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Perchè The Fablemans può essere il miglior film agli Oscar 2023 ?

Un articolo di Beatrice Buratti e di Aurora Santacroce

The Fablemans: autobiografia del colosso della cinematografia Steven Spielberg e dedica alla settima arte di colui che ne è stato uno degli ambasciatori dagli anni ‘70 ad oggi, anche. Questo è il piano narrativo che tutti si aspettavano, che ha attratto tanti nelle sale, ma che ha trovato anche decisi rifiuti per chi non lo ama personalmente e non ne può più di biopics, autobiografie, documentari inneggianti in modo imbarazzante a personalità ancora vive in carne ed ossa, che dilagano nella costantemente crescente tendenza all’auto-rappresentazione, all’individualismo, alla messa in scena del sé ideale. Da Instagram al cinema.

Essendo il film votato dalla redazione come papabile statuetta al miglior film e miglior regia, ne abbiamo discusso a lungo e voci di pareri diversi si sono confrontate. Aurora Santacroce è dalla parte di coloro che nel loro immaginario hanno “subito” il fenomeno Spielberg, del quale, volenti o nolenti, abbiamo tutti assorbito  immagini, mondi e storie, per la lunghissima carriera di grande successo autoriale, ma anche commerciale. E’ dalla parte anche di chi, in realtà compresa chi scrive, vorrebbe vedere e sentir parlare meno di storie autoreferite e drizza subito le antenne quando accade, soprattutto da parte dei “grandi”. Segue la sua riflessione a riguardo.

Non mettendo mai in discussione il genio creativo di un regista come Spielberg, creatore di film ormai parte dell’immaginario comune, quando un autore si focalizza sulla propria vita e sulla propria autobiografia si immerge in un territorio scivoloso. E in territori scivolosi come questi la poetica sognante e sentimentale del regista sembra far venire meno i conflitti della famiglia nella pellicola. The Fabelmans segue la vita di Sammy, alter-ego di Spielberg, in maniera certe volte fin troppo schematica. Una linearità sicuramente voluta che trova nella pellicola usata dal ragazzo la sua verità e il modo di metabolizzare quest’ultima. Questa linearità nasconde e non mostra altro che piccoli sprazzi del bullismo vagabondaggio e antisemitismo vissuti dalla famiglia.

La sensibilità spielberghiana si unisce con una materia così personale che risulta sicuramente sognante ed emozionante, ma anche indulgente. The Fabelmans è uno dei maggiori candidati per la vittoria agli Oscar e vincerà il premio al miglior film, quasi sicuramente. Quello che colpisce di più è la meraviglia che innesta il cinema in noi come in Sammy e i momenti più preziosi della pellicola sono quelli dove il ragazzino si dedica ai suoi progetti con uno slancio sorprendente. Il clima fiabesco e sognante si sposa magnificamente con episodi del genere, ulteriore metafora di come il cinema sia affascinante per gli artisti e per gli appassionati, peccato che questo non abbia lo stesso mordente nei momenti più drammatici e si perda nella durata considerevole del film.


Quello autobiografico non è, però, l’unico piano, o almeno, questa è la voce emersa dalla controparte.

Ma, per cominciare, chi sono i Fable-Mans? Un cognome e una famiglia di finzione che dialogano con quelli reali di Steven: Spiel, in tedesco, è una radice che rimanda al mondo dell’interpretazione, della recitazione, del gioco, Fable racchiude anche l’aura dello Spiel, ma comprende l’interezza della favola, ne è peculiarmente la narrazione, l’insieme, l’ossatura; inoltre, ogni cognome anglosassone con la terminazione -man, almeno tradizionalmente, designa l’attività di famiglia.

I Fablemans sono dunque uomini delle favole, ma anche costruttori di fiabe. 

Questa dicotomia ricorre costantemente attraverso le figure del padre, genio-scienziato che insegna a Sammy le regole fisiche e meccaniche del mondo e la saldezza dei valori, e la madre, pianista eccellente e negata, che trova pace solo perdendosi nella solitudine delle progressioni infinite di Bach, insegna al figlio la contraddittorietà della ricchezza del vissuto, la realtà titanica delle emozioni. 

