Critica di Poesia,  Letteratura

Archivio del bianco: storia di un’anastilosi.

Di Anna Rita Ambrosone

Copertina di “Archivio del bianco” di Stefania Onidi

Introduzione

L’anastilosi, dal gr. ἀναστηλόω «riedificare», è un termine utilizzato in archeologia «per indicare la ricostruzione di edifici, ottenuta tramite la ricomposizione, con i pezzi originali, dell’antica costruzione». Carmen Pellegrino, autrice di La Felicità degli altri, edito La nave di Teseo nel 2021, parla di anastilosi per descrivere quel processo di ricostruzione che una persona talvolta deve fare per superare un trauma e, finalmente, ritornare a vivere.

Leggendo Archivio del bianco, mi è sembrato di riconoscere lo stesso percorso di ascesa interiore. Il volumetto, più che una raccolta poetica, sembra costituire un vero e proprio organismo vivente, dotato di pulsazioni proprie. A differenza delle raccolte liriche – caratterizzate talvolta da temi diversi e prive, dunque, di un reale nesso narrativo – questo libro ha una linea narrativa ben chiara, come sottolineato nella postfazione:

Per “linea narrativa” intendo una serie di corrispondenze, riprese, cadenze, ritornelli, rime interne, una direttrice di sviluppo che renda il volume non una semplice di sequenza di testi, ma un insieme coerente. Poi ci dev’essere una voce: un timbro che faccia distinguere quel poeta tra mille altri. In Archivio del bianco li ritrovo entrambi.

Pasquandrea Sergio, Il rimo, lo spazio, la voce: qualche appunto su Archivio del bianco, in Onidi S., Archivio del bianco, Lecce: Terre d’ulivi edizioni, 2020, pp.69-71.

Dunque, i testi tengono conto dell’insieme e dell’ordine che l’autrice ha dato, in quanto, se estratti da quell’ordinamento, perdono la loro caratteristica. I testi quasi costituiscono strati psicologici in cui il ricordo interagisce con il presente, al fine di garantire al soggetto il superamento dei vecchi traumi e, di riflesso, una sua ricostruzione elemento per elemento.

Caratteri generali

Prima di entrare nel vivo dell’opera, è necessario ripercorrere i caratteri generali che la caratterizzano. Archivio del bianco è l’ultimo prodotto poetico di Stefania Onidi, pubblicato nel 2020 con i tipi “Terra d’ulivi edizioni”.

La copertina del libro ritrae una pittura a inchiostro su carta della stessa Onidi che – da sempre – coniuga l’arte dello scrivere all’arte del dipingere. L’opera pittorica è intitolata “Asemic” che riconduce a un tipo di arte astratta che è priva di una specificità di significato e, così come la scrittura asemica, lascia che sia l’osservatore a interpretarla come crede. Difatti, l’immagine è caratterizzata da tratti – più o meno intensi – che escludono colori vivaci in grado di suscitare emozioni chiare. A padroneggiare sono il bianco e il nero, due colori assolutamente neutri – aggettivo non del tutto casuale, vista la ricorsività dello stesso nei versi.

Assume questo carattere anche la sua scrittura poetica? Il titolo dell’opera sembra piuttosto svelare i caratteri identitari del percorso di cui la Onidi è scrittrice e, allo stesso tempo, protagonista.  Pertanto, il bianco sembra costituire per l’autrice la perdita dell’identità e di punti di riferimento.

Di questa casa che è solo un promemoria

la scenografia è neutra.

Dovrei appendere alla parete quella nostra foto

in cui sorridiamo.

Ivi, p.16

L’archivio, invece, potrebbe costituire l’insieme dei ricordi che la conducono a scavare in quel bianco al fine di ritrovare un po’ di colore, il cui colore rifornisce di sempre nuova energia la vita della Onidi pittrice.

Riciclare il ricordo quanto basta

o giusto il tempo per programmare

l’evasione.

Ivi, p. 22

Dunque, come in tutti i percorsi di crescita e rinascita, bisogna partire dal basso, affogare nel mare nero della propria esistenza e dei propri ricordi per ritrovare quello slancio vitale che ci riporti a galla e, finalmente, alla riva. Infine, l’ultimo carattere generale dell’opera è la suddivisione interna del libro. Cinque sono le sezioni di cui si compone: dentro e fuori, a margine, campiture, tele e armature e germogli e rivoluzione. Una climax ascendente che descrive il percorso che Stefania Onidi fa per risorgere dalle sue stesse ceneri, dopo aver bruciato.

Incipit

La prima sezione – dentro e fuori – ritrae un Io instabile e solitario, intento a rialzarsi dopo essersi spezzato e sbucciato un ginocchio. Viene introdotto un primo colore della tela che campisce la Onidi in questi versi: il rosso che richiama alla vita, alla salute fisica e, forse, anche alla passione intesa come sofferenza.

Cado mi sbuccio

il mio interno è rosso

sgorga veloce e brillante

si ricompone denso

indurisce.

La sua crosta è un ricamo,

dice che sono in salute.

