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Perché ”Gli spiriti dell’isola” può essere il miglior film agli Oscar 2023?

Un articolo di Anna Rivoltella

“Gli Spiriti dell’Isola” è il nuovo film diretto da Martin McDonagh, che si presenta agli Oscar 2023 con ben nove candidature, e merita di vincerli per molti motivi difficilmente riassumibili in poche pagine. Servirebbe un libro intero per rendere giustizia a ogni tema che arricchisce la pellicola, già candidata come miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio, perché contiene una complessa simbologia, seppur nella sua essenziale semplicità. Questo non è solo un film sull’amicizia tra i personaggi interpretati da Colin Farrel e Brendan Gleeson, nominati rispettivamente per miglior attore protagonista e non, ma ogni elemento appositamente scelto nell’inquadratura suggerisce velatamente un significato rilevante anche attualmente, oltre che nella trama.

L’atmosfera quasi di noia esistenziale vissuta dai personaggi non si impone mai, ma rivela sottovoce riflessioni meritevoli di attenzione. Ad esempio, il ruolo di Kerry Condon, anche lei nominata come migliore attrice non protagonista, che veste i panni di una donna, Siobhán, che riesce ad emanciparsi dal contesto completamente maschile e chiuso dell’isola di Inisherin (che vuol dire “Isola irlandese”, in questo caso collocata negli anni 20 del 1900), per trasferirsi da sola sulla terra ferma e concretizzare i suoi sogni nel mondo della letteratura. Altro elemento che da lontano, quasi silenzioso, parla al pubblico è quello della guerra. Essa non viene spiegata esplicitamente ma influenza lo stato d’animo, le relazioni e i sentimenti dei personaggi sull’Isola, che assistono inermi agli scoppi delle armi, e sentono crescere il disagio della loro inutilità rispetto alle sorti del conflitto. La vita dei personaggi è relegata alla loro terra, il mare che li separa dall’Irlanda è ripreso anche dalla distanza che separa le loro case, contornate da sconfinati prati e paesaggi desolati. Un po’ come le loro vite.

L’unico che sembra ambire a una qualche trascendenza oltre la finitezza del suo spazio e tempo è Colm Dohetry (Brendan Gleeson), dal quale parte tutta la storia. Egli un giorno decide di non essere più amico del protagonista (Colin Farrell), e chiede lui di non interferire più nella sua vita. La cosa più fastidiosa, sia per Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell) che per il pubblico, è accettare l’apparente mancanza di motivazione. Invece Colm ha le sue ragioni, anche se incomprensibili agli occhi del suo (ex) migliore amico: coltivare l’amicizia con lui gli sembra una perdita di tempo, non gli interessa più starlo a sentire, perché Colm vuole ambire all’eternità, come Mozart. Vuole che la sua musica lasci il segno indelebile del suo passaggio sul mondo, e per questo concentra tutte le sue energie nel violino, per suonare la canzone che dà il titolo in lingua originale al film: “The Banshees of Inisherin”.

Pádraic non accetta però la fine del loro rapporto, forse perché non ne comprende il motivo e non sente la stessa esigenza di immortalità, così Colm gli pone una condizione: se Pádraic gli parlerà ancora, lui inizierà a tagliarsi le dita. Automutilazione più crudele per un violinista non esiste. Qui subentra la genialità e l’originalità del taglio con cui il regista affronta il tema delle relazioni, e il ricercato motivo per cui il film merita la vittoria: il tema dello sguardo altrui, tanto caro alla filosofia. La dinamica di sguardo, ovvero di riconoscimento, attenzione, amore, ricerca e fuga che si instaura tra i due personaggi principali del film sembra l’emblema del concetto di due scrittori e pensatori diversi del secolo recente: Sartre e C. S. Lewis.

Lewis in “Quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità” distingue tra amore dono e amore bisogno. Nel film si concretizza l’egoismo di un amore capace solo di pretendere e mai di regalare. La domanda sottostante alla condizione di Colm sarebbe: “Pádraic, quanto male sei disposto a farmi, pur di soddisfare il tuo bisogno di amore?”. Vero è che Colm si taglia da solo le dita, ma lo fa solo come una sorta di ricatto morale verso Pádraic, per farlo smettere di infastidirlo. Pádraic però non riesce a smettere, il suo bisogno di amore (termine usato in questa sede come sinonimo di amicizia e attenzione, cura) è molto maggiore del desiderio che il suo amico sia felice, supera di gran lunga il rispetto della solitudine dell’altro.

A condire la profondità psicologica dei personaggi subentra Sartre che ne “L’essere e il nulla” ha descritto il desiderio umano d’amore attraverso la dinamica dello sguardo. Lo sguardo giudica sempre, e il giudizio pesa sulla coscienza di chi è guardato. Allo stesso tempo, però, lo sguardo dell’altro testimonia la mia presenza, serve a formare la mia identità che si basa sul riconoscimento reciproco. Sartre riconosce anche un desiderio in fondo egoistico, puramente egoriferito, che è quello incarnato nel film da Pádraic: se chi guarda è il soggetto dominante e chi è osservato (e quindi giudicato) è lo schiavo (in senso allegorico), ogni uomo brama in fondo che l’altro scelga liberamente e volontariamente di essere il mio schiavo. Pádraic è come un bambino che urla per chiedere attenzioni, ma senza la maturità di ammettere che le vuole. Negare il proprio bisogno di amore è forse l’inizio di ogni guerra, ogni litigio.

Quando infatti la dinamica di sguardi e riconoscimento si ammala, come nel caso narrato del film, viene a perdersi l’elemento fondamentale di libertà, di dono che rende l’amore tale, e l’amore diventa un qualcosa di preteso, che ci aspettiamo come se ci fosse dovuto da qualcuno, e ciò è completamente contrario alla natura del sentimento.

In una guerra storica e personale dove tutti escono feriti, il finale lascia uno spiraglio di speranza e fiducia nella possibilità di un terreno di compassione e comunicazione col prossimo, simboleggiato dal cane di Colm che viene accudito da Pádraic. Persino gli animali ricoprono un ruolo importante nella storia, ricco di simbologia, come l’asino a cui Pádraic è molto affezionato e riceve una sepoltura. Insomma, molti sono gli spunti di indagine metaforica. Ma, forse, il messaggio più tagliente è racchiuso nella scena finale dove un “grazie” permette ai due protagonisti di guardarsi, ancora una volta, negli occhi.


Bibliografia

–  Jean-Paul Sartre L’Essere e il Nulla

– C. S. Lewis I Quattro Amori. Affetto Amicizia Eros Carità


Anna Rivoltella

Redattrice di filosofia