Letteratura

Ugo Foscolo e la Fatal Quiete – Uno studio del sonetto “Alla Sera”

di Diego Ghisleni

Cinzia Pedruzzi
Cinzia Pedruzzi, Chiaro di luna

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,                              4

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.                         8

Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme              11

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.              14

Ad oggi gli studi critici concentratisi sul sonetto Alla sera sono davvero innumerabili, e, se non esauriscono le sollecitazioni scaturibili dalla lettura del testo foscoliano – poiché, citando Pasolini, la poesia è inconsumabile –, di certo complicano il lavoro di chi, fattosi ispirare dal dettato poetico, spera di scrivervi qualcosa di non già detto.

Senza alcuna pretesa di enunciare più di quanto le trascorse ricerche sul Foscolo non abbiano già contribuito a illuminare, dunque, questo breve saggio si servirà di una bibliografia scelta in primo luogo per stilare un commento al testo Forse perché…,in seguito indagando alcune possibili piste di riferimento alla sera nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis e nei restanti undici sonetti delle Poesie.

Del resto già nel lontano 1936 Manfredi Porena notava l’esistenza di un legame naturale tra le due opere, scrivendo che «L’Ugo Foscolo dei sonetti è insomma il fratello spirituale e padre poetico di Iacopo Ortis: il Foscolo, cioè, del trinomio dolore amoroso, dolore di cittadino, morte»[1]. Inoltre, lungo la seconda metà del Novecento, diversi studiosi – Frare, Girardi, Braccesi tra i tanti – hanno voluto ribadire il carattere macrotestuale dei sonetti foscoliani[2], implicando il riconoscimento del componimento Alla Sera quale proemio riassuntivo dell’intero canzoniere, come già sosteneva il Porena nei suoi scritti. Secondo Roberto Braccesi, per esempio, «Il sonetto alla sera ebbe il primo posto non solo per la sua bellezza, ma pure come chiave degli altri, perché tutti gli altri ne fossero introdotti in una zona di solenne raccoglimento e di meditazione»[3]. Visti anche i meticolosi studi di Frare e Brambilla, pare inopinabile la funzione riassuntiva della poesia incipitaria, almeno a livello strutturale e macrotematico.

La scelta di aprire l’edizione Destefanis delle Poesie con il nostro sonetto non è dunque un caso, bensì la spia di un disegno autoriale preciso, portato a compimento solo con la pubblicazione per l’editore Nobile pochi mesi dopo la prima uscita milanese (1803). Solo un anno prima, infatti, le due edizioni pisane dell’opera foscoliana erano sprovviste del componimento Forse perché… e cominciavano con Non son chi fui… e Che stai?… – rispettivamente la seconda e l’ultima poesia dell’edizione definitiva –, riflettendo una diversa intenzione dispositiva e in alcuni casi anche una veste che sarebbe stata drasticamente rivisitata in seguito (è il caso, ad esempio, della seconda terzina di Che stai?…)[4].

In effetti, escludendo il testo Alla Sera dal conteggio dei dodici sonetti, la struttura che i restanti undici assumono è quella di uno specchio organizzato attorno all’autoritratto di Ugo Foscolo (S VII: Solcata ho fronte…), di sapore alfieriano, con le poesie Non son chi fui… (S II) e Che stai?… (S XII) a corrispondersi in posizione incipitaria e conclusiva. Al centro di questi tre componimenti campeggia il tema dell’io, che si staglia con una certa rilevanza anche in Forse perché…. Nel nostro proemio, inoltre, si ritaglia uno spazio di prim’ordine il motivo dello «spirto guerrier» che rugge, anch’esso specchiato nell’organismo macrotestuale grazie alla trattazione degli argomenti amoroso e politico, cui si dedicano rispettivamente le terne di sonetti IV-V-VI (Perché taccia il rumor di mia catena, Così gl’interi giorni in lungo incerto, Meritamente, però ch’io potei) e VIII-IX-X (E tu ne’ carmi avrai perenne vita, Né più mai toccherò le sacre sponde, Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo). Senza dimenticare che Amore e Stato rappresentano due strade fallimentari anche per Jacopo Ortis, donde di nuovo il collegamento tra le due opere, davvero viscerale. Infine S III (Te nudrice alle muse, ospite e Dea) e S XI (Pur tu copia versavi alma di canto) confrontano i fasti del passato con il presente spietato, nutrendo in coppia una riflessione sul «reo tempo» di S I[5]. Veramente allora Alla Sera è il proemio dei sonetti, poiché sintetizza in partenza i temi che ne scandiscono la struttura: vediamolo più da vicino.