Ivi, p.10

L’ultima poesia riflette la tensione dell’io verso un tu che, però, non si fa presenza: difatti, l’io rimane bloccato nella sua solitudine.

Ho sentito la tua lingua muoversi

tra i meati della mia carne

e il rosso laccato della mia solitudine […].

Ivi, p.11

Lo scenario di questo incipit sembra essere il presente – privo di slanci vitali – che la poetessa vive. È da qui, da questo presente neutro e insignificante che la Onidi parte per inaugurare un viaggio all’indietro, con la speranza che la conduca a una risoluzione finale e definitiva. 

L’evoluzione del discorso poetico

Come sopraddetto, con la seconda sezione Onidi ripercorre un passato che, con la forza della sua voce, aiuta i lettori a ritrovarsi a ogni bivio. In prima battuta, abbiamo un contesto temporale preciso: settembre, il mese che inaugura una stagione che l’Io definisce primavera inversa:

Primavera inversa

la passione delle prime foglie

rode l’aria

poi un cadere preciso

su una strada vuota e zitta.

Ivi, p.15

Settembre ha notti premature

i tuoi pugni stringono il silenzio.

Un piatto caldo a cena.

Ivi, p.20

All’immagine delle giornate che si accorciano con l’avanzare dell’autunno, si affianca l’immagine dei pugni che stringono il silenzio e, dunque, un agire invano da parte di un tu. A una stasi necessaria dettata dai cicli naturali delle stagioni, si affianca un’immobilità forzata di un soggetto che, pur provando emozioni, non può reagire agli accadimenti.

Ma cosa accade davvero?

La ricorsività del corpo nel testo

Tanti sono i frammenti di storie che si avvicendano nelle poesie – o frammenti di un’unica storia – in cui protagonista è il corpo.

Sopravvivere ogni giorno alla stessa ora

mettersi in salvo in uno stormo di aerei

uccelli senza coordinate.

Vie d’uscita inconsuete.

Corpi che si muovono in stanze fredde

esposti alla notte.

Ivi, p.21

Mi mordo la lingua per ammaestrare una nostalgia

altissima. Penso alla pressione

dei tuoi denti contro i miei

come un vibrare di zolle.

Un assestamento

come se la potenza del cosmo convogliasse

tutta

verso il centro di uno spazio intimo.

Ivi, p.26

Non eravamo sincroni

dovevi capirlo dai piedi

dai polsi dalla vena sul collo.

Dovevi guardarci.

Io chiudevo gli occhi per forzare la visione.

Ivi, p.31

Vederti sull’orlo del precipizio

con occhi di cane e denti aguzzi.

Non avevamo lo stesso respiro.

Mostrami le lunule delle unghie

per sapere come stai.

Dovevamo rispettare la fisiologia

tenere in salute gli apparati.

Le consegne del tempo sono puntuali.

Ivi, p.32

Quasi con ferma e razionale ossessione, le poesie sono dominate da riferimenti ai corpi, corpi che si avvicinano, si toccano e poi si separano non riconoscendosi più. Percepibile è la sofferenza che questi corpi che si avvicendano hanno subìto – fisicamente e moralmente. Una sofferenza che si riconosce nel rosso delle ferite che vengono provocate e che costituiscono metafora delle ferite dell’animo che l’io ha accumulato nel passato, pur senza agire per mettersi al riparo dai colpi inferti da un tu, presente ma, nello stesso tempo, sempre più distante.

Il corpo domina anche la terza sezione, in cui l’autrice richiama donne famose o perché pittrici dalla fama internazionale o perché amanti e compagne di pittori celebri o perché modelli dei ritratti di questi ultimi. Dapprima Jeanne Hébuterne – pittrice francese – di cui l’io richiama gli occhi da niente nel celebre ritratto che Antonio Modigliani – suo marito – dipinse. Segue Wally Neuzil, amante di Egan Schiele e, anch’essa soggetto dei ritratti dell’artista. Infine, i riferimenti al mondo dell’arte femminile si chiudono con Emily:

Un distacco lento

stringe forte le gambe fino a disfarsi.

Il seno in controluce si solleva e si abbassa

dalla finestra entrano api e trifogli

un trionfo del mondo nella stanza altissime

l’esterno nell’interno

qualcosa che ingravida.

Produce.

Si è vestita di bianco, ha sorriso.

Ivi, p.40

È probabile si tratti di Emily Carr, pioniera dell’arte moderna canadese, nota per i suoi dipinti sulla natura. Difatti, nella poesia molteplici sono i richiami ad ambienti esterni che fanno capolino all’interno di uno spazio chiuso. Di nuovo ritorna l’immagine della finestra che avvicina l’esterno all’interno, l’infinito al definito. Nuovamente ritorna il colore bianco che, piuttosto che rappresentare il vuoto, è probabile che costituisca la metafora dell’indipendenza dell’artista, la quale – a differenza delle altre donne citate prima – ha preferito l’arte al matrimonio. Dunque, il bianco potrebbe rappresentare l’esclusiva unione dell’artista con la propria arte. A questa immagine di una donna completamente libera da convenzioni si lega l’ultimo quadro che conclude la sezione: la Venere di Dresda.

