificazione in un sistema diagnostico riconosciuto e l’individuazione dei meccanismi e dei fattori psicologici che li hanno originati e che li mantengono».

Il disagio sperimentato dal soggetto rispetto alla problematica lo porta spesso a vivere un’intensa percezione d’inefficacia personale, associando alla propria sintomatologia un senso di vergogna e incomunicabilità della sofferenza stessa. Una descrizione del proprio quadro psicopatologico contestualizzata alla specifica problematica portata in seduta fa si che alcuni pazienti riescano più facilmente a riconoscere, capire e orientarsi nei diversi vissuti emotivi e comportamentali. 

Sapere che il proprio malessere ha un nome, che è stato studiato scientificamente e che altre persone hanno già provato le stesse sensazioni negative permette al soggetto di percepire la terapia come una dimensione protetta di crescita nella quale spetta a lui mettersi in gioco in modo attivo e collaborativo. A questo punto, dalla relazione tra psicologo e paziente inizia a prendere forma la cosiddetta alleanza terapeutica, l’elemento fondamentale alla base dell’efficacia di ogni trattamento.

Cambiamento e resistenza al cambiamento 

Abbracciare il cambiamento dovrebbe rappresentare il passaggio più prossimo e spontaneo una volta forniti i presupposti necessari da parte di un buon terapeuta; ma come si spiega il fatto che cambiare resti uno degli step più ardui perfino all’interno di un percorso terapeutico? Si può desiderare il cambiamento, ma l’idea di un’alterazione di sé, del luogo in cui viviamo, delle nostre amicizie o della propria routine, per quanto possa essere stimolante, desta in modo più o meno intenso un certo timore.

Il cambiamento lo si teme perché presuppone inevitabilmente l’incognita del rischio per cui non si può prevedere se sarà benefico o dannoso, ma anche una certezza: l’innovazione che porterà prevede l’abbandono della condizione precedente. Ecco che, accanto al naturale processo del cambiamento, si oppone quello della resistenza al cambiamento, un fenomeno tanto necessario e intrinseco all’esistenza quanto il primo.

«Ogni essere vivente ogni volta che raggiunge un’ omeostasi, un equilibrio, tende a resistere al cambiamento. Una patologia, per quanto possa esser bizzarra, è un’omeostasi che si è stabilizzata e da quanto tempo più è in corso più è strutturata l’omeostasi».

Giorgio Nardone

Il perseverare attraverso una dimensione che differisce da quel che è un sano funzionamento è manifestazione del vantaggio secondario di ogni “malattia”: restare nella propria comfort zone, che per quanto invalidante rappresenta una condizione di sicurezza, permette di evitare la frustrazione che il soggetto sperimenterebbe dall’impatto col nuovo. 

Questa coazione a ripetere rende il mutamento un passaggio ostico soprattutto quando consiste nel processo della cura, ovvero nella rottura di un meccanismo disfunzionale che nel suo persistere si è assodato nel pensiero e nell’agire. Tutto ciò implica la rinuncia da parte dell’individuo dell’insieme di credenze che hanno sostenuto quegli aspetti la cui cronicizzazione ha portato allo sviluppo di un quadro psicopatologico.

Conoscere è abbastanza?

Conoscere le basi delle proprie dinamiche mentali disfunzionali, sapere di essere soggetti ad un disturbo essendo al corrente dei sintomi e delle rispettive cause aiuta ad intraprendere la strada per uscirne? Tale consapevolezza è sufficiente a promuovere il cambiamento?

La terapia nel suo corso fornisce gli elementi per passare da una condizione patologica a una sana e funzionante. Intervenire su un circolo vizioso per trasformarlo in virtuoso, però, non può che generare nel soggetto una dissonanza cognitiva tra quel che è sempre stato il proprio funzionamento e una prospettiva tanto differente da non essere disposti ad assumerla inizialmente.

A questo punto si comprende come informare il paziente attraverso un intervento psicoeducativo può produrre in un primo momento l’effetto contrario a quello desiderato. 

Come spiega Giorgio Nardone: 

«Se io spiego, illustro, lavoro solo sulla conoscenza non solo non riduco le resistenze ma le incremento perché allerto ancora di più il sistema del fatto che verrà cambiato».

