Filosofia

Dalla filosofia del gioco alla filosofia per gioco

Di Lorenzo Santini

gli scacchi

«Tra filosofia e gioco», scrive Pier Aldo Rovatti nella prefazione a Oasi del gioco di Eugen Fink, «è difficile che scorra buon sangue»[1]. Un fenomeno dalla complessità irriducibile, «non sopporta alcuna generalizzazione»[2], rendendo vano qualsiasi tentativo di concettualizzazione proprio della filosofia. Questa, in tal caso, sembra non possa fare altro che rincorrere il suo oggetto come l’Achille di Zenone insegue la tartaruga, eppure, forse proprio in questo correre insieme nella stessa direzione, si può trovare un punto di incontro tra i due mondi.

Una filosofia del gioco?    

«Si dice che i filosofi non sanno giocare: è uno slogan semplificatorio che contiene un grano di verità»[3], non tanto nell’impossibilità che essi possano essere pokeristi di successo o assi del Risiko, ma nel fatto che, quando si approcciano alla realtà complessa che il gioco rappresenta, le loro armi sembrano essere spuntate. Seppure ognuno di noi ha memoria ed esperienza diretta di cosa possa significare “giocare”, quando tentiamo di individuare delle basi definite dell’essenza che accomuna il calcio e gli scacchi, Call of Duty e il Mah Jong, Dungeons and Dragons e briscola, ci risulta un’impresa impossibile; se, infatti, sembra legittimo catalogare nella medesima categoria “gioco” gli esempi appena citati, nel momento in cui si prova a dare ragione alla facilità con cui accostiamo tali attività, pare che manchi qualcosa, come se quel terreno comune apparentemente scontato evaporasse tra le sfumature fuggevoli che connotano tutti i giochi che conosciamo. Pertanto, sembra essere pressoché impossibile stilare una filosofia del gioco che abbia un carattere organico e sistematico, poiché, come detto in apertura, l’oggetto di ricerca in questo caso scivola via, lasciando a disposizione solo descrizioni e indagini parziali, non esaurendo così il desiderio di ricerca che muove il filosofo nel suo percorso.

Se la relazione tra filosofia e gioco è quindi conflittuale, con la prima che insegue il secondo senza mai riuscire veramente a raggiungerlo, si può cambiare punto di vista, provando a indagare il rapporto che intercorre tra il fare filosofia e il giocare, tra l’individuo che ricerca e l’individuo che gioca. Passare dall’oggetto alla pratica permette di cambiare completamente l’angolo di osservazione dell’indagine per provare ad aprire un fronte più fruttuoso, schivando inoltre i problemi concettuali individuati fin qui. La domanda che ora si pone è quindi la seguente: sono davvero così lontani il fare della filosofia e il fare del gioco?

Il reale della filosofia

Nel corso della trattazione dedicata a cosa significhi fare filosofia, Rossella Fabbrichesi dedica ampio spazio al carattere pratico e attivo della disciplina: nel sesto capitolo del suo testo Cosa si fa quando si fa filosofia?[4], chiamato appunto Praticare il reale[5], l’autrice attinge dall’esperienza platonica, riportata nella celeberrima Settima lettera, per mostrare la vocazione intrinsecamente pratica che caratterizza la disciplina. Platone «sposta il fuoco dell’attenzione sui pragmata», ovvero «le occupazioni, le faccende, gli interessi»[6] dell’agire filosofico e si impegna ad applicare gli insegnamenti della sua dottrina non appena se ne presenta l’occasione, prendendo il mare alla volta di Siracusa. È questo il carattere vitale della filosofia: la volontà pulsante di essere praticata, di portare la dimensione del pensato alla dimensione del fatto partendo dall’ispirazione inversa. E alla domanda, quali siano effettivamente i pragmata della filosofia, Fabbrichesi fa rispondere Foucault[7]: «la filosofia incontra il suo reale nella sua pratica, intesa come l’insieme delle pratiche attraverso cui il soggetto si rapporta a se stesso, elabora se steso, lavora su di sé. Il lavoro di sé su di sé è il reale della filosofia»[8]. Ogni forma dell’agire umano che permette al soggetto di incontrarsi, di conoscersi e di esplorarsi ricade quindi in questa dimensione e denota la vera anima della filosofia. Se davvero «l’ergon della filosofia è il lavoro di sé su di sé»[9], ne consegue che il suo raggio d’azione è enormemente più vasto di quanto si possa immaginare, comprendendo anche universi apparentemente inusuali.

