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“L’ombra del vulcano” di Marco Rossari – Premio Bergamo 2024

Un articolo di Francesca Manzoni

“Che cosa finisce? L’amore? Il sesso? La stima? L’amicizia? La comprensione? L’empatia? Lo slancio? Finiscono semplicemente gli argomenti di cui parlare? Di sicuro finiscono le uova («Huevos», altro tormentone del Vulcano): uno scende a prenderle al negozio dietro l’angolo e poi non torna piú. Pensavo al riverbero, al bagliore crepuscolare dell’amore che striava le nottate estive in cui lavoravo, come il suono di una parola pronunciata ad alta voce e riecheggiata in mille pagine. Finisce qualcosa e bisogna prenderne atto, assorbire l’urto. Il Vulcano mi aiutava? Non lo so. Eppure in certi momenti trovavo conforto nelle parole del Console, trovavo amore in quel disamore lacerante.”

Quando si termina la lettura di un romanzo come L’ombra del vulcano di Marco Rossari si ha la percezione di aver ultimato qualcosa di profondamente originale, sotto molteplici aspetti differente rispetto alla maggioranza delle opere letterarie contemporanee: quasi senza accorgersene, il lettore si trova catapultato all’interno di un’estate torrida, trascorsa nei quartieri di una Milano quasi deserta, in cui un uomo, protagonista e narratore in prima persona, si trova ad affrontare sia la fine di un amore, sia l’ardua impresa di dover tradurre Sotto il vulcano di Malcom Lowry, uno dei romanzi più complessi del secondo novecento.

La vicenda amorosa e l’esperienza letteraria iniziano così, pagina dopo pagina, a compenetrarsi nella psiche di un protagonista, che, attraverso la sua esperienza personale, la “vita vera” riesce a trovare una connessione con il romanzo che sta analizzando. Allo stesso tempo, l’opera letteraria, la “vita finzionale” diventa per il protagonista un vero e proprio “compagno di bevute”, un mezzo, attraverso cui è possibile vivere a pieno quel lutto, quel vuoto lasciato dalla perdita della donna amata. 

Marco Rossari decide così di regalare al suo pubblico un romanzo che, attraverso una raffinata ironia e un’onestà talvolta brutale, mostra il dietro le quinte del lavoro del traduttore, utilizzando questa professione come un vero e proprio innesco, atto ad indagare il rapporto che intercorre tra l’io e la letteratura, nel momento esatto in cui vengono messi al cospetto della sofferenza. Tutto il dolore provocato dalla fine di un amore e dalla solitudine che ne deriva riesce a creare l’opportunità perfetta per l’instaurarsi di una profonda connessione tra il protagonista del romanzo e il Console, figura centrale all’interno dell’opera di Malcom Lowry.

Professione Traduttore e Aspirante scrittore: una premessa necessaria

La traduzione, pensavo allora, era un piú ampio ragionamento intorno al nostro rapporto con il mondo e con la nostra collocazione all’interno del tempo. Tradurre non era solo tecnica, letteratura, metrica, tradizione e via dicendo. Era prima di tutto una scelta intima, un continuo dialogo interiore – si traduce il pensiero, si traducono i sentimenti – con la vita. Era una cura volta a riannodare un discorso: con sé stessi, con la memoria, con la Storia. E allora forse tradurre voleva dire non stare mai soli: in quella solitudine io parlavo con la moltitudine degli spiriti. Con te, con il Console, con il fantasma di una coppia.