Considerando la resistenza al cambiamento come fattore costante, è chiaro come una mera spiegazione consisti nel trasmettere un sapere che il paziente recepisce a livello corticale – laddove ha luogo la prima elaborazione delle informazioni sensoriali e sede di funzioni come memoria, comprensione del linguaggio, capacità logiche e decisionali e così via – e non raggiunga il profondo della sua parte più emozionale. 

«È quando entra in campo la consapevolezza che subentra anche la crisi».

Franco Battiato

Ogni informazione viene processata rapidamente a livello subconscio per poi essere successivamente analizzata in modo consapevole dal pensiero razionale. Oggi le neuroscienze dimostrano che il passaggio dalla corteccia (razionalità) al paleoencefalo (sede più primitiva dell’emotività) è estremamente più difficile e improbabile rispetto al passaggio dal paleoencefalo (emotività) alla corteccia (razionalità).

Nardone conclude il suo pensiero così:

La spiegazione non è quasi mai fonte di cambiamento perché lavora sulla coscienza mentre sappiamo che i cambiamenti importanti hanno bisogno di passare attraverso il paleoencefalo, l’emozionalità

Il potere dell’esperienza

Al cambiamento la consapevolezza non basta, spiegare non è abbastanza ma bisogna colpire dritto alle emozioni. Per questo lo psicanalista Franz Alexander parla di esperienza emozionale correttiva mettendo in secondo piano l’introspezione. Il principio terapeutico da lui proposto si basa sull’esporre nuovamente il paziente a situazioni che in passato non fu in grado di affrontare al fine di risanare l’influenza traumatica di tali vissuti negativi. Questo tipo di esperienza da al soggetto l’opportunità di rivivere, con l’aiuto del terapeuta o attraverso circostanze di vita più favorevoli, quelle situazioni emotive che precedentemente erano intollerabili. 

L’esperienza in sé è la componente principale dedita al modellamento dei circuiti nervosi che generano forme di apprendimento. Ogni alterazione a livello cerebrale vede in concomitanza cambiamenti nell’attività elettrica che si traducono a loro volta in fattori molecolari che promuovono il rafforzamento nel tempo della comunicazione fra cellule nervose.

Se apprendere coincide con il vivere in prima persona un’esperienza emotivamente saliente intesa come l’incontro di punti di vista alternativi, l’esperienza stessa diventa la chiave di svolta per un cambiamento efficace e duraturo.


Bibliografia:

Gabbard “Le psicoterapie” Raffaello Cortina Editore, 2010.

Kandel.La biologia e il futuro della psicoanalisi: una rilettura di “Un nuovo contesto intellettuale per la psichiatria”, pubblicato nel 1999 sull’”American Journal of Psychiatry

I. R. Falloon, Intervento psico-educativo integrato in psichiatria, Erickson, Trento, 1992.

 Alexander F., French T.M. et al., 1946. Psychoanalytic Therapy: Principles and Application, Ronald Press, New York.

Sitografia:

https://www.gqitalia.it/news/article/franco-battiato-maestro-di-vita-intervista-gq-2008

https://www.treccani.it/enciclopedia/corteccia-cerebrale_%28Dizionario-di-Medicina%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/paleoencefalo_res-ae66f053-9b56-11e1-9b2f-d5ce3506d72e_%28Dizionario-di-Medicina%29/


https://www.arateacultura.com

ABSTRACT

Essere a conoscenza della propria condizione mentale è la conditio sine qua non che permette di attribuire un senso a quel che ingarbuglia la mente. Fornendo una serie di informazioni circa la natura e la gestione di determinati aspetti psicopatologici, la psicoeducazione rappresenta il principale intervento a sostegno del diritto fondamentale del paziente e di ogni essere umano: il diritto all’informazione. Ma conoscere i sintomi e le possibili cause di un fenomeno psicologico disfunzionale è abbastanza per riuscire ad affrontarlo? Tale consapevolezza è sufficente per promuovere il cambiamento? Quando supporto, emozionalità ed esperienza vissuta in prima persona possano fare la differenza.

Linda Barberis

Redattrice in psicologia