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La maternità come fine: l'(ab)uso di un modello nell’epoca contemporanea

Parlare di maternità non è sempre semplice. Gli influssi culturali, la nostra esperienza personale e in generale la visione del mondo che abbiamo ci conducono infatti, inesorabilmente, a uno sguardo non di rado univoco e polarizzante che si preclude (talvolta volutamente) allo scambio e al dialogo.  Il 2020 e la pandemia hanno però rimescolato le carte in tavola. L’avvento del Covid ha mostrato infatti chiaramente i limiti di un modello di maternità che non può dirsi “assolto”, considerando l’enorme percentuale di lavoratrici femminile (98%) sul totale dei “nuovi disoccupati” che la pandemia ha creato.  La questione dunque è più attuale che mai e comporta l’urgenza di una seria discussione che metta al centro una domanda fondamentale: quale maternità è oggi possibile

Dalla civiltà greca al dogma di Maria: la costruzione di un modello

Un modello si costruisce anche nel confronto con il suo passato. Per questo, nell’ottica della nostra analisi, appare fondamentale guardare alle società che ci hanno preceduto, partendo da quelle a noi più lontane: i greci e i romani. Popoli dunque tra loro diversi ma non dissimili nel fatto di essere fondati su una struttura sociale patriarcale, dove i pieni diritti venivano riconosciuti unicamente agli uomini e dove il ruolo della donna si definiva solo e soltanto all’interno delle mura domestiche

Per le donne, oggetto di matrimonio combinati, la maternità diveniva allora solo il mezzo per esercitare l’unica funzione a loro richiesta: la procreazione dei futuri cittadini.  Si osserva quindi, già all’epoca, una totale adesione del ruolo della donna al ruolo della madre. L’uno implica l’altro senza soluzione di continuità e se ciò è vero per i “pagani” lo è anche per gli ebrei.  Nell’ebraismo infatti l’invito biblico “Siate fecondi e moltiplicatevi” viene interpretato dagli antichi rabbini come un’imposizione al matrimonio (mal visto era il celibato) a cui tutti i credenti erano chiamati. Questo si spiega nella necessità di generare, mediante la procreazione, la nuova stirpe del popolo eletto. E così l’unione (anche in questo caso combinata) avveniva quanto prima possibile (intorno ai 18 anni) affinché portasse “frutto”. Il concepimento dunque non era più unicamente legato a dinamiche sociali e famigliari ma era compimento del disegno che Dio aveva per il popolo eletto. Così anche la figura materna si ricopriva di un’aura sacrale e immacolata e ciò non è di poco conto.  

Se infatti ci facciamo caso questi stessi valori si sono poi trasferiti all’interno della visione cristiano-cattolica definendosi pienamente nel dogma della verginità mariana. Maria rappresenta una figura di donna che a lungo è stato esaltata per le sue intrinseche qualità di purezza e sacrificio, le quali, tutt’ora, rappresentano una scala di valore nel giudizio delle scelte prese. La sacralizzazione delle maternità infatti, pur sublimata dalla sempre più evidente secolarizzazione della società, si impone ancora oggi nella raffigurazione di una donna che non può esimersi dal ruolo di madre: solo in esso si trova la sua più completa realizzazione.  

Per renderci conto di ciò non serve andare molto lontano. La narrazione mainstream, anche se oggi meno dominante, racconta una maternità anteposta all’individualità della persona. Più nello specifico si osserva come la costruzione della storia di vita di una donna, nella visione comune, sia fortemente influenzata dalla possibilità/scelta di fare o no figli. Se infatti la maternità diviene possibilità di “primaria realizzazione”, appare chiaro come ci sia una spinta per considerare ogni altro aspetto della vita come di secondaria importanza all’interno di una spirale di pregiudizi distruttiva. Questo non significa che ogni donna sia chiamata a fare un figlio a diciott’anni ma piuttosto che ogni donna si trova a confrontarsi con situazioni della realtà dove anche il solo fatto di “poter” essere una madre la pone in difficoltà. Un esempio fra tutti è quello del mondo del lavoro. Qui, fin dal colloquio di assunzione, la volontà/possibilità di maternità rappresenta un discrimine purtroppo importante nella scelta tra i candidati e sono ancora evidenti le pressioni subite, fino al mobbing, dalle lavoratrici che entrano in maternità. La donna dunque è vista come sacrificabile dal mercato del lavoro e questo perché ci si aspetta la sua totale abnegazione al ruolo di madre. Tale visione, come già detto, è il frutto di una mentalità condivisa, figlia della storia, ma dire ciò non basta.