The Fablemans, quindi, è anche l’alter ego di The Spielbergs, ma la pellicola, lunga due ore e mezza che abbagliano e rapiscono in un soffio che potrebbe essere quello di una fata con la sua polverina magica, racconta in realtà molto di più: lo si intuisce nell’evanescenza dell’incantesimo che trasforma e si appiccica alle immagini sognanti, ai volti al limite del caricaturale (Sammy bambino ricorda Peter Pan, il padre un Bob-aggiustatutto, la madre è una sorta di Amelie bionda e americana “second-generation”), agli effetti sfumati ma fortemente contrastati, con luci vaporose e neri densi di mistero e fissa in una teca di luce immersa nel buio la magia del cinema. Dalla prima all’ultima scena il film è molto più del racconto della nascita di un genio-artista un po’ egocentrico come ogni genio-artista dovrebbe, o non dovrebbe, essere: è un intreccio di piani narrativi molteplici che formano un arazzo, un monumento, un’opera meta-artistica e che alla fine, con un gesto, rivela il proprio disegno unitario.

Il piano personale è motivato nelle interviste dal regista come un desiderio “to bring back” i suoi genitori, dopo averli persi entrambi ormai. Riportarli.. in vita? indietro? Back. Difficilmente traducibile, comunica un senso di riappropriazione. Sammy che anima il suo primissimo filmato e lo tiene tra le mani ce lo dice: il cinema è l’arte di possedere il mondo, controllare la realtà nel suo scorrere comunque imprevedibile e indipendente. Un regista ormai maturo, con gli occhi guizzanti come un ragazzo, sente il bisogno di rielaborare la sua storia familiare, dirigerla: coerente al suo stile la trama non è arzigogolata, i dialoghi nella loro profondità possono essere colti da qualsiasi pubblico senza difficoltà, è esattamente quello che ci si aspetta di vedere. Sempre coerentemente al suo stile, però, non ci potrebbe mai, almeno puntualmente,  aspettare di vederla così, montata così, illuminata così, presa da quelle prospettive e con quei movimenti che lasciano senza fiato, incollati allo schermo, a sobbalzare ogni volta che qualcosa che già ci si aspettava compare sullo schermo. Ci fa sentire preparatissimi, per metterci nella condizione di gustare davvero la realizzazione dell’essere necessariamente impreparati all’evento, quando si presenta.

Questo è il piano “pubblico”, il racconto di formazione in cui ognuno si può identificare e proiettare immagini personali aggiungendo in sovraimpressione il proprio film, pubblico come quella platea infinita con la quale il piccolissimo Sammy condivide lo shock della visione di The Greatest Show on Earth nei primissimi istanti del film, che giustamente si apre con la sua scoperta delle Motion Pictures.

Il discorso che gli fa il padre per prepararlo alla visione, mentre la madre promette entusiasta visioni strabilianti di acrobati ed elefanti, è la descrizione esatta del funzionamento della grande invenzione delle immagini in movimento, nel loro meccanismo percettivo che convince la mente umana che quei 24 velocissimi fotogrammi siano un’unica immagine, mostrano la persistenza della visione: il nostro cervello non riesce a elaborare in tempo quello che riceve e lo trattiene, anche quando è già passato. I primi cinque minuti di film sono una dichiarazione di poetica, spiegata e analizzata a fondo nell’arco di tutto lo svolgimento.

Fare cinema vuol dire trattenere qualcosa del mondo, entrare dentro e ricucire, secondo la propria persistenza, o scelta di quest’ultima, il complesso umano nato dal trauma dell’esistenza con gli shock che essa ci propone.

