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Perchè “Niente di nuovo sul fronte occidentale” non può essere il miglio film agli oscar 2023?

Di Glauco Boniforti

Terzo adattamento all’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale si aggiudica un posto tra le candidature ai premi Oscar 2023 (9 nomination, tra cui Miglio film, Miglior film straniero, Miglior fotografia, migliore colonna sonora). 

Per la regia di Edward Berger, regista e sceneggiatore tedesco autore di numerosi film tv, in questa occasione ha tra le sue mani la responsabilità di dirigere l’adattamento di uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale, non solo per il valore letterario che porta con sé e che difficilmente potrà mai tramontare, ma anche per il tema universale e perpetuamente rivisitato della guerra come orrore sganciato dall’idealizzazione romantica che i secoli che ci precedono (e in particolare i trent’anni che racchiudono le due guerre del ‘900) avevano veicolato nell’immaginario di intere generazioni. 

Il compito di Berger non è da sottovalutare. I due film tratti dal romanzo di Remarque che precedono l’attuale candidato agli oscar non sono infatti di casa tedesca: Lewis Milestone dirige il primo adattamento uscito nelle sale nel 1930 (“All’ovest niente di nuovo”), Seguito nel 1979 dalla seconda rivisitazione per il cinema, che prenderà il titolo del romanzo, per la regia di Delbert Mann. Entrambi autori americani che si erano aggiudicati, fino all’anno scorso, il monopolio sugli adattamenti al romanzo di Remarque.

Il tema atemporale e inesauribile delle atrocità della Grande Guerra è ora narrato in “prima persona”, da un popolo che ha metabolizzato la rappresentazione di quanto vissuto sulla propria pelle e che si assume il delicato compito di parlare di sé stesso, un’autentico atto di auto-analisi, attraverso il vissuto di quella generazione che prese parte alla guerra di trincea sul fronte occidentale, e in particolare attraverso gli occhi di Paul Bäumer, il diciassettenne protagonista che incarna l’esperienza che precede la guerra (lo slancio romantico, la grande truffa ai danni di intere nazioni) e che poi la vive sulla propria pelle.

Nella primavera del 1917 il primo conflitto mondiale è iniziato da tre anni. Paul, che non ha ancora l’età per partire verso il fronte, decide di arruolarsi nell’esercito tedesco falsificando la delega dei genitori, così da poter prendere parte di quell’enorme progetto di carattere storico della vittoria del popolo tedesco nel primo conflitto mondiale, affascinante miraggio che veniva propagandato nelle scuole dai discorsi patriottici di dirigenti scolastici, a cui Paul assiste con partecipazione quasi estatica, suggerita dai primi piani sulle espressioni di un volto che fa da ponte per rappresentare il volto sognante e incantato della sua intera generazione, valorizzato grazie all’enorme lavoro sulla fotografia di James Friend, che bisogna riconoscere al film.

Il montaggio propone delle sequenze che rifiutano la netta separazione tra un “prima” e un “dopo” la guerra; il presagio dell’orrore e dell’atrocità è suggerito dalla colonna sonora originale di Volker Bertelmann,altro punto di forza della pellicola, che introduce lo spettatore ad una sensazione di crescente turbamento e inquietudine e che accompagnerà la narrazione dall’inizio alla fine, con una melodia che implicitamente si fa portavoce della consapevolezza che ormai nulla si poteva più salvare, dalle vite che i soldati perderanno in battaglia al significato ultimo delle azioni di massa dei combattenti, che poi altro non erano che persone estratte dal loro contesto individuale, sradicate dai loro mestieri e professioni e rese macchie invisibili di una folla indistinguibile che marciava verso un nemico sconosciuto.

Paul viene quindi gettato in mezzo al conflitto, incosciente di quanto avrebbe vissuto, e presto si rende conto della disumanità generale nella quale si ritrova, un mistura spietata di morte, sangue, sofferenza. 

Bisogna riconoscere al film il tentativo riuscito di affermarsi come opera iper-realista, grazie ad un impianto di primissimi piani e inquadrature dettagliate che riproducono senza medium letterario la guerra sulla pelle delle persone, che a questo punto perde ogni rimando a significati romantici, eroici e valorosi.

É proprio l’incontro con il “reale”, categoria squisitamente novecentesca, che è posto in rilievo dalla regia; la caduta dei miti, delle grandi narrazioni e degli slanci ideologici tipici delle generazioni precedenti alla Prima Guerra è compiuta dalle immagini del sangue, delle ferite, dei corpi riversati nel fango, traumi che saranno il battesimo di un ripensamento universale delle centenarie ideologie politiche e storiche.

Una scelta interessante sta nel condurre la narrazione su due piani separati ma che presentano una coerenza interna: da una parte la guerra che viene consumata passivamente dai soldati, precedentemente accecati dall’idea di entrare nella storia e acquisire eterna riconoscenza e ora disillusi dall’orrore del reale, dall’altra i piani alti della burocrazia, dove l’ufficiale Matthias Erzberger e la delegazione tedesca tentano di negoziare il Cessate il fuoco con gli avversari francesi.

Questa doppio livello di esposizione rafforza l’idea che la guerra sia a scapito delle masse dei lavoratori e in generale delle classi subalterne, ponendo la lente non solo sulla cronaca fedele di un momento storico ma anche sui riferimenti alle considerazioni della sceneggiatura e della regia, testimoni che la cronaca non è sufficiente se non sostenuta da una presa di posizione (che non ha nulla a che vedere con una visione politica, quanto piuttosto all’affermazione di un valore umano e universale di rifiuto della spietatezza e della violenza). 

Il film assume quindi un volto profondamente antibellico, sostenendo la necessità di richiamare a quei valori che devono essere riaffermati e rivisitati dalle nuove modalità del cinema.

Per quanto il film sia valido, esiterei ad esultare in caso di vittoria agli Oscar. Stiamo vivendo un’epoca di radicali cambiamenti storici, politici e sociali e, senza mai cessare di rivisitare in chiave contemporanea vecchie pellicole; spero che il cinema si possa affermare ora più che mai come mezzo in grado di interpretare il presente dimenticandosi, almeno entro una piccola parentesi, della malinconia di un cinema già visto, già reinterpretato, già compiuto, come il Colossal di guerra.

La sensazione è che molte produzioni abbiano rinunciato a offrire nuovi sguardi, nuove idee, nuove domande, e che l’interrogazione del grande schermo si stia lentamente chiudendo in una rassicurazione del passato. 

La rivisitazione di vecchie opere non ha nulla di negativo se sostenuta da altre produzioni che esprimono e interpretano il presente, e in effetti tra i candidati agli oscar ci sono titoli interessanti e prospettive originali che meriterebbero un più ampio respiro sopratutto nel momento della premiazione

Grande film, sì, ma che non cambierà l’ottica futura del cinema.