Filosofia per gioco

Una volta incorporate queste parole, si possono confrontare con ciò che Fink afferma attraversando i tratti caratteristici del gioco: partendo dall’esperienza di ognuno, per l’autore giocare «è sempre un accadere illuminato dal senso, una pratica vissuta»[10]. Giocare vuol sempre dire agire, praticare e incidere in direzione, anche se talvolta la dimensione intellettuale sembra essere lontana; nonostante ciò, continua Fink, «ogni gioco appartiene al modo razionale di rapportarsi a sé della vita dell’uomo»[11].

La vicinanza a quanto Foucault chiamava «il reale»[12] della filosofia è evidente: se giocare è compreso nell’insieme di pratiche che l’individuo usa per guardare e capire se stesso, allora è possibile seguire Foucault e collocarlo nella dimensione in cui agisce la filosofia, nel suo reale, appunto. Appartenendo «essenzialmente alla costituzione dell’essere dell’esistenza umana», il gioco «è un fenomeno esistenziale fondamentale»[13], mentre i vantaggi del suo esercizio raggiungono «il fondo del nostro essere, e potrebbero di conseguenza ispirare un gesto filosofico completamente nuovo»[14]. È questo carattere attivo e riflessivo che rende l’atto ludico ascrivibile a quei pragmata della filosofia ripresi da Fabbrichesi e ciò costituisce una base non trascurabile che può aprire a un’analisi attenta della prima pratica come espressione della seconda. Il rapportarsi al sé è tanto lo scopo interno, quanto il mezzo, che il gioco utilizza per esprimersi nelle sue infinite e talvolta sfumate forme, assumendo come carattere definitorio «l’azione spontanea, il fare attivo, l’impulso vitale; il gioco è per così dire l’esistenza che si muove da sé»[15].

Sottolineando questa possibile convergenza non si vuole insinuare che tenere in mano un joypad e calciare un pallone siano atti filosofici di per sé, ma si intende suggerire che l’intersezione tra l’insieme “fare filosofia” e l’insieme “giocare” sia tutt’altro che vuota, sorgendo i due su basi molto vicine che permettono di ipotizzare la possibilità di filosofare per gioco e giocare filosofando.

Aprire la filosofia

Quanto detto fin ora potrebbe sembrare un mero esercizio intellettuale, un’operazione di confronto tra definizioni proposizionali esauribile in un’equazione, ma ha almeno due conseguenze rilevanti che riguardano direttamente i due mondi considerati. La prima conseguenza interessa certamente la possibilità, se non necessità, di ampliare l’orizzonte di ciò che può essere detto filosofia. Troppo spesso e, talvolta, con troppa convinzione si considera il pensiero filosofico come una forma di speculazione unicamente legata al testo scritto e al saggio, rinchiusa con fermezza tra le spesse mura delle università, che hanno il compito di custodirla e proteggerla dalle contaminazioni portate dalla mondanità. Su questo punto Fabbrichesi è chiarissima: analizzando sempre la testimonianza lasciata da Platone nella Settima Lettera, si nota come questa sottolinei «un’idea che appare schiettamente antispeculativa: la filosofia non può chiudersi nel recinto del logos»[16]. Proseguendo nella direzione che Platone e Foucault indicano, si nota come il cuore pulsante della disciplina risieda nel suo carattere attivo, pratico e capace di incidere sul presente e sull’individuo. Pensare al gioco come ad una possibile pratica filosofica può permettere di individuare un nuovo orizzonte con cui far uscire la filosofia dalle università e aprire i cancelli della disciplina a un più vasto numero di utenti. Se esiste, come si pensa in questa sede, un punto di incontro tra intenzioni e mezzi delle due pratiche, il gioco può diventare tanto uno strumento del filosofo per proseguire le sue ricerche, quanto un ambiente per la filosofia in cui crescere ed esprimersi, diffondendo fuori dalle strutture tradizionali il pensiero, l’indagine, ma soprattutto la pratica filosofica.

