Critica di Prosa,  Letteratura

Annie Ernaux – Chi è la vincitrice del Nobel per la Letteratura 2022?

articolo di Lara Bortolai

A distanza di qualche mese dalla consegna del Nobel per la letteratura di quest’anno ad Annie Ernaux (Lillebonne, 1940) «per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, gli estraniamenti e i freni collettivi della memoria personale», è in questi giorni in programmazione in diverse sale italiane Les Annés Super 8, documentario che assembla una serie di video amatoriali girati dalla scrittrice e dalla sua famiglia tra il 1972 e il 1981.

Fin dal suo esordio negli anni Settanta con Les Armoires vides (Gallimard, 1974) cui seguono, rispettivamente nel ’77 e nel 1981, gli altri due romanzi Ce qu’ils disent ou rien e La Femme gelée, la penna di Ernaux trova materia di narrazione negli spunti autobiografici che dal racconto romanzesco cercheranno spazio in forme varie, dai successivi libri scritti in prima persona, al fototesto L’Usage de la photo, fino al film di quest’anno.

La biografia di Annie, quindi, si può leggere su Wikipedia oppure ricostruire attraverso le sue opere; quell’acutezza clinica che l’Accademia di Svezia ha riconosciuto alla sua scrittura è a servizio di una ricerca che affonda nel vissuto personale, indagato attraverso una parola tagliente, la cifra stilistica distintiva che l’ha consacrata alla critica dopo la pubblicazione de La Place nel 1983.

In un’intervista con Frédéric-Yves Jeannet, il professore le chiede proprio se nell’uso del je, inaugurato con il suo quarto libro, Annie abbia trovato la sua voce e l’autrice risponde:

«Tout ce que je sais, c’est que ce livre a inauguré comme je l’ai dit une posture d’écriture, que j’ai toujours, exploration de la réalité extérieure ou intérieure, de l’intime et du social dans le même mouvement, en dehors de la fiction. Et l’écriture, «clinique» dites-vous, que j’utilise, est partie intégrante de la recherche. Je la sens comme le couteau, l’arme presque, dont j’ai besoin».

«Tutto quello che so è che questo libro ha inaugurato, come ho detto, una postura di scrittura che ho tuttora, un’esplorazione della realtà esteriore o interiore, allo stesso tempo dell’intimo e del sociale, al di fuori della finzione. E la scrittura, “clinica” dici tu, di cui mi servo, è parte integrante della ricerca. La sento come il coltello, quasi l’arma, di cui ho bisogno».

Ne La Place, che in un centinaio di pagine condensa la storia di vita del padre, Annie definisce la sua scrittura piatta: nel suo scavo interiore non cerca «nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione». Sarebbe un tradimento aderire al partito dell’arte per delineare i contorni della figura paterna, «per riferire di una vita sottomessa alla necessità», quella del ragazzo costretto a dodici anni a lasciare la scuola per i campi, poi dell’operaio e infine del proprietario di un piccolo bar e drogheria cui, per non rinunciare alla piccola attività commerciale, per lunghi anni deve affiancare anche il lavoro in fabbrica.

«Da poco so che il romanzo è impossibile» è lo snodo dichiarato esplicitamente ne La Place e non saranno romanzi nemmeno Une femme (1987) o L’Événement (2000), dove nuovamente la penna incide nella carne viva del lutto della madre e del racconto dell’aborto di Annie.

Il linguaggio per Ernaux plasma la letteratura quanto il mondo sociale che, attraverso la sua memoria, si propone di scandagliare. La vita del padre, così come quella della madre, è la storia di una generazione, di una classe dominata da cui, non senza sensi di colpa e un sentimento di lacerazione, Annie riesce, attraverso l’investimento negli studi, a svincolarsi. Nella già citata intervista, la scrittrice definisce La Place, Une femme, La Honte (1997) e in parte L’Événement, non come autobiografie, quanto piuttosto  come auto-socio-biografie.