Le déjeuner sur l’erbe

È nuda a fianco ai due.

Senna fame ginocchia.

-Pensava alla venere di Dresda

a quelle dita poggiate sul sesso

scoperto. Ha disonorato il modulo classico

sbagliato il chiaroscuro e la prospettiva.

È carne soda non vede

ma sa di quel braccio

allungato verso di lei

potrebbe trovarselo in mezzo alle gambe

come una chiave che gira.

Potrebbe sudare perdere quella smorfia severa

smettere di guardarmi.

Ivi, p.45

Il dipinto descritto nei versi è la Venere dormiente, realizzato nel 1510 da Giorgione e, in seguito, ripreso da Tiziano. Attualmente conservato nella Gemäldegalerie di Dresda, esso raffigura una donna dormiente completamente nuda, la cui posa rilassata – più che sensuale – rappresenta una completa simbiosi del corpo con la natura. Difatti le morbide curve del suo corpo sembrano riprendere i tratti tondeggianti delle colline sullo sfondo. Dunque, nella generale interpretazione del quadro, la Venere dormiente non è desiderosa di offrire la sua nudità a uno sguardo altrui, piuttosto il sonno richiama un altro mondo, quello onirico, nel quale il corpo e la mente sembrano essere stati trasportati.

Così, tanto l’immagine di Emily, quale donna indipendente e autonoma, quanto l’immagine della Venere dormiente, libera da convenzioni sociali e dal desiderio sessuale, richiamano alla liberazione dell’io dal labirinto della vita.

La scomparsa del tu

Se fino ad ora era evidente la tensione dell’io verso un tu, talvolta violento, talvolta distaccato, ora l’io si libera e inaugura un’ascesa fieramente solitaria.

Esplorare le stanze della perdita

aprire la porta con stipiti fluorescenti

fuggire dal labirinto.

Ivi, p.49

Nella penombra occhi accesi

si respira intimità distanza

nessun confine a definire.

Il dolore ha un palato largo alto

-Saturno divora suo figlio.

Noi sentiamo i morsi.

Le parole rimbalzano

tornano indietro spezzate.

La tela esplode.

La pellicola si riavvolge

cambiando il finale.

S’illumina la scena

(spazio)

nessuna traccia di te al risveglio.

Ivi,p. 50

Il tu scompare, la tela campita esplode, il finale della scena cambia irrimediabilmente. A irrompere sulla scena poetica non è più il corpo – rosso, vivo, sofferente – bensì la morte. La morte che – alla luce della lettura della sezione successiva – non provoca annichilimento o oscurità, bensì nuova vita:

Tutto, si sa, la morte dissigilla.

Sereni V., Le sei del mattino, in Vittorio Sereni. Poesie e prose, Milano, Mondadori, 2020, p.169

Storia di un’anastilosi: ricostruirsi elemento per elemento

L’ultima sezione della raccolta è intitolata Germogli e rivoluzione e si apre con una citazione di Sylvia Plath, ripresa dall’opera Crossing the Water:

I started to bud like a March twig:

an arm and a leg, and arm, a leg.

Onidi S., Archivio del bianco, p.61

Elemento per elemento l’io è giunto finalmente a una risoluzione dei suoi traumi e, dunque, alla sua definitiva ricostruzione. Se all’inizio del libro ci trovavamo al principio dell’autunno, qui siamo in primavera, la stagione in cui la natura germoglia e, con essa, anche gli uomini sono invasi da una gioia nuova. Le giornate si allungano, le temperature diventano miti e per le strade risuonano le grida gioiose di quanti preferiscono l’esterno ad un interno freddo e poco luminoso.

Flos Silens

Sono giorni di ginestre aperte,

api e febbre

finestre al sole

fiducia (silente)

piedi nudi e gatti che fanno l’amore.

Tutto procede con gioia ferma.

Mi allineo al passo vulnerabile del giallo.

Ivi, p.67

Cambia il riferimento temporale e così cambia anche il colore con cui la Onidi dà l’ultimo tocco alla tela fin qui campita. Dal bianco e nero – colori neutri che scandiscono il presente dell’io – si passa al rosso – colore che indica la sofferenza emotiva del passato dell’io – e si giunge infine al giallo – colore che indica il rinnovamento e la fuoriuscita dai classici schemi, stimolando la curiosità per il nuovo.

E così, il cerchio si chiude.

Dalla scrittura allo stile

Come ha riconosciuto Sergio Pasquandrea nella postfazione al volumetto, l’organicità dei testi è garantita dallo stile di Onidi, asciutto ma, allo stesso tempo, ricco. L’attività del ricordo di Onidi si esprime attraverso i colori, attraverso innumerevoli pause – talvolta mai ripristinate – attraverso l’iterazione continua di parole e situazioni che quasi ci sembra di vedere e di vivere insieme a lei.

Così la raccolta assume i caratteri di un quadro, in cui non un solo colore, non una sola pausa, non una sola ripetizione occupano uno spazio casuale. Tutto è al proprio posto, dando al lettore l’idea di essere parte di quel quadro perfetto campito dall’autrice, in cui le parole prendono forza dai colori e viceversa.


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