Arte,  Dialoghi d'arte

La Fluidità della Liberazione – Intervista a Alice Capelli

Il linguaggio artistico di Alice Capelli è fluido, permeabile. E’ fatto tanto di richiami interiori quanto di eloquenti esigenze. Tra tele grezze e azioni performative, la ricerca dell’artista si snoda travalicando ogni confine e, sfuggendo da ogni classificazione, scorre nella narrazione di una consapevolezza tutta umana e nell’affermazione di un’esserci.

Si tratta, dunque, di comunicare il corpo, la vivacità di eros, la primordialità del gesto, coagulando questa via in un segno che si fa traccia e, al contempo, vita della – e nella – stessa opera. Si tratta di mostrare una simbiosi autentica, di liberarsi, di liberare.

Alice Capelli
Alice Capelli, Le mani della cagna

R.: Cara Alice, parto innanzitutto ringraziandoti per questo dialogo. Quello che produci con la tua arte ha grande forza: giochi con il corpo, con l’eros, e con la qualità sensibile della pulsione, con una radicale libertà. Cosa spinge a questa ricerca tanto viva? Che messaggio porta con sé, una denuncia per la liberazione o un bisogno più intimamente soggettivo?

A.C.: Ti ringrazio molto per l’invito, mi fa piacere parlarvi di quello che faccio. Dunque, per risponderti alla prima domanda… effettivamente ho iniziato per una necessità durante l’infanzia. Non ho nessuno in famiglia che avesse un particolare trasporto per l’arte. Solamente il mio bisnonno che ha trasmesso a mio padre il piacere del disegno. Spesso, infatti, vedevo mio papà disegnare dei paesaggi. Da quel veder fare nasce il mio bisogno: quando lo guardavo rappresentare elementi così realistici nel bidimensionale mi si scatenava uno stimolo, un desiderio a creare come  faceva lui. A dare vita a degli elementi e, soprattutto, a dominarli. Penso che questa necessità di fare nasca proprio dal bisogno di dominare qualcosa, di sentirmi “potente”… si, insomma, di avere il potere di riuscire a creare.

Disegnare per me è sempre stato naturale. Ricordo che molto spesso passavo la notte a farlo: mia madre entrava in camera per controllare che dormissi e mi trovava tra matite e fogli. Ci sono molti lavori tra questi fatti da bambina in cui già disegnavo corpi: avevo sempre questa tendenza ad esprimere il contatto fisico. A posteriori vedo che, già da allora, rappresentava il tema più presente in quello che facevo.

A proposito di esperienze scolastiche e disegni… ho un aneddoto interessante legato a questo. Una volta, in classe, disegnai due corpi nudi: un uomo e una donna che si abbracciavano. Malgrado quello fosse il disegno di una bambina di 6-7 anni, i caratteri sessuali dei due erano tutti molto riconoscibili… lascio all’immaginazione la scena di panico che si scatenò, soprattutto tra le insegnanti che, tra l’altro, erano anche suore. Fui subito mandata in presidenza, mentre mia mamma veniva convocata dalla segreteria della scuola. Lei, dapprima preoccupata per la chiamata, fu in realtà piacevolmente colpita dal disegno e si chiese quale fosse il reale problema che agli altri appariva tanto evidente. (Sorride)

Diciamo che questa esigenza di parlare di sessualità, di intimità e del rapporto con l’altro, di fatto, l’ho sempre sentita insita in ciò che facevo. Non saprei nemmeno definire da dove nasca perché è  sempre stato un trasporto continuo. Di certo posso dire che la spontaneità con cui la mia famiglia mi ha sempre parlato di sessualità ha influito non poco.

