Letteratura

La rappresentazione del ‘folle’. Esempi da Caproni e Sereni.

La risata Boccioni
Particolare – Umberto Boccioni, La risata, olio su tela, 1911

Si vuole prendere in esame, attraverso alcune poesie che serviranno da campione, un particolare tematico nella poetica di Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, due esponenti della stessa generazione di grandi poeti del Novecento.

Caproni tratta del ‘folle’ in una sezione de Il franco cacciatore (1982) intitolata Allegretto, in particolare in due poesie dal titolo I pugni in viso (1978) e Il fuor di senno (1978), oltreché in un testo dell’ultima fase poetica intitolato I cardini, contenuto nella raccolta postuma Res amissa (1991). Queste tre poesie costituiranno il corpus da cui si trarrà un’analisi, un profilo della figura del “pazzo”, del “folle”.

I pugni in viso

«La morte non mi avrà vivo,»
Diceva. E rideva,
lo scemo del paese,
battendosi i pugni in viso.

In questa poesia Caproni mette in scena «lo scemo del paese» (v.3), raffigurato in un gesto di autolesionismo a cui il poeta forse affida un ruolo sapienziale. Infatti l’andatura aforistica di questa sezione de Il franco cacciatore in questo caso si avvale della scontatezza, ma anche della verità parziale e indiscutibile, delle affermazioni di ‘un pazzo’. In particolare la verità di questo primo componimento sarebbe l’opposizione tra vita e morte. Infatti il primo verso, che l’autore attribuisce tramite discorso diretto allo scemo del paese, recita «”la morte non mi avrà vivo,”», che è una banalità da un certo punto di vista, ma anche una verità innegabile. Questo personaggio del ‘fuor di senno’, come viene definito nella poesia successiva, risulta funzionale, dal punto di vista dell’io poetico, a sostenere certe considerazioni di carattere gnomico-sapienziale che caratterizzano almeno parte della poetica caproniana, in particolare attorno al tema della morte e della vita, come si vedrà anche nella poesia I cardini. Un ultimo aspetto da evidenziare in questo primo testo è l’atteggiamento, proverbiale quasi, in cui è ritratto il folle, cioè quello della risata. Si potrebbe attribuire questa caratteristica al folle proprio in quanto tale, cioè in quanto persona che non si rende conto della tragedia e del dolore della vita e quindi, come un bambino, ride di tutto. Ma in questa poesia Caproni giustappone, facendoli anche rimare, i termini «rideva» con «diceva» (v.2) quindi con una parola affermativa, positiva in un certo senso (e che infatti il poeta si guarda bene dall’assumere come propria), che contiene il carattere sapienziale del componimento. Si potrebbe definire sapienziale, infatti, la volontà di esprimere attraverso massime o sentenze delle verità, o delle considerazioni affermative molto decise, riguardo i grandi temi come la vita e la morte.

Il fuor di senno

«Non si passa!», quasi
urlava. E teneva
– ritto in mezzo alla strada –
le braccia aperte, quasi
bastasse quella barriera
a bloccare l’irrompere
– fulmineo – della sera.

In questa seconda poesia si vedono delle continuità con la precedente: su tutte, la forza del linguaggio e del gesto fisico, oltre la smodatezza del folle in questione. Infatti anche qui il ‘fuor di senno’ ha la velleità di bloccare l’avvenire delle cose, «l’irrompere […] / della sera» (vv. 6-7) – dice l’io, anche solo dichiarandola e affermandola col corpo (si veda la posizione a braccia aperte dei vv. 3-4). Anche qui, il folle afferma in maniera chiassosa la propria verità (illusione, in questo caso: «quasi / urlava» ai vv.1-2), in cui si tratta un altro elemento attribuito proverbialmente ai ‘matti’ oltre al ridere, cioè l’urlo. Hanno un ruolo, inoltre, anche i gesti del proprio corpo, con cui si crea una presenza affermativa, anche dal punto di vista fisico, della gestualità, da parte del folle.

Una terza definizione caproniana del folle, oltre a “lo scemo del paese” e “il fuor di senno”, è “il demente” (stessa definizione che propone Sereni, come vedremo più avanti). Questa figura  appare  nella poesia I cardini:

I cardini

I càrdini della luce…
Dell’ombra…
                      Li conosco.
Conosco le cretacee porte
Che dànno sul mare. Sul bosco.
Ma i cardini della nascita?
I cardini della morte?…
Così, stentoreamente,
gridava, rinchiuso, il demente.
(Era, la sua ragione eversa,
la sola Cosa non persa?)