È infatti vero che non si tratta solo e unicamente di una “visione della realtà” ma allo stesso tempo di un sistema economico che sfrutta tale mentalità senza tentare realmente di cambiarla. Per tentare di comprendere quanto appena esposto è utile guardarci ancora alle spalle e andare con lo sguardo all’800. 

“The Woman Question”

Nell’800 si iniziano a porre le prime critiche al sistema economico e politico che ci vede ancora coinvolti: il capitalismo. Guardare a tali critiche è di interesse nella misura in cui ci permettono di definire il modo in cui la visione che di maternità oggi abbiamo, sia utile (e sfruttata) da un sistema che non ha realmente a cuore le donne. Soprattutto è di interesse guardare alle critiche proposte da una saggista e attivista che purtroppo la storia ha dimenticato con troppa facilità: Eleanor Marx. 

Quest’ultima, come ci indica anche il cognome, era la figlia del ben più noto Karl Marx che fin dall’infanzia la avvicinò ai temi del socialismo e della lotta di classe. L’interesse precoce che Eleanor ben presto maturò per tali temi le permise di non fermarsi al lavoro del padre ma di ampliarlo aprendo le questioni da lui trattate anche alle donne , come avviene nell’opera “The Woman Question”. In essa infatti viene trattato il tema della maternità, o meglio: del costrutto sociale relativo alla maternità creato e abusato dal capitalismo. Il pamphlet, riprendendo il tema della sottomissione degli operai al padrone attraverso l’alienazione dovuta al lavoro, riconosce che tale condizione è condivisa dalle stesse donne. Il capitalismo infatti, afferma Eleanor, aliena le donne alla propria funzione riproduttiva costringendole al controllo da parte di una società patriarcale. L’autrice dunque non condanna la maternità di per sé ma pone in evidenza come il capitalismo riduca la donna unicamente a tale funzione poiché ciò risulta essere più funzionale in termini produttivi.  Ma in che modo? 

Un problema attuale

La risposta a questa domanda può essere ritrovata se nuovamente guardiamo al presente in un’ottica di confronto con quanto abbiamo appena detto. Oggi infatti, come due secoli fa, anteporre all’individualità della donna il suo ruolo di madre si traduce nella piena responsabilità del lavoro di cura. Con tale termine si va solitamente a intendere l’insieme dei servizi assistenziali (educazione, salute e sostegno) che dovrebbero essere garantiti alle fasce più deboli e che spesso (quasi sempre) ricadono sulle spalle delle donne. Secondo l’Istat infatti, all’interno del nucleo familiare, il 74% del lavoro di assistenza ricade sulle donne, una percentuale che denuncia un fondamentale disinteresse giustificato da fini economici.  

L’assenza di un sistema che, assieme alle famiglie, si occupi del lavoro di cura conviene ad un livello di mero guadagno poiché permette (a stati e capitale) di risparmiare, su scala globale, 10.800 miliardi euro (stime Oxfam) all’anno. Appare chiaro dunque che se tale lavoro non fosse svolto dalle donne in modo gratuito, il sistema economico si troverebbe costrette a trovare tali finanziamenti. Questo, evidentemente, non avviene. Alienando le donne mediante il loro ruolo di madre le si sacrifica nel mercato del lavoro assicurandosi la gratuità di quei servizi su cui altrimenti si dovrebbe investire. Così si riesce ad ottenere la massima produttività, sacrificando sul banco del profitto l’individualità. 

Come fare affinché ciò non avvenga?  

Decostruire il modello

Ciò che sembra essere un dogma va decostruito. La maternità non può più essere considerata un fine anteposto alla persona. È infatti necessaria un’opera di ripensamento che permetta di concepire la maternità come parte del percorso dell’individualità e non come suo fine ultimo. Solo in tal modo sarà poi possibile evitare una sacralizzazione che si fa alienazione per fini economici.  

Gli obiettivi di ciò si esplicano in un’auspicabile presa di coscienza da parte del sistema economico circa la necessità di assicurare a priori quei servizi garantiti ora dal lavoro di cura e al contempo una visione nuova della maternità come libera realizzazione d’amore.  


Sitografia:

https://www.wired.it/economia/lavoro/2021/02/02/istat-lavoro-donne-pandemia-disoccupazione/
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-03/universita-santa-croce-ruolo-donna-chiesa.html
https://articolo1mdp.it/rassegna-stampa/riconoscere-il-lavoro-di-cura-una-lezione-da-imparare-dalla-pandemia/
https://www.ingenere.it/articoli/quanto-costa-lavoro-di-cura#:~:text=Il%20lavoro%20di%20cura%20gratuito,incapace%20di%20valorizzare%20e%20restituire

https://www.arateacultura.com

Miriam Ballerini

Redattrice in Storia e Società