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“La casa delle orfane bianche” di Fiammetta Palpati – Premio POP 2024

di Niccolò Gualandris

Dopo l’exploit, nel 2022, di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, la collana Fremen di Laurana editore, diretta con gusto e intelligenza da Giulio Mozzi, si arricchisce di un nuovo titolo, il sesto: La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati, esordio candidato al Premio Opera Prima del Master in editoria della Fondazione Mondadori.

Il romanzo di Palpati, “in due atti e un intervallo galante”, è esplicitamente teatrale nella costruzione, nella presenza di una forte voce narrante e nel tono tragicomico e vivido della rappresentazione. L’antefatto: tre donne di mezza età, per necessità, spirito di comunità e un pizzico di incoscienza, decidono di trasferirsi in una casa in comune con le rispettive anziane madri, abbandonando Roma per un paesino umbro. 

Progetto ambizioso, dicevamo poco fa. Bislacco, aggiungiamo adesso. Che idea strampalata hanno avuto queste figlie. Non basta essere infelici per farsi venire un’idea così. Be’, sul principio è parsa anche sensata. Poi ha preso il suo verso, come tutto ciò che è sbagliato. Perché non solo il bene, a dividerlo, si moltiplica. Anche il male.

La casa delle orfane bianche, p. 71

Gli elementi per una commedia, una sitcom o, al contrario, per un dramma di denuncia sociale, ci sarebbero tutti ma l’autrice riesce a mantenere un elegante equilibrio tra le componenti comiche e drammatiche, per una storia originale e piacevole che si dipana nel corso di quarantasette giornate. Le tre “orfane bianche”, Natalia, Lucia, Germana e le rispettive madri Pina, Felicita e Adele, si muovono in uno spazio e in un tempo ridotto, scandito dalle interazioni quotidiane tra il mondo delle madri-bambine e quello delle figlie-madri. 

«Nata’! Nata’, portame er Tavor».
Natàlia, esegue.
«Vojo quello bono. Quello d’oro».
«C’è solo la pasticca. È uguale. Oro non è meglio, è orosolubile».
Pina ingoia, senza acqua.
«Domani comprame quello d’oro».

p. 63

Le risate, i sogghigni e le smorfie si sprecano in molti dei quadri narrativi di questo romanzo. Le incomprensioni e i capricci delle madri accudite da figlie che avevano sottovalutato la difficoltà, anche insieme, di far fronte alle necessità delle anziane signore, sono all’ordine del giorno.  Altrettanto presente, seppur più sottilmente, è il costante senso di precarietà che contraddistingue la vita delle sei donne. Le madri sono piegate dagli anni e dagli acciacchi, chi fatica di più con il corpo, chi con la mente: delle “benedette donne vecchie bambine” (p.136). Le figlie invece dal ruolo di accudimento che devono portare avanti a discapito della propria vita privata, della quale si possono solo intravedere spiragli, tutti non molto piacevoli.

Proprio da questo equilibrio messo continuamente a repentaglio dalle insidie quotidiane nascono le pagine più rocambolesche del romanzo: l’episodio dell’anatra lasciata a “stagionare” sotto suggerimento culinario di una delle anziane madri (e quindi incontestabile, per la sapienza intrinseca all’età) che viene poi dimenticata e si trasforma da succulenta pietanza in fieri a minaccia sanitaria di cui è necessario sbarazzarsi. Nel turbinio di piume strappate nell’ultimo tentativo di rendere edibile la carcassa, tra urla e miasmi, si consuma uno degli episodi più genuinamente divertenti de La casa delle orfane bianche.

Fiammetta Palpati è un’esordiente dal curriculum studiorum ben avviato. Una laurea in letterature comparate e la frequenza della Bottega di Narrazione, sempre curata da Giulio Mozzi, in cui questo romanzo ha preso forma tra il 2015 e il 2016. La lunga gestazione di quest’opera è ravvisabile dalla cura formale (lessicale e nella costruzione dei dialoghi, soprattutto) e dalla ricerca di una propria voce, che si sostanzia felicemente in un narratore (meglio una narratrice?) piacevolmente forbito, ironico il giusto e dalla presenza misurata.