Prima di affrontare il rapporto che intercorre tra l’io e la letteratura, è necessario spendere due parole sull’importanza che viene data, all’interno di questa complessa equazione, alla professione del traduttore. Muovendosi sul confine tra narrativa finzionale e autobiografismo Marco Rossari decide di raccontare il “dietro le quinte” di quel complesso processo di traduzione che contraddistingue un opera mastodontica, poco studiata ma estremamente importante all’interno del panorama letterario internazionale: per affrontare Sotto il Vulcano di Malcom Lowry le competenze nozionistiche non sembrano essere sufficienti e diventa necessaria la mimesis, entrare nei panni dell’autore stesso per restituire all’opera quella completezza che merita. Solo in un primo momento il protagonista pensa che, per entrare nella mente di Lowry, sia necessario ripercorrere i suoi passi, vivere e scrivere circondato da quel Messico desolato che ha ispirato l’autore, ma ben presto emerge la consapevolezza che tutto ciò di cui ha bisogno è reperibile in una Milano estiva, desolata, fatta da strade semideserte, percorse con una vecchia bicicletta nel cuore della notte, e da baretti di periferia, dove, lontani dall’inebriante frenesia della metropoli, è possibile perdersi tra fiumi di disperazioni alcoliche e conversazioni stravaganti con personalità a dir poco singolari. 

Ecco che, passo dopo passo, l’esperienza del traduttore, che è sinonimo e allegoria della vita vera, diventa letteratura, sotto un duplice punto di vista: se da un lato l’esperienza di lettore e studioso dell’opera di Lowry spinge il protagonista a ritrovare e ricercare nelle pagine del romanzo che sta traducendo qualcosa in cui potersi rispecchiare, emozioni e dolori affini al suo, dall’altro questa comunanza tra arte e vita, sentita o ricercata che sia, porta alla creazione di quelle parole che noi, come lettori, stiamo leggendo. Sotto il vulcano diventa così un romanzo che, col pretesto di raccontare la prassi editoriale che contraddistingue la pubblicazione di un opera cardine della letteratura americana del secondo Novecento, mostra quell’insieme di emozioni ed esperienze capaci di creare, nella nostra contemporaneità, la necessità di scrivere e produrre nuove opere e nuova letteratura. 

In un capitolo estremamente interessante dell’opera, scopriamo infatti che il protagonista, oltre ad essere un traduttore, è anche aspirante scrittore: pubblicato il suo primo romanzo, che riscuote un discreto successo, si trova a vivere sotto il peso di un’aspettativa autoindotta, quella che veicola la ricerca spasmodica del capolavoro, la necessità di produrre qualcosa di unico e definitivo, in grado di essere canonizzato e capace di entrare nella storia. Malcolm Lowry è riuscito, come molti altri giganti della letteratura, a portare a termine questa impresa e il protagonista-narratore decide che, anche per lui, era arrivato il momento di scrivere il “Grande Romanzo”:

Da lí mi ha preso una smania che non mi avrebbe piú abbandonato per i dieci anni successivi. Lí davvero ho voluto credere in qualcos’altro. La malattia del Grande Romanzo, dell’Opera Immortale, dello Scrittore Sacrificale Immolato alla Causa (la solita febbre delle maiuscole).

Cosí all’epoca ho deciso che avrei scritto il Grande Romanzo. In un impeto schizofrenico, avrei dimostrato al mondo che io non ero i libri che stavo pubblicando in quel momento. (Il mondo, peraltro, campava indifferente). Ero pervaso di visioni. Ho cominciato a fare sogni tormentati, e anche i sogni mi sembravano letteratura. Li annotavo e mi sembravano contenere un’eco potente di disperazione e verità, ci sentivo dentro il teatro furibondo che avrei voluto portare nel libro.

Tutto era il libro.

E cosí ho cominciato a scrivere. Mi dicevo: scrivere con una smania, dissipare e ampliare, ambire ad accarezzare l’infinito.”

