Cinema,  Letteratura

Jean Vigo e L’Atalante: un’indagine acquatica

di Francesco Formigari

Una concisa premessa

In principio, prima che il sipario si spalanchi sulla figura del regista Jean Vigo (1905-1934), occorre considerare le parole di uno studioso ai più noto, ossia Umberto Eco (1932-2016), che nell’introduzione a un’edizione dei Miti d’oggi (1957) di Roland Barthes (1915-1980) scrisse: «Ci sono due tipi di atteggiamento nei confronti dell’infinità del testo: uno è quello di Sant’Agostino, l’altro è quello dei kabbalisti». Dei due, in questa sede è rilevante soffermarsi sul primo, ossia l’approccio agostiniano. Nuovamente Eco: «Agostino sapeva che il testo sacro era infinito […], ma che poteva sempre essere sottoposto a una regola di falsificazione, per escludere ciò che il contesto non consentiva di leggere, per energica che fosse la violenza ermeneutica a cui lo si sottoponesse»1.

La presenza dell’acqua nell’opera di Jean Vigo

Tenendo ferme le parole di Eco, è ora possibile appropinquarsi all’oggetto che in queste righe s’intende esaminare. Trattasi dell’elemento acquatico all’interno della più celebre tra le (poche) opere dello sfortunato Vigo, ossia L’Atalante (1934). Nonostante il modesto successo riscosso dalla pellicola durante gli anni Trenta del secolo scorso, oggi L’Atalante non necessita di articolate presentazioni: in Italia, critici cinematografici del calibro di Enrico Ghezzi – profondo ammiratore dell’estro di Vigo – hanno contribuito in misura fondamentale alla riscoperta delle produzioni firmate dal brillante regista francese. Il medesimo discorso può essere formulato in relazione al contesto mondiale: Vigo è generalmente riconosciuto come uno tra i più rilevanti registi della storia del cinema occidentale – si pensi, in questo senso, ai tributi che molti, tra gli esponenti della Nouvelle Vague, gli riservarono: François Truffaut (1932-1984) in primis.

Ebbene: l’acqua, nella già menzionata pellicola, riveste un ruolo di primaria rilevanza. Ciò, almeno in parte, non stupisce: che Vigo avvertisse una singolare fascinazione per tale elemento risultava lapalissiano già in opere come Taris, roi de l’eau (1931), pionieristico cortometraggio caratterizzato da suggestive riprese subacquee. Tuttavia, ne L’Atalante l’acqua svolge una funzione narrativa che nell’opera dedicata al campione di nuoto Jean Taris (1909-1977) non possiede. Nel cortometraggio, infatti, lo sguardo di Vigo sembra avvolgere il sinolo composto da nuotatore ed elemento acquatico con intenti che procedono oltre il pretesto materialmente documentaristico. Per certi versi, Vigo sviluppa una singolare ricerca estetica: il regista francese immortala un corpo reale che si muove dinanzi all’occhio della cinepresa, un atleta che realizza sia potenti azioni acquatiche sia liberi movimenti ispirati a una spontanea forma di giocosità. E pone, inoltre, la questione del subacqueo, rivelandola allo sguardo degli spettatori. Entro una qualche misura, dunque, il corpo umano che Vigo ci offre tende a estendersi al di là degli ideali della statuaria classica e di quelli relativi al disegno rinascimentale. Ne L’Atalante, per converso, l’acqua non è associata – non esclusivamente, almeno – a una ricerca di ordine estetico; vi occupa, piuttosto, una posizione di fondamentale rilevanza rispetto allo sviluppo della vicenda narrata, ossia le vicissitudini dei neosposi Jean (Jean Dasté) e Juliette (Dita Parlo). Si potrebbe sostenere senza temere eccessi che la storia raccontata nella pellicola individui uno dei suoi punti cardinali proprio nell’elemento acquatico.