Il conflitto tra la lingua francese imparata a scuola e il patois che scivola naturale nelle frasi del padre nella casetta normanna è il primo segnale di una distanza comunicativa che si trasforma poi in silenzio: «forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci». È ancora nella parola, tuttavia, che l’autrice cerca la riparazione, nella sintassi il rattoppo di un legame reciso.

Dice a Jeannet:

«Par et dans le choix de cette écriture, je crois que j’assume et dépasse la déchirure culturelle: celle d’être une immigrée de l’intérieur de la société française. J’importe dans la littérature quelque chose de dur, de lourd, de violent même, lié aux conditions de vie, à la langue du monde qui a été complètement le mien jusqu’à dix-huit ans, un monde ouvrier et paysan. Toujours quelque chose de réel».

«A partire da e nella scelta di questo scritto, credo di aver rielaborato ed esser andata oltre lo strappo culturale: quello di essere “un’immigrata” dall’interno della società francese. Importo nella letteratura qualcosa di duro, pesante, anche violento, legato alle condizioni di vita, al linguaggio del mondo che è stato il mio unico fino ai diciotto anni, un mondo operaio e contadino. Sempre qualcosa di vero».

Una scrittura fattuale, che fugge la commiserazione e il lirismo, che si sottrae a un doppio tradimento, dopo quello che ha allontanato la parabola di vita dell’autrice dalle sue origini, dopo la scelta di scrivere un libro su un uomo che non sapeva scrivere.

Ecco che la selezione accurata di un lessico preciso, ma non ricercato, la paratassi e l’utilizzo insistito di frasi nominali diventano il riflesso linguistico di una poetica tesa tra la critica ideologica e politica a un certo tipo di tradizione letteraria (soprattutto francese, se pensiamo all’uso della parola di un mostro sacro come Proust) e la ricerca di un compromesso tra l’io e il mondo.

L’io, anzi, s’inabissa nella frase verbale in cui il soggetto è svuotato della sua singolarità: rimane il luogo della scrittura, je diventa «quelqu’un qui est “moi” mais je ne le sens pas comme “moi”. Dans d’autres cas, le sujet pourrait être “il” c’est-à-dire mon père» (intervista del ’92).

Alla domanda di Raphaëlle Rérolle che le chiede in un’altra intervista (pubblicata nel 2010) se dopo La Place quel suo senso di tradimento, che riecheggia gli studi sociologici di Bourdieu, abbia trovato una pacificazione, Annie risponde che sì, grazie alla scrittura in un certo senso l’ha trovata. E ancora, però, aggiunge che non ricorda se Sartre o Camus avessero giustamente notato come un libro non possa nulla contro la morte di un bambino: «Si on parle d’action, il y a le sentiment d’être impuissant dans l’écriture». Un’impotenza, tuttavia, che non vanifica per l’autrice l’importanza dell’atto politico della scrittura e, insieme, in un continuo oscillare tra la dimensione sociale e quella personale e intima, il suo valore ricostruttivo di legami e ricordi. Scrivere Une femme, dice Annie, le ha permesso di soffrire come se stesse mettendo al mondo sua madre.

«Pour moi, écrire, ce n’est jamais la séparation, mais au contraire la fusion, qui vient peut-être d’un sentiment de perte».

«Per me la scrittura non è mai separazione, ma, al contrario, fusione che nasce forse da un sentimento di perdita».


BIBLIOGRAFIA

Isabelle Charpentier, “Quelque part entre la littérature, la sociologie et l’histoire…” L’œuvre auto-sociobiogaphique d’Annie Ernaux ou les incertitudes d’une posture improbable, «Contextes», vol. 1.

L’Écriture comme un couteau, entretien avec Frédéric-Yves Jeannet, Stock, 2003.

Raphaëlle Rérolle, Écrire, écrire, pourquoi? Entretien avec Annie Ernaux, Éditions de la Bibliothèque publique d’information/Centre Pompidou, 2010.

https://it.wikipedia.org/wiki/Annie_Ernaux

Lara Bortolai

Redattrice di Letteratura