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Ti faresti la ragazza del tuo migliore amico? – Desiderio e insoddisfazione spiegati dalla filosofia

Introduzione

Nella scena in copertina, tratta dal film C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, uno dei protagonisti Gianni Perego (Vittorio Gassman) è al ristorante col suo amico e commilitone Antonio (Nino Manfredi) e la ragazza di quest’ultimo, Luciana Zanon (Stefania Sandrelli). Gianni e Luciana s’innamorano al primo sguardo. A questo punto del film la narrazione si sposta sui dialoghi interiori di Luciana, che dichiara il suo amore per Gianni e di Gianni che dichiara a sua volta il suo amore per Luciana. Ma la cosa più interessante, secondo mio modesto avviso, non è tanto che i due si siano innamorati con il classico “colpo di fulmine”, quanto piuttosto la domanda che Gianni, parlando nella sua testa con Luciana – e in realtà a se stesso -, pone.

Sceglieremo di essere onesti o di essere felici?

Perché la scelta è tra onestà e felicità? Gianni, se vuole Luciana, dovrà tradire il suo amico Antonio. Se scegliesse di non farlo – e dunque di essere onesto, in onore del principio “non si rubano le ragazze degli amici” – sceglierebbe però anche la tristezza. Ma per quale ragione dall’altro capo dell’onestà c’è proprio la felicità? Perché, piuttosto, non si è parlato per esempio di cattiveria e bontà? Dovremmo concludere che, se si è onesti, allora non si è felici?

Prima di rispondere alla domanda, è bene specificare qui che quest’analisi è un mio tentativo di scegliere un quesito che, magari, potrebbe sembrare banale all’apparenza, oppure semplice, non così pieno di significato come si vuol far credere. Eppure credo che la questione rappresenti un’ottima sintesi del conflitto tra individuo e società, dal momento che incarna la scelta tra seguire se stessi o le norme morali vigenti. Cerchiamo dunque di indagare e comprendere la scelta di Gianni, che sappiamo ruberà Luciana, preferendo quindi la felicità all’onestà.

Siamo tutti “malati”

Per farlo è necessario riassumere in un paio di righe alcuni fondamenti della teoria di uno dei pensatori più importanti del Novecento: Sigmund Freud. Nei suoi scritti, come vedremo, Freud si è preoccupato di curare quella “malattia che si chiama uomo”, come disse Nietzsche. Parlare di Freud significa innanzitutto parlare del concetto di “rimozione”. Questa è una parola chiave che – potremmo dire – regge tutta l’impalcatura dell’edificio della psicanalisi. Infatti, secondo la prospettiva freudiana, l’essenza della società consiste sostanzialmente nella repressione dell’individuo e l’essenza dell’individuo consiste nella rimozione di se stesso. Come tutti noi ricordiamo da memorie scolastiche o semplicemente per nozioni culturali, la teoria freudiana presuppone che esistano manifestazioni della vita interiore dell’individuo delle quali l’individuo non è direttamente consapevole, per esempio: i lapsus, i pensieri casuali o gli stessi sogni. Insomma, esiste una parte dell’essere umano che all’essere umano non è accessibile, e rimane repressa, rimossa, non cosciente: l’inconscio. Tutte queste manifestazioni, per Freud, hanno un significato; e un significato presuppone uno scopo, un desiderio, un’intenzione.

Una volta scoperto l’inconscio – che per ammissione dello stesso Freud venne scoperto dai poeti prima di lui – l’ipotesi dello psicanalista è la seguente: in un essere umano alcune rappresentazioni inconsce non possono divenire consce “nel modo normale” perché l’Io cosciente le nega, le rimuove, impedisce loro di entrare a far parte della coscienza. Il che significa che tutti noi, a volte, reprimiamo alcuni dei nostri desideri e delle nostre intenzioni, senza nemmeno rendercene conto in modo razionale. Tant’è vero che, secondo Freud, gli stessi sogni sono desideri insoddisfatti. Quando questi desideri prorompono nella vita quotidiana senza il nostro assenso, parliamo di sintomi nevrotici. Ma anche il sogno, in un certo senso, è un sintomo nevrotico. Perciò potremmo addirittura arrivare a dire che, di notte, tutti noi siamo un po’ pazzi.

Il punto è che tra la normalità e l’anormalità non c’è una distinzione qualitativa (non possiamo distinguere tra matti e non matti: siamo tutti nevrotici), ma una differenza quantitativa, vale a dire se la nevrosi è tale da impedirci di vivere quotidianamente in armonia con la società. Chiamiamo pazzi i vagabondi che parlano da soli soltanto perché ci appaiono in disarmonia con la società. Quanto a noi stessi, fin quando la nostra nevrosi ci consente di vivere in armonia con la società, non rappresenta – forse – un problema. E’ questa, probabilmente, la parte più “scandalosa” del pensiero di Freud: la postulazione della nevrosi universale dell’umanità, l’idea che a guidare l’uomo non sia tanto il pensiero – con buona pace di Platone, Cartesio, Hegel – ma il desiderio.

La rimozione colpisce i sentimenti, i desideri: sono essi a guidarci, più che la ragione. L’uomo per natura è quell’animale che, come bisogno fondamentale, ha quello di trovare un oggetto soddisfacente per il suo amore. Perciò quando Freud parla di libido e di sessualità non intende – e sarebbe banale pensarlo – il fatto che tutti vogliamo fare sesso, ma si riferisce piuttosto a quell’energia presente nell’individuo che ha origine dal desiderio. L’origine della spinta erotica, infatti, si ritrova già nei bambini, che pur sono biologicamente inadatti ad avere rapporti sessuali. Freud, come Spinoza, ha intuito che nell’uomo è presente questo “conatus”, questa energia che deve essere utilizzata, sperimentata, conosciuta, e ha anche capito che la sua repressione è causa di insoddisfazione.