Crescendo ho frequentato la scuola d’arte e poi mi sono laureata in pittura all’Accademia di Brera. Al liceo ho iniziato a scattare foto durante i rapporti intimi che avevo con i miei partner. Cercavo sempre un aspetto velato e artistico: non mi è mai interessata la rappresentazione cruda della realtà. Voglio rappresentare un aspetto interiore, una sessualità vissuta in modo poetico, e ho ricercato questa modalità di fare soprattutto nella fotografia. Ho sempre voluto evitare di essere troppo esplicita. Questa sorta di serie che ho iniziato al tempo e in modo del tutto inconsapevole, ha poi avuto uno sviluppo. Ho continuato a produrre scatti, creando un album di fotografie ancora inedito -sto aspettando solo il momento giusto per pubblicarlo-. Anche da questo, penso, che si possa capire quanto a fondo mi interessi di questo tema: di fatto ho creato un archivio fotografico che rispecchia la stessa ricerca che porto avanti nella pittura e delle arti visive più in generale, per raccontare del rapporto che ho con il mio corpo e con coloro che mi sono vicini. 

Il mio lavoro ha assunto una forma di denuncia nel momento in cui studiando, vedendo e vivendo, ho compreso il meccanismo culturale -prevalentemente italiano- che sottostà al modo in cui questi temi sono visti. In Accademia, soprattutto, mi sono resa conto di molte cose e la consapevolezza si è accresciuta nel momento in cui ho avuto accesso al mondo del lavoro. Penso ad una performance che ho chiamato “Nota di addestramento a una giovane donna”. In questa, ho camminato per Milano con le caviglie legate da una corda di juta che alludeva simbolicamente alla corda usata per addomesticare gli animali selvatici. Un gesto che voleva denunciare la tendenza impartita socialmente ad essere donne “rispettabili” sin dall’infanzia. Si tratta di una dinamica che ho vissuto nel contesto familiare più allargato e, soprattutto, nell’ambiente scolastico: un meccanismo culturale che, senza rendercene conto, viviamo tutti, quotidianamente. “Nota di addestramento a una Giovane donna” è formato da un manifesto, dalla performance e da un dipinto: nel suo insieme riassume tutto il senso sociale del mio lavoro.

Direi, quindi, che la mia è sì un’opera di denuncia ma, prima di tutto, è risultato di un’esigenza interiore. L’arte deve riuscire  a scavare nel profondo dell’essere umano, sia sul piano comunicativo -proprio del prodotto artistico-, sia in ciò che la ricerca artistica lascia allo stesso artista: una sorta di rapporto simbiotico, direi, tra artista e opera. Ma, per quanto la mia arte sia “politica”, cerco sempre di mostrare il messaggio attraverso la delicatezza. 

Alice Capelli
Alice Capelli, Stracciatella I, Titolo Mestruale, Stracciatella II

R.: Trovo interessante la permeabilità della tua ricerca. Fondi fluidamente mondi tra la pittura, la performance, la fotografia, la body Art: l’azione diventa immagine e l’immagine diventa azione. Penso alla performance “pittura è corpo” su tutte. Cosa ci dici di questa operazione e della definitiva rottura dei confini tra le discipline artistiche? Quanto è allineata a ciò che vuoi comunicare?

A.C.: Per rispondere a questa domanda mi collegherei a quella precedente. “Pittura è corpo” è, in verità, una manifestazione (o una ostentazione) di quello che avviene in pittura. 

Mi spiego meglio: i pittori tendono, di fatto, a dipingere con il corpo… che siano mani, seni, piedi… Da qui, io Io ho semplicemente deciso di mostrare ciò che avviene. Il meccanismo che fa scattare l’esigenza di dipingere è mentale, ma anche corporeo: fisiologicamente c’è un trasporto che fa entrare i simbiosi tra chi produce e il proprio prodotto. In questa azione ho voluto portare alla luce tutto questo.

Trovo essenziale, in questo rapporto simbiotico, anche i segni che restano: gli errori. Tutto ciò nasce come casualità ma che io faccio diventare elemento dominato. Per questo rielaboro le macchie, le ditate, i graffi… tutto ciò che nasce come errore viene tramutato in testimonianza, in memoria del passaggio corporeo e, quindi, valorizzato. E’ un “io sono stato e sono qui”. “Io sto dipingendo” e un “sono stato dipinto”, un tutto e un relazionarsi con la superficie.

