Cinema,  Letteratura,  Psicologia

Vivere la depressione – Tra Sorrentino e Sylvia Plath

di Marialaura Bergamini

“(…) Non riuscivo a sentire niente. Se mi avesse anche dato un biglietto per l’Europa o per una crociera attorno al mondo, non avrebbe fatto nessunissima differenza per me, perché dovunque sedessi, o sul ponte di una nave oppure a un caffè all’aperto di Parigi o a Bangkok, sarei sempre rimasta là, seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia stessa aria viziata.” (p. 159)

Attraverso questo passaggio di “La campana di vetro” Esther, protagonista dell’unico romanzo della poetessa statunitense Sylvia Plath, ci riporta con estrema chiarezza in cosa consiste la depressione. Limitarsi ad elencarne i sintomi comuni nel tentativo di spiegarne l’essenza sarebbe un gesto d’ipocrisia. Che senso avrebbe parlare “tristezza pervasiva”, “anedonia”, “perdita di energia” o “pensieri di morte” (Rafanelli e Fava, 2016) a chi non è malato, a chi ha avuto la fortuna di restare estraneo alla patologia? Come per ogni disturbo psicologico, ma forse ancor di più nel caso nella depressione, parlare di sintomi senza raccontare cosa significhi viverli per davvero, senza focalizzarsi sul vissuto soggettivo di chi li sperimenta nella propria quotidianità, è come stilare un lungo elenco di malanni e disgrazie altrui che tutti insieme sono difficili da immaginare.

Esther, un personaggio tragicamente vicino alla biografia della propria autrice, ci dice di sentirsi come se si trovasse sotto una “campana di vetro”, metafora calzante del disturbo depressivo. Questa campana di vetro la accompagna ovunque, non importa quanto lontano ella possa andare e quali nuove esperienze possa fare: non farebbe “nessunissima differenza”, rimarrebbe “sempre là, seduta”, “soffocando” nella sua “stessa aria viziata”.

L’idea di depressione che Sylvia Plath cerca di comunicarci è quella di una condizione di immobilità, di impossibilità di sviluppo alcuno, di dolore che arriva ad essere così profondo, così radicato e persistente da avvolgere ogni cosa e annullare volontà e sentimento.

L’aria che si respira sotto la campana è pesante, non la si brama a boccate ma la si inala lentamente, rantolando. Non a caso, nella nuova edizione del romanzo pubblicato da Mondadori, si è scelto di sostituire la parola “viziata” con “mefitica” (p. 167). Questa scelta linguistica enfatizza l’idea del malsano, dell’aria che si fa irrespirabile e rischia di ucciderci se inalata troppo a lungo.

Quando si è depressi è proprio come se sopra di noi scendesse una campana di vetro: essa ci separa dal resto del mondo e ci isola. Esther è una ragazza sola, costretta alla distanza dagli altri, che soffoca sotto gli occhi di tutti. L’isolamento sociale e la sensazione di incomunicabilità sono aspetti centrali della depressione e contribuiscono a renderla una psicopatologia difficile da raccontare, da condividere, da curare attraverso il contatto con l’altro e la relazione psicoterapeutica.

depression

Solo e isolato nella propria condizione di incomunicabilità è anche Cheyenne, personaggio principale del film “This must be the place” di Paolo Sorrentino. Interpretato dall’attore Sean Penn, Cheyenne è una rockstar celebre negli anni ottanta che, una volta finita la propria carriera musicale in seguito al suicidio di due giovani fan, sceglie l’esilio volontario nella sua grande villa.

Un personaggio depresso e ansioso, che non crede più nel potere della musica e nelle persone, e commisera sé stesso definendosi una comune popstar che faceva soldi scrivendo canzoni deprimenti. La relazione con la moglie, l’unico personaggio che sembra essere capace di stare accanto a lui e alla sua malattia, è una relazione distaccata, nella quale amore e tenerezza si mischiano a pietà e preoccupazione per il marito.

Attraverso il personaggio di Cheyenne abbiamo modo di prendere confidenza con i sentimenti di svalutazione e di colpa che si abbattono su chi è affetto da depressione, e con la mancanza di piacere e motivazione verso tutti (o quasi) gli aspetti della quotidianità. Cheyenne passa le sue giornate in attesa, autocommiserandosi e non trovando il piacere e la voglia di nulla, e fin dalla prima scena allo spettatore sono trasmessi il senso di vuoto, angoscia e staticità della sua condizione.

Sorrentino ci propone una persona resa profondamente cinica e nichilista dalla propria narrazione della vita, un disfattista che apre bocca per dire frasi come: “Ci sono molti modi di morire, il peggiore è continuando a vivere.” o “Il vero problema è che passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice “un giorno farò così” all’età in cui si dice “è andata così””. Cheyenne non riesce e non può trovare una narrativa diversa, che gli consenta di ritrovare la speranza e il bisogno del futuro, è diventato rigido nei propri schemi mentali di pessimismo e distacco, evita gli altri e le situazioni sociali, si è dato per vinto e si è ritirato dalla vita.