In Forse perché…, si diceva, l’io è centrale dal punto di vista tematico e compositivo, infatti lo si vede raddensarsi nei versi 8-9, dove viene evidenziato dai possessivi «mio», «mi», «miei». È vero che anche gli ultimi tre endecasillabi esprimono l’importanza della prima persona («meco», «io», «mi»), tuttavia il fatto che i predicati delle quartine indichino un moto centripeto («vieni», «corteggian», «meni», «scendi») e quelli delle terzine una spinta centrifuga («vagar», «vanno», «fugge», «van») fa pensare ai versi 8-9 come alla stazione di due forze speculari – arrivo e dipartita –, tanto più convintamente se si nota l’equilibrio con cui si dispongono i verbi di movimento: quattro nei primi otto versi e altrettanti negli ultimi sei. La prima parte del testo (vv.1-8), che si lascia sigillare dal punto fermo e registra il calare della sera, dialoga in realtà con la seconda (vv.9-14), corrispondente al momento di contemplazione della morte, delineando una situazione estremamente equilibrata dal punto di vista strutturale, che si direbbe rispecchiare la quiete che il tramonto porta con sé all’animo. Di fatto, però, a questo bilanciamento si contrappone una tensione di verso opposto, tradita in maggior misura dall’accostamento dei semantemi di moto a quelli di stasi: anzitutto la «fatal quiete» è in questo senso un’antitesi, infatti la parola «fatal» è pregna del significato motorio di un destino che piove ineluttabilmente; «fatali» si trova inoltre anche nel sonetto A Zacinto, associato al continuo peregrinare di Ulisse e dell’esule. Ancora, la frizione tra attività e passività è evidenziata dal lessico nei versi 13-14, dove «guardo» e «rugge» si contrappongono a «dorme». A questo proposito, lo scontro lessicale è particolarmente evidente in tutta la poesia, dove il campo semantico della pace, rappresentato da termini come «quiete», «cara», «serene», «liete», «pace», «dorme», «soavemente» è combattuto da quello della guerra («inquiete», «meni», «rugge», «strugge», «guerrier»), nonché dall’allitterazione calcata della /r/ in clausola. Lo studio di Brambilla-Frare rileva addirittura il contrasto semantico tra la staticità di «dorme» e la dinamicità del suo anagramma, «morde», tra le «torme» e la «morte»[6].

Più interessante, forse, annotare la contrapposizione tra il tempo storico («questo reo tempo») – che domina il movimento centrifugo del sonetto, le costruzioni «e intanto», «e mentre» – e il tempo cosmico («fatal quiete»), abitante le quartine e suggerito dall’anaforica «e quando». Tale simmetria polare è infatti indicativa della stretta correlazione esistente tra vita e morte: in altre parole, se l’io può “vagar co’ pensieri”, ciò gli è concesso unicamente a partire dalla contemplazione e dall’invocazione della Sera: solo il decesso e questa parte del giorno, che tanto le somiglia, possono sedare «le torme // delle cure» che colmano l’animo di ruggiti. Ai versi della morte (1-8) partecipa anche il tempo naturale, indicato dal succedersi delle stagioni: estate («liete le nubi estive»), primavera («zeffiri sereni»), inverno («nevoso aire»).

Nel sonetto Alla Sera l’io è prigioniero del raffinatissimo gioco di quiete e di moto, di vita e di morte che disegna al contempo gli equilibri e le rotture viste sinora: è da questa incapacità di cedere all’una o all’altra tensione, propria anche della struttura testuale bilanciatissima, che deriva quel sentimento di incertezza espresso dal «Forse» in posizione forte e incipitaria. Scrive Frare: «l’impossibilità di una scelta si comprende ripensando alla struttura formale del sonetto, che pone l’io al centro di due entità di segno opposto (la “sera”, pur essendo paragonata da Foscolo alla “morte”, in definitiva è una manifestazione che lo induce ad amare ancora di più la vita) ma dello stesso valore, della stessa carica suggestiva, della stessa estensione testuale»[7].