Sempre alternando brutale onestà e bonaria ironia, Rossari riporta subito il suo protagonista (e noi lettori insieme a lui) alla realtà: il Grande Romanzo a cui tutti gli scrittori aspirano è qualcosa che non si può creare  con un’impostazione precisa, con un intento programmatico fin dal principio, poiché la sua natura trova radici in emozioni e situazioni difficili da creare appositamente, con una precisa predisposizione. Dunque lo scrittore-protagonista, così come noi insieme a Rossari, è spinto a chiedersi quale sia l’alternativa e, soprattutto, cosa fare quando si prende coscienza che non si realizzerà mai il sogno di produrre il Grande Romanzo: proprio in quel momento capiamo che la letteratura, privata della misura del capolavoro, può solo descrivere, in forme e misure differenti, la realtà, utilizzando come unica arma quell’onestà che permette allo scrittore di mostrarsi finalmente inerme, e dunque totalmente sincero, al cospetto delle proprie emozioni e della propria vita.  

Guardare negli occhi il dolore: la letteratura come compagna di viaggio

Ad accompagnare l’esperienza letteraria del traduttore-scrittore è la fine di una decennale storia d’amore che lascia nella vita del protagonista un vuoto difficile da colmare: a fondersi con la complessa pratica editoriale che accompagna la pubblicazione di Sotto il Vulcano, è dunque la vita intima di un uomo costretto dalle circostanze a venire a patti con la solitudine, con i ricordi passati che emergono costantemente e soprattutto con una casa e una città, fino a quel momento abitate insieme alla donna amata, che piano piano si svuotano, diventando un deserto non lontano da quello descritto da Lowry nella sua opera.

Rossari affronta la tematica del lutto amoroso proponendo una visione non solo onesta e realistica, ma anche priva di cliché moraleggianti o di filosofie consolatorie: al dolore provato non vi è rimedio e la letteratura non può configurarsi come il mezzo attraverso cui il protagonista trova una tanto agognata salvezza, ma è piuttosto un “compagno di bevute” che spesso e volentieri non fa altro che amplificare la sofferenza, rievocando i ricordi passati e portando il protagonista in una spirale fatta di alcolismo, depressione e solitudine, sotto molteplici aspetti parallela a quella del Console di Lowry. Ecco che, ancora una volta il dialogo con la letteratura assume una connotazione privata e personale, diventando per il protagonista l’unica alternativa possibile alla solitudine, oltre che un gancio in grado di mantenere vivi e nitidi tutta quella gamma di ricordi che non trovano più alcun tipo di riscontro nel presente. 

“A volte bastava una luce obliqua che tagliava il palazzo davanti a casa, ed ecco che la vita – la vita con te, la vita senza di te – mi sembrava un miraggio, un sogno mai vissuto e ripercorso tante volte, strenuamente, per il terrore che svanisse dalla memoria, finché i dettagli non diventavano sempre piú saldi perché nella realtà erano sempre piú vaghi, e allora stringevo in mano una storia che non era piú vera. Tracciare due volte: vivere, scrivere; scrivere, tradurre.”

La funzione pedagogica ed educativa che spesso e volentieri investe la letteratura e il suo ruolo nella nostra società viene così decostruita, mostrando, con straordinaria razionalità, come l’atto stesso di leggere o scrivere non debba necessariamente portare un rimedio o una morale consolatoria a chi lo attua: cos’è dunque, arrivati a questo punto, un romanzo ? È un tentativo, giusto o sbagliato che sia, di rendere immortale un ricordo o un emozione, destinata altrimenti a svanire con chi la prova: è un linguaggio universale e incancellabile, in cui ogni essere umano può provare a rispecchiarsi, nell’universalità che pervade ogni singola emozione. 

Ed è proprio per questo motivo che il protagonista decide di raccontare, rivolgendosi alla donna un tempo amata, l’elaborazione di un lutto, affrontato lungo il corso di un estate torrida, trascorsa traducendo Malcom Lowry in una casa vuota e desolata. Il fine è sempre quello di rendere indelebili, attraverso l’atto di scrittura, un’ampia gamma di emozioni che, una volta consegnate al  lettore, potranno essere in grado di produrre quel medesimo senso di comunanza che ha accompagnato il protagonista nella lettura e nell’analisi del romanzo che si trova a dover tradurre. 


Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura

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