Tutto questo avviene in performance come quella sopra citata o come “Strapparmi la buccia”: entrambe si pongono come azioni performative che vogliono descrivere il rapporto tra corpo e superficie. In “Strapparmi la buccia“, per esempio, mi spalmo addosso un materiale che asciugandosi diventa semitrasparente. Lo dipingo e poi lo strappo via dal mio corpo. Lo lascio vivere come elemento singolo o lo  relaziono ad altre opere, attaccandolo sopra esse e creando così un’unica identità.

Tornando alla tua domanda, quindi, direi che tutto, tra modalità e messaggio, viene allineato e risolto. 

Rispetto al discorso sulla rottura delle discipline artistiche penso che questo sia un meccanismo inconsapevole che portiamo avanti tutti. Penso che ciò che mi differenzia da altri artisti, di fatto, sia la trasparenza. Questa viene presentata sia dalla modalità in cui dipingo, da quella fluidità del colore che impiego, sia dalla scelta di mantenere l’impronta per documentare il passaggio. Dietro alle mie opere coesistono sia la riflessione compositiva sia l’istinto del fare. E’ un processo ponderato. Di fatto attendo molto nelle tempistiche di asciugatura, così come, soffermandosi ad osservare, si notano sulle mie opere molte linee strutturali.

Alice Capelli
Alice Capelli, Statica esplorazione del cielo I e II

R.: Nella tua produzione si vedono quadri figurativi e non; tutti marcatamente vitali, energici, espressivi di un flusso che è l’energia del corpo. Collegandomi alla domanda precedente: quanto conta il gesto, il movimento nel e del fare? E, per quanto riguarda il colore, la scelta della palette è istintiva e dettata dal flusso o dettata dal senso della singola opera?

A.C.: Il gesto è essenziale per il passaggio effettivo tra superficie e artista e per il legame che da tra questi si viene a creare. Molte strutture e segni sono, come già ti accennavo, dettati da gesti nati spontaneamente e che diventano documentativi. La simbiosi tra artista e superficie a cui alludevo prima viene sintetizzata proprio dalla stessa modalità in cui lavoro: Io dipingo a terra, lasciando le tele in orizzontale. Mi muovo e vivo sopra ad esse. E’ come se stessi sopra ad un lenzuolo e, dormendoci durante la notte, mi muovessi su di esso lasciandovi delle tracce impresse. E’ una modalità molto intima di vivere la creazione artistica. Il corpo diventa un mezzo per lasciare segno del passaggio avvenuto sulla superficie e, partendo da qui,  lavoro su esso con altri elementi come i colori, i pastelli, la grafite, andando a creare una narrazione, degli imput.

Penso a un’opera in particolare: per l’Esposizione tenuta a Palazzo Cusani ho creato “Corpo Sociale I”. Si tratta di un grande stendino dove sono appese tele grezze. I segni su di esse appaiono evidenti e sono dettati dall’effettivo passaggio del corpo: le tele sono impresse da fluidi corporei di vario genere e da parti di “buccia” che alludono alla pelle. Quest’opera è molto importante per me: lascia emergere tutta l’importanza del gesto. Un gesto che prende vita e diventa una vera entità, presentando il passaggio, la stessa esistenza del corpo e, quindi, dell’uomo. Ho letteralmente vissuto su quelle tele, lasciandole stese sul mio pavimento per diverso tempo. E’ questo legame profondo che mostro in questa opera: la connessione tra tela e vita raccontata nel gesto.

Oltre alla simbiosi tra me e l’opera, mi piace molto il contatto che avviene tra spettatore e ciò che creo. Generalmente permetto sempre di avere una interazione, di rendere direttamente fruibili le opere. Con “Corpo Sociale”, per esempio, le persone, potevano passare tra le tele appese sullo stendino e interagire con esse, toccarle, tastarle. Si trattava di una scultura allestita che per esistere richiedeva una necessaria interazione con lo spettatore.

Tra l’altro, da qui riprendo anche il discorso sulla delicatezza di espressione a cui prima alludevo. “Corpo Sociale I” si differenzia dagli intenti poco incisivi della fotografia. Su queste tele ci sono vere ferite. Ma, in verità, la mia intenzione è sempre quella di educare lo spettatore, non di violentarlo. Non voglio essere invasiva o stuprare la vista di chi guarda. 