Torniamo alla funzione proemiale di Forse perché… per indagare alcuni casi di trattazione dei suoi temi nelle poesie successive: nel condurre quest’operazione avremo modo di comprendere più a fondo il nostro componimento. Fin qui si è omesso di dire che la struttura di questo è quadripartita, proprio come l’insieme dei dodici sonetti[8], e che tale partizione interna è in parte segnalata dalla punteggiatura forte: distinguiamo i versi dell’invocazione alla Sera (1-3), con funzione di prologo, quelli della sua descrizione (vv.3-8), la parte centrale dell’io (vv.8-9) e le terzine della riflessione sulla morte (vv.9-14).

Si potrebbe parlare a lungo dei nessi che attraversano la raccolta collegandone i componimenti al nostro proemio; qui però, per ragioni di economia testuale, ci limiteremo a constatare come la Sera si allacci strettamente alle immagini della madre e della patria, giustificando in qualche modo la sua funzione anestetizzante rispetto alle «torme // delle cure», una delusione in primo luogo politica e sentimentale. A questo proposito, notiamo diversi rimandi tra il nostro sonetto, quello A Zacinto (S IX) e quello In morte del fratello Giovanni (S X). Anzitutto l’invocazione «o Sera!», in apertura del terzo verso, abita lo stesso luogo del testo occupato dall’altra famosa apostrofe delle Poesie, «Zacinto mia», in Né più mai toccherò le sacre sponde[9]: tale accorgimento ovviamente non basta a provare definitivamente una conciliazione di Sera e patria, ma è a nostro parere indicativo in questa direzione, anche ripensando all’importanza dei richiami sonori intertestuali nella costruzione del macrotesto.

È più facile dire del ruolo materno della Sera, ovvero originale: per un lucreziano come Foscolo, infatti, si deve pensare alla morte come al nulla antecedente la nascita, anche se il decesso è più malinconioso in quanto strappo dalle cose conosciute in vita, in particolare dalle meraviglie naturali. Ecco dunque le «nubi» e gli «zeffiri», che in Forse perché… caricano l’atmosfera di quella nostalgia romantica che domina la poesia di quegli anni, sintomo di una soggettività fragile e destinata a morire, dunque a separarsi per sempre dalla natura. Nello stesso sonetto, la Sera-morte stimola l’io al pensiero, dal punto di vista strutturale e tematico; inoltre è la stessa prospettiva materialista che porta il soggetto lirico a valorizzare massimamente la morte quale unica via per ottenere «fama e riposo» – quella gloria letteraria che acquista importanza proprio in quanto resiste al sepolcro (e, prima ancora, poiché è la prospettiva del decesso che spinge il poeta a scrivere per essere ricordato).

«L’equazione di culla e tomba stabilisce una dimensione umana entro la quale, per Foscolo, si iscrive non un esilio di religiosa allegoricità ma di chiaro e dolente significato esistenziale»[10]. La vita allora non è altro che una parentesi del «nulla eterno», e le «tappe della parabola umana sono emblematicamente polarizzate intorno a questo trio: culla – sventura (leggi esilio) – sepoltura»[11].

Naturalmente “culla” è anche “riposo”, placido sonno dello «spirto guerrier», «quiete» delle «secrete cure» (S X vv.9-11), e in questo senso ha molto a che fare con il motivo terapeutico delle illusioni, diffusissimo nelle riflessioni ortisiane. Nelle Ultime lettere, lo stesso Dio è accusato da Jacopo come «il Consolatore degli afflitti»[12], e per questo amabile, nonostante la coscienza della sua natura illusoria e deludente – egli è infatti il creatore della maligna Natura. Poiché ambedue la Sera e il divino conservano un carattere consolatorio, un parallelismo si instaura tra di essi.