Così, il piccolo Sammy sconvolto dal big cash di un treno, durante quello che i genitori promettevano essere il più grande spettacolo del mondo, compensa l’incubo della visione con il giocattolo chiesto per Hanukkah: un trenino che corre sui binari. Scarta ogni vagone, contenitore di realtà, e li monta con la stessa abilità che svilupperà per montare le prime pellicole, li assembla, li fa diventare un unico essere semovente, che aziona… e guarda mentre punta dritto alla sua faccia, un mostro. Il mostro davanti ai suoi occhi terrorizzati devia in una tensione che si fa respiro: ci sono i binari e non puntano a lui, c’è la curva, l’ha costruita lui. Questa scena è una perfetta metafora tutta visivo-estetica del suo modo di concepire il cinema e l’arte, ultimo e più sotterraneo livello narrativo, quello meta-cinematografico. E inizia il film.

Con tutte queste storie che si intrecciano, piani che si sovrappongono, certi elementi rimangono identificatori: la luce alle spalle del proiettore che accompagna i momenti di grande realizzazione autocosciente di lui bimbo, della madre, di lui adolescente; la macchina da presa come sua fiabesca aiutante che lo segue, anche mettendolo alla prova, nella sua scoperta del mondo, tra le sue mani strumento vivo, che permette di vedere quanto a occhio nudo sfugga alla persistenza nella fugacità della visione del vissuto, per negazione o distrazione o semplice limite umano.

Segue gli episodi della sua vita, ma questa volta ne è regista: la scarta contenitore per contenitore, la monta e la assembla, ne fa un’opera di senso, circolare, unitaria.

Facendolo, parla di quanto scoperto sperimentando, da adulto, le passioni di cui mostra la nascita naturale e necessaria nella sua persona, Cinema e Arte, a un livello che solo chi ne ha vissuto i mondi a lungo e con intensità pari alla sua può fare. Racconta, ad esempio, il sentimento dilaniante che l’arte, quella vera, viscerale, provoca attraverso la figura circense e appena inquietante di zio Boris, così come il potere effettivo che questa ha sugli eventi della realtà fattuale attraverso l’evolvere della relazione conflittuale con l’antisemita e super cool re del ballo del liceo… potremmo trovare infinti e ben più sottili altri nodi tra il livello autobiografico e metanarrativo, svelati sempre con la sua immancabile abilità tecnica, cosa che, oltre ad eccedere le intenzioni di questo articolo, forse è più bello assaporare che spezzare e analizzare.

L’ultima scena ribadisce tutto quanto detto: la storia, perfettamente, si chiude con un nuovo maestro-aiutante accanto a un Sam adesso giovane adulto e non più accompagnato dai genitori, ma da un produttore degli studios che lo introduce, questa volta, a “the greatest film-maker on earth”, ovvero John Ford, interpretato dal visionario ed enigmatico David Lynch, che si presenta rude quanto lo schianto del treno, ma Sammy si è fatto Sam ormai, coglie La Lezione che il suo idolo dà alla sua appena nata vita da cineasta: per costruire un’immagine l’orizzonte può essere in alto, in basso, ma non deve mai essere in mezzo, “o è una palla mortale”. Sam esce, perfettamente inquadrato dai capannoni degli studios, di spalle, si incammina brioso verso il suo futuro.

Evviva! Finisce il film, sarà un grande regista. Un attimo! 

Non te ne eri accorto caro spettatore? L’orizzonte è perfettamente centrale.

Eppure non ci hai fatto caso finché la quarta parete non si rompe in un tilt di macchina, appena goffo ma baldanzoso come il suo andare: ora l’orizzonte è in basso. Decisamente tutto più interessante, o forse non è cambiato nulla, a parte quel movimento, quella rottura giocosa. In barba alla critica!

Sono Steven Spielberg, questa è una storia, e voi fino alla fine, proprio quella fine che conoscete dal principio e che è la più scontata, che non vi interessa e nemmeno vi riguarda, vi osservate intrappolati nel complesso da me creato, posso giocarci, perché conosco e amo le regole tecniche del mestiere, perché conosco e amo la vita, le sue emozioni, la sua magia.


Beatrice Buratti

Redattrice in Arte