Dal momento che questo desiderio, come abbiamo detto, si contrappone alla ragione, si potrebbe concludere che nell’uomo l’aspirazione alla felicità e alla realizzazione dei desideri, è in conflitto con il mondo intero. Nel mondo vi sono valori morali e precetti che ci influenzano e ci impongono di rinunciare al piacere, proprio come “non rubare la ragazza del tuo migliore amico”. Sono proprio quelli a originare la rimozione e a reprimere il nostro inconscio.

Gianni deve scegliere tra essere felice, realizzare il suo desiderio, oppure seguire l’Io cosciente che per la sua struttura è ciò che ci consente di adattarci all’ambiente e di vivere in armonia con la società, con gli altri, e quindi di non contravvenire al precetto morale del “non rubare la ragazza del tuo amico”.

Relazioni pericolose

Considerato uno dei capolavori della letteratura francese Le relazioni pericolose (1782) di Laclos è un romanzo epistolare che narra le vicende di due libertini della nobiltà francese: il Visconte Valmont e la sua sfrenata amica, la Marchesa de Merteuil. Questo romanzo è un rovesciamento di quel gioco di valori di cui si parlava sopra. La relazione tra il Visconte e la Marchesa mette in scena il codice libertino al quale i due aderiscono: gli amori liberi, i giochi di possesso, la messa in scena di strategie unicamente rivolte alla conquista e nulla più. A un certo punto, però, il Visconte si trova davanti ad una donna più difficile del previsto: Madame de Tourvel, una donna casta e virtuosa, ma soprattutto sposata. Il Visconte vede in lei la sfida più difficile della propria vita e “gioca” a fare finta di innamorarsi di questa donna, solo per scoprire se riuscirà a conquistarla. A furia di fare finta, però, il Visconte finisce per innamorarsi davvero di questa donna, la quale a sua volta si consegna all’amore del libertino.

L’amica Marchesa de Merteuil, che viene presentata come una donna intelligentissima e molto esperta nell’arte d’amare, intuisce immediatamente le vere intenzioni del Visconte. Ossia comprende che l’amico vuole tradire “il codice libertino” per dedicarsi all’amore, che vuole, in un certo senso, “disobbedire al codice morale della società libertina”, per seguire il desiderio di un amore monogamo. La Marchesa allora convince il Visconte a tornare sui suoi passi e a lasciare la donna amata che, profondamente indignata, si ritira in convento. Queste le parole della Marchesa al Visconte, dopo che quest’ultimo ha scaricato Madame de Tourvel:

Sì, Visconte, voi amavate molto la signora di Tourvel, e l’amate molto ancora; l’amate da pazzi, ma siccome mi divertivo a farvene vergognare, l’avete coraggiosamente sacrificata. Ne avreste sacrificate mille piuttosto di sopportare una derisione. Ecco dove ci porta dunque la vanità! Ha perfettamente ragione il saggio quando dice che è la nemica della felicità.

Il Visconte quindi tra onestà e felicità sceglie l’onestà, cerca di rimanere fedele al suo ruolo, alle obbligazioni morali che – seppur in modo parossistico – i suoi valori gli impongono. L’episodio insegna alla perfezione che la felicità coincide con il desiderio, ma che il desiderio non coincide necessariamente con la poligamia e il tradimento, e che si può contrapporre a qualsiasi codice morale, per quanto parodistico. Al contrario, Gianni Perego sceglie di venire meno ai valori del suo tempo e si dirige verso la felicità, che trova nella ragazza del suo migliore amico.

Fine

Il Visconte muore in un duello cavalleresco legato ai suoi peccati del passato. Gianni finisce a vivere da solo nella sua casa extralusso, abbandonato da tutti. L’uno ha seguito le norme morali, l’altro ha seguito il proprio desiderio. Ma allora, a questo punto, quale può essere la risposta alla domanda: cosa si deve scegliere tra essere onesti ed essere felici?

Ad un primo livello potremmo liquidare la questione affermando che, tanto, le azioni umane sono infondo tutte vane e moriremo tutti. Quindi: chissenefrega. In realtà, ad un secondo livello, potremmo dire che la differenza fondamentale tra il Visconte e Gianni Perego è che il secondo ha seguito se stesso, ha seguito le proprie inclinazioni, ed è vero che alla fine rimane da solo, ma almeno la sua vita se l’è scelta lui: una vita certamente amara, inquieta, ma giocata secondo le proprie regole.

Il Visconte, invece, aveva trovato tutto quello di cui aveva bisogno per redimersi dalla vita dissoluta e per continuare ad obbedire ad un codice che non sentiva più suo, ma di cui sentiva la pressione. Al contrario di Gianni, il Visconte muore amando disperatamente ciò che aveva perso e desiderato. Gianni in un certo senso è meno “vanitoso” di quanto lo sia il conte. È pronto a subire il ridicolo o il disprezzo per la propria scelta, consapevole che quantomeno la scelta sia sua. Il Visconte, invece, è troppo legato al proprio ruolo nella società. Le sue scelte procedono lungo binari prestabiliti.

Sia cercare di rimanere identici a se stessi sia cambiare è un grande prezzo da cambiare. In entrambi i casi si rischia di distruggere tutto. Ma c’è una consolazione: nel caso in cui si opera come Gianni, si sceglie ciò che si è voluto e non ci viene dettato dall’alto. È nostra, quella distruzione.


https://it.wikipedia.org/wiki/C%27eravamo_tanto_amati_(film)

https://it.wikipedia.org/wiki/Le_relazioni_pericolose_(romanzo)

https://www.arateacultura.com/

Felice La Peccerella

Redattore di Filosofia