D’altra parte questi due nuclei della poetica foscoliana rinsaldano il legame tra di loro e con i temi della madre e della patria grazie alla comune appartenenza a ciò che Braccesi chiama “mito”. «Quando un’immagine rappresenta un sentimento semplice e fondamentale del genere umano, tale cioè che ogni uomo conosce o si raffigura in modo evocativamente identico al sentimento stesso, sì che le sia dato scambiarsi con esso nei recessi della memoria poetica, ecco abbiamo (nella sostanza eterna anche quando non ve ne è la tradizionale veste esterna) un mito. Con tale purezza e tale intensità il Foscolo canta nel vincolo di sangue, nella famiglia, il nucleo primo dell’umano consorzio, fuor del quale l’uomo è nulla; in un paesaggio naturale, che si dilata assorbendo le memorie storiche e leggendarie di un popolo intero, la patria, per la quale la breve vita dell’individuo mette radice in un tempo quasi infinito; nell’incanto della sera, la morte pacificatrice d’ogni cosa vivente; nella poesia […] intonando i pensieri a una perenne vita, e il terrore che quei pur fragili doni s’abbiano a dileguare lasciandoci del futuro al timor cieco»[13].

Nella sua triplice statura materna, politica e divina, la Sera che allunga le sue «inquiete / tenebre» riempie momentaneamente i vuoti dell’io (sentimentale, politico e spirituale) perché è la culla di tutte le «cure» che questo cerca invano di portare a buon esito. Prima di commettere il suicidio, Jacopo sente la necessità di regolare i conti con il passato, dunque vuole congedarsi dalla madre, digerire l’amaro boccone politico e confessare a Lorenzo l’omicidio involontario. Poiché con quest’ultimo gesto sembra che l’Ortis voglia arrivare a Dio con la coscienza pulita, apprendiamo quanto egli ritenga importante pacificare il proprio rapporto con il creatore di tutte le cose, oltreché con l’anelito rivoluzionario e familiare. Il fatto che il personaggio foscoliano risolva tali questioni prima di morire può forse suggerire la volontà autoriale di costruire un suicidio quanto più possibile somigliante alla Sera.

Tornando all’analisi ravvicinata di Forse perché…, non ci resta che spendere qualche parola sui riferimenti intertestuali. Abbiamo già fatto cenno a Lucrezio trattando del rapporto tra culla e morte: l’autore latino è una fonte importante non solo per il componimento Alla Sera, ma per tutte le Poesie, scritte proprio negli anni di traduzione del De rerum natura; la «tranquillità della morte»[14] nella lettura epicurea è di grande interesse per Foscolo, che ce ne dà ragione scrivendo Della poesia, dei tempi e della religione di Lucrezio. Poiché l’assenza di dolore è l’unica forma di felicità possibile, la morte rappresenta una tappa da non temere, e anzi da accogliere con benevolenza: la sera, che tanto le somiglia, è ugualmente in grado di placare le tempeste spirituali. Lucreziano è anche il motivo dell’indifferenza divina, pregnante nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove pare trasposta la seguente riflessione foscoliana, sulla qualifica consolatoria della divinità[15]: «Per la universalità gli dei sono terrore, ma sono più sovente consolazione: anzi non possono atterrire che i pochi scellerati e possenti, ma consolano i deboli ed infelici i quali tra le miserie e le ingiustizie cercano nel cielo un conforto futuro del pianto presente. E gl’infelici fanno in tutti i secoli l’universalità del genere umano»[16].

Anche Orazio è un modello fondamentale per le Poesie: lo si vede già a partire dalla citazione in apertura della raccolta, tratta dai Sermones (II, 6, 62). «Sollicitae oblivia vitae» è infatti una riformulazione autoriale della sentenza latina «ducere sollicitae iucunda oblivia vitae», alla quale Foscolo sottrae l’aggettivo «iucunda», enfatizzando il lato pessimistico-realista del canzoniere. Il riferimento oraziano (trad. mia: «obliare lietamente una vita di preoccupazioni») è ancora una volta pregno dello stesso significato della Sera, e si allaccia intuitivamente alle «torme // delle cure» di Forse perché… grazie al termine sollicitae. Nel nostro sonetto il «reo tempo» rimanda volentieri all’«invida aetas» delle Odi (I, 11), alle quali potrebbe riferirsi anche l’immagine dell’estensione umbratile: «inquïete / tenebre e lunghe all’universo meni» – «[…] iam nox inducere terris / umbras» (V, 9-10). Per quest’ultimo passo è altrettanto possibile che l’autore abbia guardato al primo libro dell’Eneide e in particolare al canto dell’aedo Iopa, nel quale la lunga notte è una proprietà associata all’inverno – «hiberni vel quae tardis mora noctibus obstet» (v.746).