Il romanzo è quasi interamente popolato di personaggi femminili: le madri e le orfane e il personaggio cialtronesco ed enigmatico della sedicente Suor Modestina, che si presenta un giorno alla soglia della casa per diventarne improvvisamente inquilina. La scelta si inserisce nella volontà di tracciare personaggi fortemente teatrali che esplorino pregi e difetti del carattere umano in una situazione realistica ma fortemente caricata ma assume anche il compito di restituire la dimensione eminentemente femminile, ancora oggi, dei ruoli di cura e accudimento. Gli uomini sono evocati o nominati brevemente ma non costituiscono presenze concrete e men che mai attive.

La dialettica tra i due poli, con il terzo incomodo di Modestina a scompigliarne gli equilibri faticosamente ottenuti e un cane a completare il gruppo, rimane il fulcro della storia. Man mano che si scoprono i retroscena dei personaggi e le tensioni generazionali emergono, il progetto iniziale di dividersi e gestire gli affanni, il male, il bene e le responsabilità vacilla. Solo la forza del perdono delle figlie ormai imbiancate nei confronti di quelle che un tempo erano le loro madri (e in alcune circostanze le loro avversarie) può far uscire dall’impasse. Proprio quando la tensione parossistica sta per sciogliersi, in un vero colpo di teatro, la casa stessa sembra rivoltarsi contro le sue inquiline, ormai alla mercé degli eventi.

Per tutto il romanzo, altri due temi si fanno strada e si sviluppano: il corpo e la santità.

Il corpo è quello delle protagoniste, corpo di donne e di esseri umani; corpo di madri, di vecchie, di malate, di emarginate, corpo in attesa della morte o del perdono. Corpo che affratella o respinge, corpo lavoratore e corpo accudente, corpo che si fa ultimo baluardo terreno di una vita sempre più sbiadita o che è stata impedita nel suo pieno sviluppo e aspetta una liberazione.

La santità, invece, è un concetto. Una corrente che anima la struttura del romanzo (la storia si svolge durante il periodo di Quaresima per culminare nella Pasqua), sostanziandosi in un significato religioso ma non strettamente confessionale. Dopotutto l’impostura di Modestina, che si finge suora, è controbilanciata dal suo ruolo cruciale nello svolgersi degli eventi. La santità non è nell’esteriorità ma nelle pratiche di cura delle orfane bianche, nella loro capacità di perdono e conciliazione e nella tenera arrendevolezza delle madri. La santità è un valore laico che si fa spirituale e si innalza quando qualcosa, una circostanza, un evento inaspettato forza la comunicazione tra le persone e le avvicina per un fine comune che a volte si fa nobile, perfino santo, appunto.

È stupefacente come in determinate situazioni gli esseri umani brucino le tappe e accorcino, con un solo, noncurante, passo, la relazione; un balzo oltre il baratro dell’estraneità. In guerra, in morte, in amore – ovverosia in circostanze estreme – nascono degli affiatamenti improvvisi che rendono possibili piccoli eroismi, immediate familiarità. Talvolta delle fusioni complete.

p. 348

La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati è un libro costruito con intelligenza e passione, che ingaggia di petto ma senza pretese saggistiche il tema dei rapporti con chi ci ha generato, il difficile equilibrio tra madri e figlie e il disperato bisogno di comunità nella società contemporanea. Un esordio che, seppur non per tutti dal punto di vista tematico, lascia un piacevole gusto di qualità letteraria e narrativa.


La casa delle orfane bianche, Fiammetta Palpati, Laurana 2024, 366 pp., 19 euro

Niccolò Gualandris

Aratea Cultura

Niccolò Gualandris

Vicedirettore e redattore di Letteratura

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