Anche qui si ripropone una forte presa di posizione da parte della figura del folle, «il demente» (v.8) viene anche rappresentato nella sua potenza fisica, come nel caso di: «gridava» (v.8), «stentoreamente» (v.7); e la repressione subita, evidente nel termine: «rinchiuso» allo stesso verso settimo. E anche qui il demente fa riferimento alla dualità in varie forme: luce – ombra e nascita – morte, oltre a quella, meno evidente forse, tra mare e bosco. Di nuovo il folle risulta essere figura sapienziale, affermativa («li conosco» (v.3) (riferito ai cardini della luce e dell’ombra)), a cui in questo caso fa da contraltare la figura dubbiosa dell’io che interviene negli ultimi due versi tra parentesi ponendo una domanda che andrebbe a rafforzare il ruolo del pazzo. L’io, il cui intervento è sancito formalmente e graficamente dall’abbandono del corsivo, si chiede se il pazzo non sia poi l’unico ad avere ragione, definendone la «ragione eversa» (v.9) «la sola Cosa non persa» (v.10) e si noti la maiuscola a evidenziarne la rilevanza.

Proprio la figura del “demente” collega la definizione del folle caproniano a quella di Vittorio Sereni. In particolare al Sereni de Gli strumenti umani (1965) con la poesia Nel sonno, dalla sezione Il centro abitato. Nella poesia, nella quarta e quinta sezione, c’è il personaggio del “demente” vittima delle angherie dei “ragazzi del bar”:

IV

Abboccherà il demente all’esca
dei ragazzi del bar?
Certo che abboccherà
                                         e per un niente
nella sua nebbia si ritroverà
dalla parte del torto.
Lo picchieranno, dopo, più di gusto.
C’era altro da fare delle domeniche?
[…]

V

E dopo che fare delle domeniche?
Aizzare il cane, provocare il matto…
Non lo amo il mio tempo, non lo amo.
[…]

In questi stralci di testo emergono due elementi della prospettiva del poeta sul “folle”. Nel secondo stralcio riportato, quello della quinta sezione, l’io usa esplicitamente la parola «matto» (v.2) evitando ogni altro sinonimo meno discriminatorio. Questo verso: «aizzare il cane, provocare il matto» precede un verso famoso e particolarmente emblematico di tutta la produzione sereniana, cioè «non lo amo il mio tempo, non lo amo» (v.3), emblema di una visione, oltre che poetica, politica e sociale, di una disillusione, un disincanto verso la propria contemporaneità.

Il taglio dell’io sulla rappresentazione del folle è decisamente più tragico in Sereni rispetto all’approccio di Caproni, un taglio che si potrebbe definire più sociale. Se ci si concentra sui primi versi di Sereni riportati, in cui si mette in scena il bullismo, si nota la discriminazione compiuta dai ragazzi del bar “sani” contro “il demente”. Qui il “matto” è dalla parte del torto, non è figura sapienziale come in Caproni, è oggetto di vessazioni e non soggetto affermativo. Infatti un elemento che contraddistingue il matto è «la nebbia» (v. 5 della quarta sezione). Cioè l’annebbiamento della ragione che porta a una reazione che probabilmente giustifica e acuisce la violenza degli aguzzini: «lo picchieranno, dopo, più di gusto» (v.6). Inoltre si evidenzia la totale assenza di elementi fisici affermativi (grida, urli come era in caproni): il folle viene semplicemente e crudelmente descritto come oggetto di passatempo dei ragazzi del bar.

Venendo ai versi della quinta sezione si può affermare che, probabilmente, la sterilità dell’Italia, «sterminata domenica» (primo verso della V sezione), che l’io disprezza e da cui si dissocia è acuita anche dal dissenso verso le angherie sociali, le ingiustizie anche quotidiane, come può essere proprio quella subita dal “matto”, dettata anche da una certa noia borghese come nel caso dei “ragazzi del bar”. Ed è forse per questo che facendo un compendio di questa noia domenicale italiana, l’io inserisce anche la provocazione del matto, ingiustizia appunto che permette la massima del verso successivo, cioè «non lo amo il mio tempo, non lo amo», che anche attraverso la ripetizione mette per iscritto un giudizio netto e irrevocabile.

Per entrambi i casi trattati direi che si può concludere sostenendo una sostanziale visione positiva del poeta verso la figura del “matto”, del “folle”. Da una parte Caproni vede nel folle un possibile alter ego dell’io, che si arrischia in sentenze di carattere sapienziale, forse scontate, quanto innegabili. Dall’altra, nel caso sereniano citato, il matto è descritto come vittima sociale, verso cui il poeta si rivolge in maniera solidale attraverso l’odio o il mancato amore verso il proprio tempo, lo stesso in cui uno dei passatempi è quello di sottomettere persone con disagi psichici e sociali.  In questo, pur non schierandosi apertamente, l’io della poesia è accostabile e vicino alla figura del folle, più che a quella dei ragazzi che lo provocano.


L’autore:

Marco Cresti, nato a Siena nel 1998. Mi sono laureato presso l’Università degli Studi di Siena, corso di Studi Letterari e Filosofici, nel 2021 con una tesi sull’autorappresentazione in musica del poeta in alcuni autori contemporanei. Attualmente frequento il corso di studi di Italianistica presso l’Università degli studi di Bologna. Mi interesso di poesia contemporanea in particolare italiana.

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