Il nesso sera-morte ha una lunga tradizione, che attraversa diverse dediche al Sonno, tra le quali l’apostrofe del sonetto LIV di Giovanni Della Casa («O sonno, o della quieta umida ombrosa / notte di placido figlio») e i versi del Canzoniere petrarchesco («Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte […]» – CCXXVI, vv.9-10), a loro volta ispirati all’Eneide virgiliana: «consanguineus lethi sopor» (VI, 278). Per concludere, ci piace menzionare le Metamorfosi di Ovidio (XI, 623-4), dove, accanto alle parole «quies» (quiete) e «cura» (pensiero), il sonno è ancora una volta invocato affinché porti pace al travagliato universo: «Somne, quies rerum, placidissime, Somne deorum, / pax animi, quem cura fugit»[17].

Bibliografia

Edizione di riferimento per le Poesie di Ugo Foscolo

Martinelli Donatella (a cura di), Ugo Foscolo, Sepolcri Odi Sonetti, Milano, Mondadori, 2019.

Ulteriore bibliografia critica di riferimento

Binni Walter, Introduzione, in Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Garzanti, 1981.

Braccesi Roberto, “I SONETTI DEL FOSCOLO.” Lettere Italiane 5, no. 1 (1953): 1–8. http://www.jstor.org/stable/26244125.

Brambilla Alberto, Frare Pierantonio, “Il sonetto ‘Alla Sera’ tra equilibrio formale e ambiguità semantica”, in Testo (II), 1981, pp.134-154.

Da Pozzo Giovanni, “DANTE E FOSCOLO.” Belfagor 33, no. 6 (1978): 653–79. http://www.jstor.org/stable/26144859.

De Luca Raffaele, “La Tomba Nel Foscolo Come Immagine Ossessiva e Mito Personale.” Italica 58, no. 1 (1981): 16–27. https://doi.org/10.2307/478798.

Fioravanti Grazia Melli, “DA LUCREZIO A CALLIMACO. APPUNTI SULLA POETICA DI UGO FOSCOLO.” Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana 22, no. 1/3 (1993): 9–19. http://www.jstor.org/stable/43997159.

Frare Pierantonio, “LE POESIE DEL FOSCOLO: RIME O CANZONIERE?” Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana 12, no. 1 (1983): 35–49. http://www.jstor.org/stable/23928167.

Ghiazza Silvana, “NOTE PER UNA LINEA FOSCOLIANA NEI ‘SONETTI.’” Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana 17, no. 1 (1988): 103–9. http://www.jstor.org/stable/23928813.

Ioli Giovanna (a cura di), Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Torino, Einaudi, 2015.


[1] M. Porena, Fra i sonetti, le Odi e i Sepolcri del Foscolo, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», VI, vol. XII, [1936], p. 416.

[2] Più precisamente, Pierantonio Frare sostiene il carattere macrotestuale non solo dei sonetti, ma dell’intera raccolta di Poesie foscoliana, comprensiva delle due odi. Cfr. Frare Pierantonio, “LE POESIE DEL FOSCOLO: RIME O CANZONIERE?” Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana 12, no. 1 (1983): 35–49. http://www.jstor.org/stable/23928167.

[3] Braccesi Roberto, “I SONETTI DEL FOSCOLO.” Lettere Italiane 5, no. 1 (1953), p. 2. http://www.jstor.org/stable/26244125

[4] Le edizioni pisane delle Poesie non erano solo sprovviste del componimento Alla Sera, ma di altri 3 sonetti e dell’ode Alla amica risanata. Dalla prima alla seconda pubblicazione milanese, invece, Foscolo interviene mantenendo sostanzialmente immutato l’ordine macrotestuale e introducendo il sonetto In morte del fratello Giovanni.

[5] Cfr. Frare Pierantonio, “LE POESIE DEL FOSCOLO: RIME O CANZONIERE?” Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana 12, no. 1 (1983): 35–49. http://www.jstor.org/stable/23928167.

[6] Cfr. Brambilla A., Frare P., “Il sonetto ‘Alla Sera’ tra equilibrio formale e ambiguità semantica”, in Testo (II), 1981, pp.134-154.