Dai miei lavori, soprattutto se visti dal vivo, traspare anzi una dimensione di accoglienza e di calore, dettate anche dalle dimensioni spesso molto importanti delle tele. Ciò che creo si basa sul contrasto tra cromia e segno: da una parte la presenza delicata delle tinte, dall’altra l’incisività del gesto e della traccia. Da sempre  ho voluto dare sia un effetto di corporeità e di erotismo, sia un senso di comprensione e apertura. Per questo, rispetto alla palette, prediligo l’uso di colori pastellati o terrosi. Questi ultimi mi permettono di ricollegarmi ad una dimensione primordiale. 

La prima cosa che faccio lavorando orizzontalmente sulle tele è proprio creare strutture con questi colori terrosi, per ritrovare una dinamica e una connessione autentica. Anche nei lavori più attuali sto impiegando tinte molto tenui: dal Giallo napoli al blu grigio, dal verde veranda al lilla. Il colore pastello richiama proprio il senso di accoglienza che cerco: l’opera diventa una sorta di carezza, induce un senso di apertura, di abbraccio.

Alice Capelli
Alice Capelli
Alice Capelli, Corpo Sociale I

R.: Mi perdonerai ma non posso esimermi dal porti una domanda più canonica. Penso alle azioni degli anni ’70 fortemente incentrate sul tema del corpo e allo spessore di questo tipo di ricerca: Quali sono i tuoi punti di riferimento artistici e non? Quanto c’è di loro in quello che fai? 

A.C.: E’ vero, c’è uno stretto collegamento tra quello che faccio e l’arte degli anni ‘70, soprattutto nelle modalità e nel linguaggio espressivo. Sono molto appassionata del modo in cui si lavorava in quell’epoca. Penso, per esempio, alla corporeità che assumeva la pittura. Ho sempre guardato a Mario Schifano. I suoi dipinti degli anni ‘60-’70 rivelano un atteggiamento che sento molto mio e che ritrovo molto in ciò che faccio.

Per quanto riguarda l’arte femminista del tempo, durante gli studi ho avuto modo di leggere alcuni testi come “Soggetti Eccentrici” di Teresa De Lauretis che affronta il femminismo come tematica sociale. Essenziale è stata anche la lettura di Carla Lonzi, importante critica che si separata dal mondo dell’arte proprio per  denunciare il maschilismo presente nel settore. Nei suoi testi affronta maggiormente il rapporto che intercorre tra donna e donna e tra donna e uomo. Tutto questo è stato  di grande interesse nella mia formazione, soprattutto se penso al tema dell’educazione, che rappresenta un caposaldo che miro molto ad approfondire con la mia arte. Dove, per educazione, intendo quella culturale-sociale che viene impartita fin dalla giovane età. Di forte ispirazione è stato anche il lavoro di Chiara Fumai. Artista che analizzava il ruolo della donna nella società e che rifletteva su tematiche connesse al tema della stregoneria e, quindi, della donna-strega come meccanismo sociale di rivendicazione femminile. La sua, tra l’altro, è una storia molto tragica… si tolse la vita a soli quarant’anni…

Come puoi capire, mi piace moltissimo l’arte italiana. Oltre a queste sopra citate, guardo molto anche alla contemporanea Chiara Camoni: una scultrice e artista a tutto tondo, ancora in vita, che fa cose davvero spettacolari. Anche lei con echi e rimandi alle tematiche di stregoneria. Penso anche al lavoro di Carol Rama che, tra l’altro, è stata focus della mia tesi accademica… La amo particolarmente e molti dei miei lavori attingono proprio al suo segno; così come penso all’americana Hannah Wilke: da lei ho preso la tendenza alla documentazione, il desiderio di attestare ciò che realmente avviene tra essere umano “artista” e prodotto “arte”.

Effettivamente sì, sono tutti esponenti degli anni ‘70, ad eccezione della Camoni, certo… malgrado, infondo, anche il suo lavoro derivi poi da quello stesso filone. C’è un collegamento innegabile tra quello che faccio e l’arte di quel periodo, sicuramente anche in relazione alle tematiche affrontate a cui gia alludevo: il corpo come mezzo e potere. Il corpo come affermazione di esistenza.