Il film è però il racconto di un viaggio, del percorso che lo porterà a riscoprire le proprie risorse e il proprio coraggio, nella ricerca del criminale nazista che in passato umiliò duramente il padre detenuto in un campo di concentramento.

This Must Be the Place, Paolo Sorrentino, 2011

Simile ma ben diversa è la sorte di Esther, che arriva a tentare il suicidio e viene trasferita in un istituto di salute mentale. Negli ultimi capitoli del romanzo viene raccontato il suo percorso di “guarigione”, ma ciò che il romanzo fa è alludere al sempre possibile ritorno della depressione: “Ma non ero sicura, non ero sicura affatto. Come facevo a sapere se un giorno o l’altro (…) la campana di vetro, con le sue distorsioni opprimenti, non sarebbe discesa di nuovo sopra di me?”. Ed effettivamente uno degli aspetti della depressione che più inquieta clinici e pazienti è la sua tendenza a ripresentarsi.

Di fatto, come scrivono Aguglia et al., la media per chi soffre di depressione è di “4,3 episodi depressivi maggiori nel corso della vita” e c’è un “incremento della probabilità di ricaduta per ogni episodio addizionale. (…) Circa il 20% degli individui depressi (…) risulta cronicamente depresso, mentre il raggiungimento della remissione completa si ottiene solamente nel 25-30% dei casi” (Aguglia et al., 2011). Questi dati spaventano e devono farlo, così come ci costringono a chiederci perché la depressione sia diventata, negli ultimi anni, “una delle principali cause di disabilità in tutto il mondo” (Gigantesco, 2018).

In “La campana di vetro” emerge una risposta, una critica non velata che attribuisce delle colpe: Esther è incapace di accettare il compromesso, vissuto come opprimente e alienante, con le leggi del comportamento imposte dalla società. La società della spietata America borghese e patriarcale in cui è cresciuta l’ha condotta tra le braccia di psichiatri e infermieri, che si fanno trovare pronti a valutarla, a deciderne diagnosi e prognosi, a decretare il verdetto finale sulla sua condizione.

Il pericolo indicato è proprio quello di ritrovarci soggetti malati in un sistema sociale che acuisce il malessere e pare divorare clinicamente i figli che esso stesso genera e alleva, senza essere portatore di riflessione alcuna su sé stesso e il ruolo che svolge nei processi eziopatogenetici. La psicologia lo afferma chiaramente: la patologia psichiatrica insorge all’interno del proprio contesto sociale, non ha origini squisitamente genetiche. Ne deriva che, se ci si vuole chiedere cos’è che renda la depressione così diffusa e ricorsiva, sia il caso di volgere lo sguardo anche verso le responsabilità delle politiche e dei sistemi socioculturali in cui siamo immersi.

Attraverso la breve analisi di un’opera letteraria e una cinematografica in cui sono presenti personaggi “depressivi”, si è cercato di raccontare cosa significhi vivere il disturbo della depressione, in un’ottica che non si limitasse a descriverne la sintomatologia comune secondo i principali manuali di psicopatologia.

La letteratura e il cinema concedono la possibilità di ritrarre la condizione psichica umana nelle sue infinite forme, creando spazi di incontro con personaggi che simulano il contatto con l’altro: un altro che possiamo sentire particolarmente vicino o lontano da ciò che consideriamo normalità, che può stranirci, accendere in noi fastidi o simpatie, oppure essere portatore di una psicopatologia da conoscere.

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Bibliografia

Aguglia, E., Minutolo, G., Signorelli, M.S., Mendolia, S. (2011) I bisogni non risolti della depressione maggiore. Giornale Italiano di Psicopatologia (pp. 328-334)

Gigantesco, A. (2018, 11 ottobre) Salute mentale epidemiologia nel mondo. Istituto Superiore di Sanità: EpiCentro – L’epidemiologia per la sanità pubblica. Ultimo accesso: 30 ottobre 2022. https://www.epicentro.iss.it/mentale/epidemiologia-mondo

Picardi, A., & Biondi M. (2002) Verso un trattamento integrato della depressione. Rivista di psichiatria, 37, 6 (pp. 284-289)

Plath, S. (trad. it. 1980) La campana di vetro (1 ed), Milano: Mondadori.

Plath, S. (trad. it. 2016) La campana di vetro (2 ed). Milano: Mondadori.

Rafanelli, C., & Fava, G. (2016) Depressione. In E. Savino (a cura di) Manuale di psicopatologia e psicodiagnostica (pp. 127-150). Bologna: il Mulino.

Marialaura Bergamini

Redattrice di psicologia