[7] Cfr. Brambilla A., Frare P., “Il sonetto ‘Alla Sera’ tra equilibrio formale e ambiguità semantica”, in Testo (II), 1981, p.152.

[8] Si fa qui riferimento non alla struttura speculare degli undici testi che seguono quello Alla Sera, ma ai sonetti tutti, comprensivi di questo componimento proemiale. Di seguito la partizione: S I (proemio); SS II, III, IV, V, VI (prima parte); S VII (autoritratto centrale); SS VIII, IX, X, XI, XII (seconda parte). Se si considera che è netta la prevalenza dei verbi al futuro in quest’ultima parte (soprattutto nei testi VIII, IX e X) e dei verbi al passato nella seconda sezione, possono valutarsi altri collegamenti con il sonetto Forse perché… provvisto di una spinta centripeta e di un’altra centrifuga.

[9] Si potrebbe pensare anche ad un rapporto tra queste apostrofi e «o fratel mio», in S X, anche se quest’ultimo inciso non occupa esattamente lo stesso luogo del testo di «o Sera!» e «Zacinto mia» (ma pur sempre il terzo verso!). Come vedremo più avanti, infatti, la sera è il luogo di un riposo famigliare oltreché politico; inoltre, nel sonetto In morte del fratello Giovanni sono diversi i riferimenti al significato analogico del tramonto, e ritornano alcune parole chiave di S I: «Sento gli avversi numi, e le secrete / cure che al viver tuo furon tempesta, / e prego anch’io nel tuo porto quïete.». Oltretutto la madre è una presenza fondamentale in questo componimento, e l’accostamento della sua figura ai richiami di Forse perché… (S X vv.9-11) contribuisce a valorizzare la tesi della maternità della Sera.

[10] A. Valentini, “Campi onomasiologici e campi semantici nel sonetto foscoliano ‘A Zacinto’”, nel volume Le ragioni espressive (Roma: Bulzoni, 1972).

[11] De Luca Raffaele, “La Tomba Nel Foscolo Come Immagine Ossessiva e Mito Personale.” Italica 58, no. 1 (1981): 16–27. https://doi.org/10.2307/478798.

[12] Ioli Giovanna (a cura di), Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Torino, Einaudi, 2015, pp.98-99.

[13] Braccesi Roberto, “I SONETTI DEL FOSCOLO.” Lettere Italiane 5, no. 1 (1953): pp. 5-6. http://www.jstor.org/stable/26244125.

[14] Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. VI, pag. 246

[15] Martinelli Donatella (a cura di), Ugo Foscolo, Sepolcri Odi Sonetti, Milano, Mondadori, 2019, pp. 98-99.

[16] Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. VI, pp.242-3.

[17] Lucrezio, Orazio, Ovidio, Della Casa, Petrarca e Virgilio non sono gli unici modelli delle Poesie di Foscolo: ad essi andrebbero aggiunti almeno i nomi di Dante, Tasso, Alfieri e Parini, ma non possiamo e non vogliamo spenderci in una più meticolosa analisi, che potrebbe riguardare benissimo un intero saggio diverso da questo.


Credits:

Cinzia Pedruzzi, Chiaro di luna, olio su tela, 12*9

Autodidatta sin da giovane, Cinzia Pedruzzi viene indirizzata alla scuola d’arte del maestro Ernesto Doneda da Brembate. Sotto la sua guida perfeziona la tecnica della pittura ad olio, esprimendo uno stile figurativo moderno, paesaggi e nature morte. La ricerca delle forme la spinge allo studio del disegno e alla rappresentazione del corpo umano, dedicandosi successivamente al ritratto. Interessata allo studio dell’arte e curiosa di formarsi su nuove tecniche espressive, apprende la tecnica dell’affresco e la manipolazione plastica della materia, rappresentando in terracotta figure umane e busti. Insegna in corsi di disegno, pittura ad olio e manipolazione della terra. Collabora per la realizzazione di corsi scuola con due amministrazioni locali. Ha partecipato a varie rassegne d’arte, mostre collettive e tenuto esposizioni personali in svariati centri culturali. Iscritta al Circolo Culturale Bergamasco dal 1997, partecipa alla collettiva annuale presso la sede di Bergamo.

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Diego Ghisleni

Vicedirettore e redattore