Alice Capelli
Alice Capelli, Nota di Addestramento a una giovane donna

R.: Riflettendo su performance come “Nota di addestramento a una giovane donna”, così come, più ampiamente, sull’indagine che svolgi nella tua produzione, si tasta il tema spinoso del femminismo. Come inquadri, in questa ottica, le azioni che fai? Che rapporto c’è tra la tua poetica e la denuncia di questo tema tanto vasto e attuale e quanto c’è di provocativo in questo? 

A.C.: Onestamente, non mi definisco come femminista perché, per quanto segua attiviste dichiaratamente tali, mi interessi a queste tematiche e la mia stessa arte sia profondamente legata alla denuncia sociale e alla sensibilizzazione, non mi sento di appartenere a questa categoria. Molto fa il fatto che per molte cose debba ancora capirmi: gran parte del mio lavoro artistico è una ricerca interiore e per comprendere cose, per capire perché agisco o penso in un determinato modo, non posso classificarmi, etichettarmi.  Di conseguenza, quindi, non mi piace pensare di rientrare in una definizione lineare come quella del femminismo.

Se parliamo di femminismo come inclusività, rispetto, accettazione delle unicità… allora sì, sono femminista. Ma mi piace molto di più analizzare le situazioni nelle loro singolarità. Mi interessa capire, guardare nel dettaglio, perché sussistono situazioni e differenze infinite, come quelle tra i generi. Non guardo alla donna come vittima ma, piuttosto, guardo a come tutti gli esseri umani siano egualmente soggetti a queste dinamiche. Spesso, infatti, sotto la lente del femminismo, gli uomini appaiono come quelli privilegiati, ma questo è un argomento estremamente delicato. Di fatto, il femminismo è il primo movimento che dice e rispetta anche gli uomini come vittime:  questo è un aspetto che apprezzo particolarmente. 

Ma, per tornare alla tua domanda, non amo categorizzarmi e non voglio rientrare in nessuna etichetta, preferisco aprire le porte per ascoltare tante influenze, voci, idee. Ascoltare per rielaborare, per trovarmi e capire chi sono e dove voglio andare. Di certo ho un legame con il femminismo ma non voglio essere definita solo e unicamente in questo. Quando mi si dice “la tua arte è femminista”, tendo a non ritrovarmi in questa affermazione: la mia arte è molto di più, è molto altro. Il mio lavoro è più sociale, è un’analisi di un ecosistema sociale e culturale, racconta di ciò che avviene tra esseri umani, sia sessualmente che intimamente.

Alice Capelli
Alice Capelli, Se mi scopri ci ho provato

R.: Prima di congedarti, vorrei affrontare con te un tema più ampio che è quello dell’arte in quanto tale. Ti chiederei, dunque, l’artista chi è oggi? L’arte, nelle sue mille sfaccettature, a cosa dovrebbe assurgere?

A.C.: L’Artista è un ricercatore. 

Lo considero quasi al pari di uno scienziato… anzi forse senza quasi (sorride). L’artista, secondo il mio punto di vista, è molte cose ma, in quanto ricercatore ha infinite sfumature diverse ed è per questo che, collegandomi alla domanda precedente, ribadisco che tendo alla non-categorizzazione. So di certo che il mio intento nella vita è quello di produrre arti visive in cui lo spettatore possa entrare e con cui si possa immedesimare facendo una reale esperienza. Questa per me è l’arte: vivere esperienze, in maniera anche shoccante. L’artista può essere quello che vuole ma, di base, compie una ricerca. Può giocare, annoiarsi, distruggere ma una persona, a mio parere, può riconoscersi nell’ambito artistico solo se sta portando avanti una ricerca, un elemento e trova sempre modalità e chiavi di lettura diverse per portare avanti il suo lavoro, senza incagliarsi in un unica cosa. L’artista, insomma, è colui che trova sempre modi differenti per parlare di ciò che cerca.

Alice Capelli @aliicecapelli @alicecapelliart

Aratea Cultura – Galleria d’Arte – Alice Capelli


Dalila Rosa Miceli

Redattrice per la sezione Arte, fondatrice della Galleria d'arte digitale.