Dall’Atalante a Tristano e Isotta

Nella prima parte dell’Atalante, poco dopo il matrimonio tra Jean e Juliette, la stessa Juliette rivela al marito quale segno l’abbia indotta a scegliere definitivamente di sposarlo. Immergendo il proprio viso nell’acqua ad occhi aperti, dinanzi a lei si è palesata l’immagine del volto di lui: prova, secondo l’opinione comune menzionata da Juliette, dell’amore da lei avvertito per Jean. Nella seconda parte dell’opera, quando i due risultano divisi da litigi e reciproche incomprensioni, proprio Jean si getterà in acqua, roso dalla disperazione. Lo farà con l’evidente intento di riavere, seppur in forma metafisica, la sua Juliette: lo farà, dunque, per provare e provarsi l’amore che sente sull’orlo dello smembramento. Rebus sic stantibus, quale la chiave interpretativa utile a rendere conto dell’elemento acquatico? Si rende necessario uno squarcio temporale.

Tra i prodotti letterari più rilevanti rispetto al panorama romanzo di area francese è possibile annoverare il mito di Tristano e Isotta, le cui attestazioni più antiche sono state individuate nelle versioni elaborate dai misteriosi Béroul (“versione comune”) e Thomas (“versione cortese”): secondo la maggior parte degli studiosi, tali testi risalirebbero alla seconda metà del XII sec. d.C. La vicenda tristaniana, tra le più note rispetto al patrimonio mitologico della letteratura mondiale, nel corso del tempo è stata oggetto di numerosi rifacimenti: alcuni decisamente antichi, come la Tristrams Saga ok Isöndar dell’islandese Frate Roberto (1226), e altri più recenti, come la ricostruzione operata dal celebre filologo Joseph Bédier (1864-1938) agli inizi del Novecento. La storia di Tristano e Isotta è approdata anche all’ambito cinematografico: come sottolineato dalla studiosa Arianna Punzi, al 1943 risale L’éternel retour di Jean Delannoy (1908-2008), con sceneggiatura dell’arcinoto Jean Cocteau (1889-1963). Alcuni rinvengono la presenza della materia tristaniana anche all’interno dei lavori cinematografici del succitato Truffaut: si pensi al caso di vicende come quella narrata ne La femme d’à côté (1981).

Ebbene: tra i vari episodi del mito di Tristano e Isotta a noi pervenuti, ve n’è uno che in questa sede merita peculiari attenzioni. L’episodio in questione è quello del filtro d’amore, tramandato da un solo frammento di 154 versi detto “Carlisle”: tale frammento è attualmente conservato presso l’abbazia cistercense di Holm Cultram, in Inghilterra, e gli studiosi lo attribuiscono con solidi margini di certezza a Thomas. L’episodio del filtro presenta una rilevanza singolare perché tocca in maniera ravvicinata ciò che la studiosa Gioia Paradisi, in accordo con altri esperti, ha identificato come uno dei tasselli fondamentali del mito: «[…] la natura dell’amore, e in particolare il rapporto amore / dolore […]»2. I fatti sono sostanzialmente i seguenti: Tristano, cavaliere presso la corte di Cornovaglia, si reca in Irlanda per recuperare la sposa promessa al suo signore, re Marco. Ucciso il dragone che minaccia le terre irlandesi e guarito dalle fiamme avvelenate che lo avevano ferito durante la lotta, Tristano ottiene da re Gormon la figlia Isotta, la quale prima della partenza per la Cornovaglia riceve dalla madre un filtro magico volto a favorirne l’unione amorosa con re Marco. Comincia così il fatale viaggio: a bordo della nave che li sta conducendo in Cornovaglia, circondati dalle acque del mare, per errore di Brangania – ancella di Isotta – la promessa sposa e il valente cavaliere consumano il filtro, ricadendo in un amore tanto angoscioso quanto appassionante, destinato a unirli inscindibilmente per l’eternità.

Non è difficile notare come la presenza di elementi liquidi accompagni in misura consistente la scena dalla quale deriveranno tutte le peripezie di Tristano e Isotta: il mare è il teatro in cui avviene l’innamoramento, nonché una delle tessere verbali tramite le quali Thomas compone un’equivocatio poetica di ragguardevole efficacia (ossia quella che insiste sulle seguenti locuzioni: la mer, “il mare”; l’amer, “l’amaro”; l’amer, “il fatto di amare”); il filtro, invece, corrisponde al mezzo che innesca il vincolo amoroso tra Tristano e Isotta: si tratta di un oggetto dalla notevole complessità semantica, il quale è stato interpretato da Gioia Paradisi mediante una lettura che lo rende sia l’elemento in grado di scagionare i due amanti da colpe morali sia il segno in cui confluiscono retaggi culturali come quello della geis (di origine celtica) e quello del vin de royauté (a sua volta attestato in ambito celtico).