Rivalutare il gioco

L’incontro tra il giocare e il fare filosofia porta con sé anche uno spostamento del valore da assegnare al gioco. Considerare la pratica ludica come un potenziale atto autoconoscitivo, una dimensione in cui il giocatore si incontra come essere umano nelle varie sfumature del suo essere al mondo, conduce a elevare il significato di tale realtà. Comunemente, come rileva anche Fink[17], questo viene considerato come «fenomeno marginale della vita umana»[18], un passatempo con cui riempire gli spazi lasciati liberi dalle vere occupazioni con cui si realizza l’individuo. Il gioco, infatti, finisce per acquisire una maggiore importanza solo nel periodo dell’infanzia, mentre è raro che si prenda seriamente questa tematica quando si fa riferimento “all’età adulta”. In questa sede si ritiene che una visione simile bruci fin dalle radici ciò che giocare significa, poiché ignora completamente l’enorme profondità e ambiguità che si nasconde sotto i colori e la varietà della pratica. Nel mostrare la sovrapposizione che sussiste tra l’atto filosofico e quello ludico si toglie ogni fondamento a questa visione, sottolineando, senza contraddizione, che il gioco è una cosa seria. Il gioco, nelle sue varie forme, è una frontiera in cui ritrovare il sé al di fuori di condizionamenti e di scopi, se non quelli interni al gioco stesso, in grado di riportare l’attenzione del singolo sul singolo stesso, illuminando ogni volta dettagli diversi di cui non si era a conoscenza. Per questo motivo è soprattutto l’adulto che deve giocare, poiché è in grado, con la sua maturità, di cogliere i segnali profondi provenienti dall’essere in gioco, così da poter sempre avere uno spazio in cui rapportarsi a se stesso, senza le etichette e le maschere imposte dalla società.


Bibliografia

  • Fabbrichesi R., Cosa si fa quando si fa filosofia?, Raffaello Cortina, Milano 2017.
  • Fink E., Oasi del gioco (1957), tr. it. di A. Calligaris, Raffaello Cortina, Milano 2008.
  • Foucault M., Il governo di sé e degli altri. Corso al College de France (1982-1983), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009.
  • Rovatti P. A., “Prefazione”in Oasi della gioia di E. Fink, Raffaello Cortina, Milano 2008, p IX.

Aratea Cultura

Eugen Fink – Wikipedia

Cosa si fa quando si fa filosofia? : Fabbrichesi, Rossella: Amazon.it: Libri

L’inespresso. il paradosso della solitudine – Aratea Cultura



[1] P. A. Rovatti, “Prefazione”in Oasi della gioia di E. Fink, Raffaello Cortina, Milano 2008, p IX.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p X.

[4] R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, Raffaello Cortina, Milano 2017.

[5] Ivi, cap. 6.

[6] Ivi, p. 28.

[7] Ibidem.

[8] M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al College de France (1982-1983), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009, p. 234.

[9] R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, op. cit., p. 29.

[10] E. Fink, Oasi del gioco (1957), tr. it. di A. Calligaris, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 7.

[11] Ibidem.

[12] Cfr. nota 8.

[13] E. Fink, Oasi del gioco, op. cit., p. 12.

[14] P. A. Rovatti, “Prefazione”in Oasi della gioia di E. Fink, op. cit., p. XII.

[15] Ivi, p. 15.

[16] R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, op. cit., p. 28.

[17] E. Fink, Oasi del gioco, op. cit., p. 8.

[18] Ibidem.

Lorenzo Santini

Redattore di cinema, filosofia e narrativa