Il nesso acquatico tra Jean Vigo e il mito tristaniano

Ciò che rileva, rispetto all’escursione temporale inerente alla materia tristaniana, alberga in quel legame tra elementi liquidi e dimensione amorosa poc’anzi evidenziato. Lì, infatti, sta l’antica chiave capace di schiudere una delle interpretazioni possibili per l’elemento acquatico che all’interno dell’opera di Vigo tanta importanza detiene. Le acque di fiume che Juliette raccoglie con il proprio secchio e nelle quali Jean si tuffa sconvolto altro non corrispondono che a un filtro: il mezzo tramite il quale il sentimento amoroso che lega i due giovani si fa presente e sostanzia tutta l’irrinunciabile forza del proprio vincolo. Juliette, nell’umile filtro d’acqua, ha visto Jean. Jean, sprofondato nelle acque in cui è immersa l’Atalante, ha visto Juliette. Come il filtro tristaniano unisce coloro che ne bevono, così l’acqua diviene lo strumento che congiunge coloro che vi si rivelano reciprocamente attraverso. E l’amore che ne consegue è un legame che non può tollerare separazioni. Non casualmente, nelle scene finali dell’opera di Vigo, il buffo père Jules (Michel Simon) si carica sulle spalle la dispersa Juliette, e la riconduce così all’imbarcazione nella quale Jean la attende: père Jules agisce con la stessa violenza della predestinazione, facendosi quasi messo di Eros. Nulla può interporsi tra Jean e Juliette: esattamente come accade a Tristano e Isotta, dalle cui divise tombe crescono alberi che si intrecciano per il resto dei tempi.

Secondo la vulgata, parte del fascino promanato dalla pellicola di Vigo deriva dal fatto che la stessa riesca a coniugare mirabilmente quotidianità e profondità poetica. Interpretare Vigo attraverso il mito tristaniano fornisce indubbiamente un avallo a tale opinione. Nella vicenda di Jean e Juliette non compaiono corti lussuosamente addobbate o cavalieri riccamente ornati; tuttavia, l’amore che li lega a bordo dell’Atalante pare modellato con la stessa pasta di quello che avvince Tristano e Isotta: un amore dalla bellezza universale, comune all’intera umanità tanto in amarezza quanto in tenerezza.

Forse le considerazioni qui offerte rispondono a una «violenza ermeneutica»3, volendo recuperare le considerazioni di Eco poste in principio. In ogni caso, la speranza che anima i pensieri deposti in queste righe è che gli stessi possano fungere da stimolo a nuove disamine intorno alla preziosa opera di Vigo (oltre a quelle, comparse in anni recenti, di studiosi quali Ravesi, Brotto, Sales Gómes e altri): occhio registico capace di procedere con suadente acume tra gli umani misteri.

Bibliografia

R. Barthes, Miti d’oggi. Con uno scritto di Umberto Eco, Einaudi, Torino 2016.

Béroul, Tristano e Isotta (a cura di G. Paradisi), Edizioni dell’Orso, Alessandria 2013.

D. Brotto, Jean Vigo. Opera completa, Mimesis, Milano 2018.

F. Gambino (a cura di), Tristano e Isotta di Thomas, Mucchi, Modena 2014.

A. Punzi, Tristano. Storia di un mito, Carocci, Roma 2005.

G. Ravesi, L’Atalante (Jean Vigo 1934). Immagini del desiderio, Mimesis, Milano 2016.

P.E. Sales Gómes, Jean Vigo. Vita e opera del grande regista anarchico (a cura di G. Fofi), Cue Press, Imola 2020.

Filmografia

J. Delannoy, L’éternel retour, 1943.

F. Truffaut, La femme d’à côté, 1981.

J. Vigo, L’Atalante, 1934.

Id., Taris, roi de l’eau, 1931.

  1. R. Barthes, Miti d’oggi. Con uno scritto di Umberto Eco, Einaudi, Torino 2016, p. XV. ↩︎
  2. Béroul, Tristano e Isotta (a cura di G. Paradisi), Edizioni dell’Orso, Alessandria 2013, p. 6. ↩︎
  3. R. Barthes, op. cit., p. XV. ↩︎
Francesco Formigari

Collaboratore